Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2250 del 11/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 2250 Anno 2014
Presidente: GENTILE DOMENICO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 11/12/2013

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di SCIPIONE Daniele, nato a Locri il
23.08.1978, attualmente in custodia cautelare in carcere per questa
causa, rappresentato e assistito dall’avv. Marino Maurizio Punturieri
avverso l’ordinanza n. 518/2013 del Tribunale di Reggio Calabria in
funzione di giudice dell’appello in data 31.07.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Andrea Pellegrino;
sentita la requisitoria del Sostituto Procuratore generale dott.
Massimo Galli che ha chiesto il rigetto del ricorso nonché la
discussione della difesa che ha concluso chiedendo l’annullamento
dell’ordinanza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

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1. Con ordinanza emessa in data 19.02.2013, il Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria disponeva nei
confronti di SCIPIONE Daniele la misura cautelare della custodia in
carcere in relazione al contestato delitto di cui agli artt. 12-quinquies
I. 356/1992, 7 I. 293/1991.
2. Avverso la predetta ordinanza, SCIPIONE Daniele proponeva ricorso
per riesame chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato

o, in subordine, la riforma dello stesso con applicazione di una
misura meno afflittiva.
3. Con ordinanza in data 11.04.2013, il Tribunale di Reggio Calabria, in
funzione di giudice del riesame, rigettava il ricorso e confermava il
provvedimento impugnato.
4. Con istanza ex art. 299 cod. proc. pen., la difesa di SCIPIONE
Daniele chiedeva al Giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale di Reggio Calabria la revoca o, in subordine, la sostituzione
della misura in atto con altra meno afflittiva.
5. Con provvedimento in data 09.05.2013, il Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria respingeva
l’istanza.
6. Avverso detta ordinanza veniva proposto appello ex art. 310 cod.
proc. pen. avanti al Tribunale di Reggio Calabria che, con
provvedimento in data 31.07.2013, respingeva l’impugnazione.
7. Avverso detta ordinanza, veniva proposto ricorso per cassazione con
capitolazione di un motivo unico afferente l’omessa e/o insufficiente
e/o illogica motivazione nonché la violazione di legge con riferimento
all’art. 275 cod. proc. pen..
Lamenta il ricorrente come il Tribunale di Reggio Calabria abbia
ritenuto, senza alcuna motivazione, che l’acclarata impossibilità di
reiterare il delitto in contestazione possa essere superata dal
disvalore portato allo SCIPIONE dalla presenza di contatti con il
suocero Morabito Rocco, determinando una sorta di presunzione di
pericolosità “da posizione” del tutto inaccettabile.
Contesta altresì il ricorrente come il Tribunale di Reggio Calabria non
avesse considerato:
-come, nell’ambito di un’intercettazione ambientale, lo SCIPIONE
avesse usato espressioni che dimostravano la sua precisa volontà di
“prendere le distanze” dalla famiglia d’origine della moglie;

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- il contenuto degli interrogatori dello SCIPIONE;
-la spontanea presentazione dello stesso per l’arresto;
– l’impossibile reiterazione del delitto contestato;
-l’impossibile inquinamento probatorio, anche alla luce degli operati
sequestri;
-il decorso del tempo dall’applicazione della misura cautelare;
– il provato avvenuto distacco dalla persona di Morabito Rocco;

-il contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 57/2013.
Rileva infine la non persuasività della motivazione adottata dal
Tribunale di Reggio Calabria in ordine all’inidoneità della più tenue
misura degli arresti domiciliari a fronteggiare le valutate esigenze
cautelari e l’esigenza, dimenticata dai giudici di seconde cure, di
parametrare il giudizio di revisione cautelare con il reato oggetto di
contestazione (intestazione fittizia).

CONSIDERATO IN DIRITTO

8. Il ricorso è inammissibile.
Si afferma in giurisprudenza che nella pendenza dei termini per
l’instaurazione del giudizio di legittimità avverso l’ordinanza ex art.
309 cod. proc. pen. confermativa del provvedimento genetico di
applicazione di misura cautelare, l’ambito di cognizione del
giudicante resta circoscritto all’esame di quegli elementi di novità in
grado di determinare, nella prospettiva difensiva, una rivisitazione
dell’originario quadro indiziario e cautelare a carico dell’appellante
(cfr., Cass., Sez. 1, n. 245 del 17/01/1994; Cass., Sez. 1, n. 20297
del 13/05/2010-dep. 27/05/2010, De Simone, rv. 247659, nella
quale, in applicazione del predetto principio, si è affermato che è
parimenti inammissibile in assenza di nuovi elementi, per la
preclusione derivante dalla situazione di litispendenza che prescinde
dalla formazione del cosiddetto giudicato cautelare, la richiesta di
revoca della misura cautelare personale, il cui provvedimento
applicativo sia stato già confermato dall’ordinanza di riesame
impugnata con ricorso per cassazione non ancora preso in esame).
Invero, occorre ricordare difatti che le peculiarità del sistema
cautelare rendono evidente che al termine “giudicato”, non può in
alcun modo, in tale materia, riconnettersi il rigore e l’assolutezza del

