Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 22537 del 05/02/2013


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 22537 Anno 2013
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: CAMMINO MATILDE

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
MARTELLOTTA ANNA N. IL 30/01/1975
avverso la sentenza n. 477/2005 CORTE APPELLO SEZ.DIST. di
TARANTO, del 14/07/2011
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MATILDE CAMMINO;

Data Udienza: 05/02/2013

sentenza in data 14 luglio 2011 la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di
Con sentenza
Taranto, confermava la sentenza emessa il 31 maggio 2004 dal Tribunale di Taranto con la quale
Martellotta Anna era stata dichiarata colpevole del reato di ricettazione duna polizza, un certificato
e un contrassegno assicurativo, reato accertato in Taranto il 22 agosto 2000, ed era stata condannata,
con l’attenuante del fatto di particolare tenuità e con le circostanze attenuanti generiche, alla pena
condizionalmente sospesa di Mesi due di reclusione ed euro 150,00 di multa.
Con il ricorso si deduce: 1) il vizio della motivazione nella parte in cui si era data rilevanza, ai fini
dell’affermazione di responsabilità, al comportamento processuale dell’imputata che non aveva
fornito alcuna giustificazione su quanto addebitatole, 2) la violazione di legge, in relazione agli
artt.157 e 159 c.p. e agli artt.129 e 531 c.p.p. in quanto alla data della sentenza era già decorso il
termine massimo decennale di prescrizione risalendo il fatto al 22 agosto 2000.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato.
La Corte territoriale si è adeguata al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità
secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di ricettazione, è necessaria la
consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto, senza che sia peraltro indispensabile
che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di
modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorché
siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune
esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto. Questa Corte ha più volte, del
resto, affermato che la conoscenza della provenienza delittuosa della cosa può desumersi da
qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell’imputato che dimostri la
consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata -o non
attendibile- indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice
della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede (Cass. sez.I1 11
giugno 2008 n.25756, Nardino; sez.I1 27 febbraio 1997 n.2436, Savic). Nella sentenza impugnata
l’assenza di plausibili spiegazioni in ordine alla legittima acquisizione della documentazione oggetto
della contestata ricettazione si pone come coerente e necessaria conseguenza di un acquisto illecito.
Va rilevato che, comunque, al giudice non è preclusa la valutazione della condotta processuale del
giudicando, unitamente ad ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella
formazione del libero convincimento, può ben considerare, in concorso di altre circostanze, la
portata significativa del silenzio mantenuto dall’imputato su circostanze potenzialmente idonee a
scagionarlo (Cass. sez.II 21 aprile 2010 n.22651, Di Pema; sez. V 14 febbraio 2006, n. 12182,

Avverso detta sentenza l’imputata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione.

5
Ferrara; sez. IV 9 febbraio 1996, n. 3241, Federici).
Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Il termine massimo di prescrizione da applicarsi nel caso in esame è quello quindicennale
(termine ordinario di dieci anni, aumentato della metà per effetto degli atti interruttivi) previsto
dalla disciplina antecedente alla legge n.251/2005, poiché alla data di entrata in vigore della
predetta legge il procedimento era già pendente in grado di appello (cfr. sentenza della Corte
Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, ai fini dell’applicazione delle
disposizioni transitorie di cui all’art. 10, comma terzo, della legge n. 251 del 2005, la pendenza del
grado di appello, che rileva per escludere la retroattività delle norme sopravvenute più favorevoli,
ha inizio con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, che deve ritenersi intervenuta
con la lettura del dispositivo (Cass. Sez.Un.29 ottobre 2009 n.47008, D’Amato; sez.V 16 aprile
2009 n.25470, Lala sez.V 16 gennaio 2009 n.7697, Vener; sez.V 5 dicembre 2008 n.2076, Serafini;
sez.VI 10 ottobre 2008 n.40976, Nobile; sez. V 19 giugno 2008 n.38720, Rocca; sez.VI 26 maggio
2008 n.31702, Serafin). Ne consegue che il termine massimo di prescrizione nel caso di specie,
risalendo il reato all’anno 2000, non è ancora decorso. Nella motivazione erroneamente si afferma
che il termine di prescrizione applicabile è quello previsto dalla legge b.25 l del 2005 (otto anni,
aumentato di un quarto per gli atti interruttivi), ma è comunque da condividersi la conclusione
dell’esclusione dell’intervenuta estinzione del reato per prescrizione.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che,
alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo
profili di colpa, si stima equo determinare in euro 1.000,00.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali e al versamento alla Cassa delle ammende di una somma di euro 1.000,00.
Così deciso in Roma il 5 febbraio 2013
il cons. est.

costituzionale n.393/2006) essendo stata la sentenza di primo grado emessa il 31 maggio 2004.

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