Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 223 del 11/12/2012


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 223 Anno 2013
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Di Stefano Giovanni, nato a Catania il 12.1.1967;
avverso l’ordinanza emessa il 30 aprile 2012 dal tribunale del riesame di
Messina;
udita nella udienza in camera di consiglio dell’il dicembre 2012 la
relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Enrico Delehaye, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore avv. Giuseppe Ragazzo;
Svolgimento del processo
Con l’ordinanza in epigrafe il tribunale del riesame di Messina confermò
l’ordinanza emessa il 28 marzo 2012 dal Gip del tribunale di Messina, che aveva applicato a Di Stefano Giovanni la misura cautelare della custodia in
carcere in relazione a due reati di cui all’art. 73 d.p.R. 309 del 1990 ed al reato
di cui all’art. 74 d.p.R. 309 del 1990.
L’indagato propone, a mezzo dell’avv. Giuseppe Ragazzo, ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione degli artt. 273 cod. proc. pen.; insussistenza dei gravi indizi
di colpevolezza in ordine ai reati contestati; carenza di motivazione. Osserva
che gli indizi di colpevolezza si fondano esclusivamente sul contenuto di alcune
intercettazioni che coprono un arco temporale molto breve, assolutamente inidoneo a consentire una valutazione sulla sussistenza del reato associativo, stante la impossibilità di apprezzare la ricorrenza di un vincolo stabile e duraturo. I
fatti si riferiscono a 4 anni addietro e non risultano altre pendenze o condanne
penali. Al ricorrente sono stati contestati solo due ipotesi di violazione dell’art.
73 d.p.R. 309 del 1990 in data 14.7.2008 e in data 20.9.2008. E’ evide e