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principio sancito dall’art. 648 cod. proc. pen. ma ha il solo
significato, logicamente e giuridicamente corretto, di “preclusione
endoprocessuale”, idoneo ad impedire la reiterazione di domande su
questioni già dedotte e trattate (anche implicitamente purché
necessariamente correlate a queste), mentre sicuramente non copre
fatti e questioni deducibili, ma non dedotte e non esaminate. È
dunque principio consolidato (cfr., Cass., Sez. un., n. 14535 del

19/12/2006, Librato; Id., n. 18339 del 31/03/2004, Donelli; Id., n. 8
del 25/06/1997, Gibilras; Id., n. 11 del 08/07/1994, Buffa; Id., n. 20
del 12/10/1993, Durante; nonché Cass., Sez. 6, n. 5374 del
25/10/2002, Riccieri; Id., n. 26 del 12/11/1993, Galluccio) che,
rispetto alle ordinanze in materia cautelare, all’esito del
procedimento di impugnazione o allo scadere dei termini per
impugnare, si forma una preclusione processuale, anche se di
portata più modesta di quella relativa alla cosa giudicata, perché è
limitata allo stato degli atti e copre solo le questioni dedotte.
Tuttavia, come ricordava già da tempo la Suprema Corte (Cass.,
Sez. 5, n. 1919 del 02/10/1995, Pandolfo; Cass., Sez. 6, n. 512 del
12/03/1999, Siragusa; Cass., Sez. 6, n. 1892 del 18/11/2004,
Fontana), il divieto di bis in idem ha nel sistema processuale penale
portata più generale, trovando espressione oltre che nel divieto di un
secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) e nella disciplina
dell’ipotesi di una pluralità di sentenze (art. 669 cod. proc. pen.),
nelle norme sui conflitti positivi di competenza (art. 28 e segg. cod.
proc. pen.), ed è finalizzato ad evitare che per lo stesso fatto si
svolgano più procedimenti o si adottino più provvedimenti anche non
irrevocabili, l’uno indipendentemente dall’altro.
Ne consegue che, come non è consentito instare per la revoca di una
misura divenuta “definitiva” sulla base di argomenti che non sono
diversi rispetto a quelli già esaminati, neppure può ammettersi che,
in pendenza di altro procedimento ed esistendo una precedente
misura cautelare sub iudice, si inizi in relazione alla stessa persona e
lo stesso fatto un nuovo procedimento incidentale basato su i
medesimi elementi.
Non occorre – in conclusione – che una precedente identica istanza
sia stata definitivamente decisa per impedire che possa essere
reiterata, bastando che sia già stata posta e che penda il giudizio su

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di essa. Tale situazione vale difatti a costituire preclusione in base al
principio, anch’esso derivante dal generale divieto di

bis in idem,

della litispendenza: il quale, “in sintonia con le esigenze di razionalità
e di funzionalità connaturate al sistema”, parimenti impedisce, in
tutte le situazioni che non implicano un conflitto di competenza e non
sono accompagnate dall’esistenza di un provvedimento irrevocabile,
di riproporre e di esaminare più volte la stessa domanda (Cass., Sez.

9.

un., n. 34655 del 28/06/2005, Donati).
Fermo quanto precede, premessa la mancanza del requisito della
novità nelle prospettazioni difensive fatte valere dapprima avanti al
giudice per le indagini preliminari e poi davanti al giudice
dell’appello, condivisibile appare la motivazione resa da quest’ultimo
sul fatto che, ferma l’irrilevanza del fattore-tempo trascorso

in

vinculis dallo SCIPIONE e dell’osservanza delle prescrizioni impostegli
con la misura restrittiva, la gravità dei fatti ascritti al prevenuto
inserito in un pericoloso contesto di criminalità economica
organizzata facenti capo alle locali famiglie mafiose dei Morabito e
degli Aquino finalizzato al compimento di imponenti investimenti nel
settore della realizzazione e successiva vendita di complessi edilizi
aventi destinazione turistico-residenziale (anche attraverso

il

riciclaggio ed il reimpiego di ingenti somme di denaro di derivazione
illecita provenienti da società estere di diritto spagnolo che hanno
agito nella veste di finanziatori delle società fattivamente impegnate
in territorio calabrese nella realizzazione di siffatti lavori di
edificazione) giustifichi il permanere delle esigenze di tutela della
collettività già ravvisate dai giudici di merito nella fase cautelare,
salaguardabili solo con la misura custodiale massima.
10. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, per il disposto dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle
ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti
dal ricorso, si determina equitativamente in euro 1.000,00.
Si provveda a norma dell’art. 94 comma 1 ter disp. att. cod. proc.
pen.

PQM

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Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00
alla Cassa delle ammende.
Si provveda a norma dell’art. 94 comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen..

Così deliberato in Roma 1’11.12.2013

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