Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 22576 del 08/10/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 22576 Anno 2016
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: DI TOMASSI MARIASTEFANIA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
BRUSAFERRI GUIDO N. IL 18/03/1965
avverso l’ordinanza n. 712/2014 TRIB. SORVEGLIANZA di REGGIO
CALABRIA, del 16/12/2014
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIASTEFANIA DI
TOMASSI;

Data Udienza: 08/10/2015

Ruolo N. 63 – RGN 3418 /2015 –

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Reggio
Calabria ha respinto il reclamo di Guido Brusaferri avverso il provvedimento del
Magistrato di sorveglianza che aveva rigettato:
(I) la richiesta di liberazione anticipata per i semestri dal 16.9.2011 al 15.3.2011
5.10.2013 e 23.1.2013;
(II) la richiesta di liberazione anticipata speciale, ex art. 4 d.l. n. 146 del 2013,
con. con mod. in I. n. 10 del 2014, rilevando che l’istante era detenuto per reato
ostativo (art. 416-bis cod. pen.).
Propone ricorso il Brusaferri, personalmente, e denunzia:
(I) con riguardo alla liberazione anticipata ordinaria che non aveva commesso le
violazioni contestategli;
(II) con riguardo alla liberazione anticipata speciale, che la sua domanda era stata
proposta quando ancora non era intervenuta la legge di conversione che aveva
introdotto l’esclusione per i condannati per taluni dei reati elencati nell’art. 4-bis Ord.
Pen. e che perciò, diversamente da quanto affermato dal Tribunale, andava fatta
applicazione della legge vigente al momento della domanda.
2. Il ricorso è per ogni aspetto inammissibile.
2.1. Le doglianze relative al diniego della liberazione anticipata ordinaria
introducono argomenti di fatto, e di tenore meramente confutativo, non suscettibili di
esame in questa sede, e neppure autosufficienti
2.2 Manifestamente infondata è, quindi, la tesi che la domanda di liberazione
anticipata andava accolta perché le modifiche apportate alla disciplina della liberazione
anticipata speciale in sede di conversione, con legge n. 10 del 2014, del d.l. n. 146 del
2013 (come detto, escludendo dalla sfera d’applicazione del beneficio i condannati per
taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis ord. pen) non s’applicherebbero al condannato
che aveva fatto istanza prima di detta conversione.
Al proposito non può non richiamarsi quanto già osservato con le sentenze Sez. 1,
n. 34073 del 27/06/2014, Panno e Sez. 1, n. 3130 del 2015, Moretti, citata.
E’ sufficiente qui ricordare, anzitutto e in linea generale, che le norme in materia
di benefici penitenziari non sono norme “processuali” ma neppure costituiscono norme
incriminatrici, cui si applicano gli artt. 25 Cost. e 2 cod. pen., trattandosi più
semplicemente di disposizioni sostanziali che, pur non costituendo norme “penali” in
senso stretto (ai sensi delle disposizioni richiamate), incidono sulla durata e/o sulle
modalità di esecuzione della pena.
In ogni caso, l’evocazione di principi’ in vario modo regolanti il fenomeno della
successione di leggi penali o sostanziali nel tempo, non può in alcun modo attagliarsi
al fenomeno in esame, che concerne la sorte delle disposizioni di un decreto-legge non
recepite nella legge di conversione e che trae regola direttamente dall’art. 77 Cost., il
quale, al terzo comma, dispone che «I decreti perdono efficacia sin d ll’inizio, se non

e dal 16.9.2012 al 15.3.2013, in ragione delle infrazioni disciplinari commesse il

sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere
possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non
convertiti»,

mentre nel caso in esame nessuna regolazione legislativa risulta

effettuata.
Sicché, come rimarca C. cost. n. 51 del 1985, «indipendentemente da quello che
possa ritenersi in proposito della norma dettata con decreto-legge ancora convertibile,
la norma contenuta in un “decreto-legge non convertito” non ha […] attitudine, alla
stregua del terzo e ultimo comma dell’art. 77 Cost., ad inserirsi in un fenomeno
quarto] dell’art. 2 c.p.», per il quale vale il principio di irretroattività delle disposizioni
di sfavore o della operatività della norma penale più favorevole relativamente ai “fatti
preg ressi”.
Se riferito a una “alternanza normativa” del tipo considerato (cui è assimilabile
l’ipotesi della declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma mitius), il principio
della irretroattività della legge più sfavorevole (o della ultrattività di quelle più
favorevole) potrebbe trovare, dunque, applicazione «soltanto relativamente ai fatti
commessi nel vigore – anche se poi caducato – della “norma penale favorevole”
contenuta in un “decreto-legge non convertito” (cioè nell’orbita della vicenda di
alternatività), fatti rispetto ai quali soltanto sorge, ai fini dell’applicabilità del principio
stesso, il problema dell’operatività del risultato normativo in discorso, e rispetto ai
quali soltanto tale risultato potrebbe equipararsi a una “norma penale sfavorevole”;
non anche relativamente ai “fatti pregressi”».
In altri termini, l’ “efficacia” del decreto-legge (in tutto o in parte) non convertito
che può farsi salva è da ritenere per principio circoscritta ai soli, cosiddetti, “fatti
concomitanti”: per tali dovendosi intendere i comportamenti cui si riferisce la pretesa
azionata, non la pretesa in sé. E non può in alcun modo essere estesa sino al
riconoscimento di un diritto o di una aspettativa per comportamenti o situazioni
precedenti, solo perché la relativa domanda era ancora sub iudice al momento della
conversione del decreto.
Nessun fondamento ha, dunque, l’evocazione del principio tempus regit actum e
del canone della applicazione della legge vigente al momento della domanda, che nulla
hanno a che vedere con il problema della ultrattività della norma penale più favorevole
e che si riferiscono ai fenomeni di successione delle legge nel tempo, non a quelli
invece concernenti la «alternatività sincronica» fra produzioni normative, quali sono
sia la dichiarazione di illegittimità costituzionale sia la mancata conversione di un
decreto-legge.
3. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile e all’inammissibilità consegue, ai
sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati alla complessiva irritualità
dell’impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa
delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo
determinare in euro 1.000,00.

3

“successorio”, quale quello descritto e regolato dai commi secondo e terzo [ora

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e al versamento della somma di euro 1000,00 alla cassa delle ammende.
Così deciso il giorno 8 ottobre 2015
Il Pr sidente

Il consiglier stensore

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