Data Udienza: 11/12/2012

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l’insussistenza di un vincolo stabile e duraturo.
2) violazione degli artt. 274 e 275; insussistenza delle esigenze cautelari
anche in relazione al tempo trascorso dai fatti e della presunzione di pericolosità. Osserva che il tribunale del riesame ha erroneamente ed illogicamente ritenuto che l’indole delinquenziale dell’indagato non consente di superare la presunzione. Il tribunale non ha tenuto conto del tempo trascorso dai fatti contestati, circa 4 anni, nel corso dei quali non è stato contestato alcuna altro reato.
L’esigenza cautelare è stata quindi fondata solo sul titolo del reato. Manca un
concreto ed attuale pericolo di reiterazione, il quale invece è stato ritenuto solo
in astratto.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.
Ed invero, quanto alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza sulla partecipazione all’ipotizzato reato associativo, la motivazione dell’ordinanza impugnata è effettivamente carente ed apodittica, almeno per quanto concerne la
specifica posizione processuale del Di Stefano. A costui, infatti, risultano contestate soltanto due ipotesi delittuose di concorso nel reato di spaccio di sostanze
stupefacenti, e precisamente gli episodi verificatisi in data 14.7.2008 e in data
20.9.2008. L’ordinanza impugnata, inoltre, fa riferimento ad altre due occasioni,
in data 8.5.2008 e in data 10.9.2008, in cui il Di Stefano si sarebbe adoperato
per il recupero di crediti per conto del Recupero. Gli indizi a carico dell’attuale
ricorrente si fondano quindi esclusivamente sul contenuto di alcune intercettazioni telefoniche che coprono un arco di tempo molto ridotto, senza che sia
spiegata la loro idoneità a far apprezzare la ricorrenza di un vincolo stabile e duraturo col ritenuto sodalizio criminale ed a consentire una valutazione di sussistenza del reato associativo anche nei confronti dell’attuale ricorrente. Inoltre,
non risulta dall’ordinanza impugnata che nel corso delle lunghe indagini e fino
alla data dell’arresto, avvenuta quasi quattro anni dopo, siano emersi elementi
da cui desumere la partecipazione del Di Stefano ad altri episodi legati al traffico organizzato di sostanze stupefacenti, né risulta che sia mai stata rinvenuta e
sequestrata sostanza stupefacente a carico dell’indagato. L’ordinanza impugnata, pertanto, difetta di motivazione anche su queste circostanze, oltre che sulla
sussistenza di un vincolo stabile e duraturo.
Quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla adeguatezza della
misura, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di
commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel
caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze
che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor
compressione possibile della libertà personale» (Sez. Un., 31.3.2011, n. 16085,
Khalil, m. 249324).
In particolare, per quanto concerne il tempo trascorso dalla commissione
del fatto alla applicazione della misura, il principio enunciato è che «in tema di
misure cautelari, il riferimento in ordine al “tempo trascorso dalla commission
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del reato” di cui all’art. 292, comma secondo, lett. c) cod. proc. pen., impone al
giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché ad una maggiore distanza temporale dai
fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari. (Fattispecie di ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in relazione a fatti commessi più
di tre anni prima)» (Sez. Un., 24.9.2009, n. 40538, Lattanzi, m. 244377).
Più specificamente, è stato affermato che «in tema di misure coercitive, la
distanza temporale tra i fatti e il momento della decisione cautelare, giacché
tendenzialmente dissonante con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare,
comporta un rigoroso obbligo di motivazione sia in relazione a detta attualità sia
in relazione alla scelta della misura. (Fattispecie di intervenuta adozione della
custodia cautelare in carcere per fatti risalenti a tre anni prima)» (Sez. VI,
10.6.2009, n. 27865, Scolo, m. 244417); che «In tema di misure cautelari, la disposizione di cui all’art. 292 comma secondo lett. c) cod. proc. pen. – che prevede tra i requisiti dell’ordinanza lo specifico riferimento al “tempo trascorso dalla
commissione del reato” – impone al giudice di motivare circa il punto menzionato sotto il profilo della valutazione della pregnanza della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al “tempus commissi delicti” dovendosi ritenere che
ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponda un affievolimento delle esigenze cautelari» (Sez. II, 8.5.2008, n. 21564, Mezzatenta, m. 240112); che
«In materia di misure cautelari personali, qualora venga richiesta la custodia in
carcere per reati commessi dall’imputato in epoca non recente, il giudice, nell’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano la
misura richiesta ai sensi dell’art. 292 comma 2 lett. e) cod. proc. pen., deve procedere ad individuare, in modo particolarmente specifico e dettagliato, gli elementi concludenti atti a cogliere l’attualità e la concretezza del pericolo di reiterazione criminosa fronteggiabile soltanto con la permanenza in carcere, evidenziando il perdurante collegamento dell’imputato con l’ambiente in cui il delitto è
maturato e, quindi, la sua concreta proclività a delinquere» (Sez. VI, 15.1.2003,
n. 10673, Khiar Mohamed Zenab, m. 223967).
Orbene, nella specie, i due reati di spaccio contestati risalgono al luglio ed
al settembre 2008, e gli interessamenti per il recupero di crediti risalgono al
maggio ed al settembre 2008, mentre la misura cautelare è stata applicata solo il
28 marzo 2012, ossia quasi ben quattro anni dopo. A fronte di un periodo temporale di quasi quattro anni dai fatti oggetto di contestazione, il tribunale del riesame ha completamente omesso di compiere la necessaria e rigorosa valutazione sulla effettiva concretezza ed attualità delle esigenze cautelari, essendosi
limitato a richiamare, del tutto genericamente ed apoditticamente, il risalente
stabile inserimento nel traffico di sostanze stupefacenti, l’attività di spaccio e il
prodigarsi in relazione alle altre dinamiche dell’associazione, nonché l’indole
delinquenziale del prevenuto (che non consentirebbe di superare la presunzione
di adeguatezza della misura). Ma ciò non configura una specifica esaustiva motivazione sulle ragioni per cui permanga dopo il lunghissimo tempo trascorso
l’attualità del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quelli per cui
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si procede, anche nell’intensità tale da non consentire misure meno gravi, non

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-4 risultando tra l’altro in motivazione indicazioni sull’eventuale effettiva attuale
permanenza delle condotte addebitate all’indagato. In sostanza la concreta ed attuale sussistenza delle esigenze cautelari è stata basata esclusivamente sul titolo
del reato, mentre non sono stati indicati elementi da cui desumere l’attualità e la
concretezza di contatti col mondo del traffico di stupefacenti o con ambienti
criminali, o condotte specifiche da cui desumere allo stato il rischio di commissione di reati della stessa specie. La motivazione è altresì del tutto generica e di
mero stile anche in ordine alla valutazione della scelta della misura cautelare,
anche relativamente alla quale la motivazione deve essere particolarmente rigorosa stante la distanza temporale dai fatti. E’ poi manifestamente illogica e incomprensibile l’affermazione che l’avere usato nelle conversazioni intercettate
un linguaggio criptico impedirebbe di ipotizzare un adempimento spontaneo
delle prescrizioni relative a misure meno afflittive della custodia cautelare in
carcere.
L’ordinanza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio al tribunale di Messina per nuovo esame.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al tribunale di Messina per nuovo
esame.
La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario competente perché provveda a
quanto stabilito dall’art. 94, co. 1 ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, 1’11
dicembre 2012.

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