Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 22234 del 03/05/2016


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 22234 Anno 2016
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da :
CECCARELLI CLAUDIO N. IL 06.09.1962;
Avverso la ordinanza della CORTE D’APPELLO DI ROMA in data 14 dicembre 2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. FRANCESCO MARIA CIAMPI, lette le
conclusioni del PG in persona del dott. Giuseppe Corasaniti che ha chiesto dichiararsi
l’inammissibilità del ricorso

RITENUTO IN FATTO
1. Ceccarelli Claudio, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per
cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, con la quale è stata rigettata
la sua istanza di riparazione per l’ ingiusta detenzione subita dal 18.3.2006 al
23.8.2006 in relazione al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere
finalizzata allo spaccio di stupefacenti e per plurimi reati fine, reati da cui era stato
mandato assolto con sentenza irrevocabile.
2. La Corte territoriale ha ravvisato l’insussistenza dei presupposti del diritto alla
riparazione di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, in quanto il comportamento
dell’odierno ricorrente aveva dato corso all’ordinanza di custodia cautelare,
individuando gli estremi della colpa grave, preclusiva al riconoscimento
dell’indennizzo richiesto.
3. Il Ministero dell’Economia e Finanze si è costituito resistendo al ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO
4.

Il ricorso è infondato.

Data Udienza: 03/05/2016

Osserva la Corte che il diritto a equa riparazione per l’ingiusta detenzione,
regolato dagli artt. 314 e ss. c.p.p., trova fondamento nella condizione soggettiva
della persona sottoposta a detenzione immeritata e in tal senso ingiusta. Il quadro
sistematico di riferimento è un quadro di diritto civile ma non è quello dell’art.
2043 c.c., che appresta sanzioni contro chi produce per dolo o colpa un danno
ingiusto ad altri. Il principio regolatore è piuttosto quello della riparazione legata
ad eventi che producono il sorgere, quali conseguenze di principi di solidarietà e di
giustizia distributiva, di responsabilità da atto lecito (la distinzione tra
responsabilità per danno ingiusto ex art. 2043 c.c. e
responsabilità per atto lecito è ben chiarita da Cass. SS.UU. civ. 11/6/2003 n.
9341). È ben fermo, in materia, l’assetto delle regole generalissime che
disciplinano l’onere della prova civile ex art. 2697 c.c. posto che il procedimento
relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, quantunque si riferisca ad un
rapporto obbligatorio di diritto pubblico e comporti perciò il rafforzamento dei
poteri officiosi del giudice, è tuttavia ispirato ai principi del processo civile, con la
conseguenza che l’istante ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, la
custodia cautelare subita e la successiva assoluzione (Corte Cass. Sez. 4 sent. n.
23630 02/04/2004 – 20/05/2004) della quale è talora ritenuta irrilevante la
formula (Cass. Sez. 4^ 12/4/2000 n. 2365) e talora rilevante, nel senso che
indefettibile presupposto del sorgere del diritto sarebbe solo il proscioglimento con
una delle formule di cui all’art. 314 cod. proc. pen., comma 1. Peraltro il sorgere
del diritto è condizionato alla esistenza di una condotta del richiedente che al
tempo del processo in nulla abbia dato causa o concorso a dare causa a quella
ingiusta detenzione. L’operazione intesa a cogliere tali condizioni deve
scandagliare solo l’eventuale efficienza causale delle condotte dell’imputato che
possano aver indotto, anche nel concorso dell’altrui errore, secondo una
valutazione ragionevole e non congetturale il giudice a stabilire la misura della
detenzione (Cass. SS.UU 13/12/95 n. 43, Sez. 4^ 10/3/2000 n. 1705).
Il giudice,pertanto, deve fondare la sua decisione su fatti concreti e precisi e non
su mere supposizioni, esaminando la condotta del richiedente, sia prima e sia
dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale
conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’attività di indagine, al fine di
stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato,
ma solo se sia stato il presupposto che ha ingenerato, ancorché in presenza di
errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurazione come
illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto
(cfr. Cass. Sezioni Unite, Sent. n. 34559/2002; Cass., Sez. 4, Sent. n. 17552 del
2009).
Tanto premesso si osserva che la Corte territoriale, con motivazione adeguata, ha
enucleato,con congrua verifica degli accertati elementi di riferimento, la condotta
del richiedente ostativa all’accoglimento dell’istanza di equa riparazione.
Ha infatti evidenziato la sussistenza di plurimi e ripetuti contatti tra l’odierno
istante gli altri coindagati, contatti che il Ceccarelli ha spiegato come essere dovuti
a rapporti di natura professionale inerenti la sua attività di consulente del lavoro.
La Corte di merito ha invece ritenuto con motivazione certamente adeguata
siffatta spiegazione priva di riscontro e smentita dal tenore criptico, ambiguo e
non affatto saltuario dei numerosi colloqui puntualmente trascritti nell’ordinanza
cautelare, nonché dal contesto loco temporale degli incontri oggetto dell’attività di
appostamento della PG, descritta dagli operanti.
Il provvedimento impugnato, che definisce il procedimento per la riparazione
dell’ingiusta detenzione, supera quindi il vaglio di questa Corte che è limitato alla
correttezza del procedimento logico giuridico con cui il Giudice è pervenuto ad
accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato. Resta
invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare
adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e
la gravità della colpa e sull’esistenza del dolo. Il legislatore non ha infatti
riconosciuto incondizionatamente il diritto all’equa riparazione, ma l’ha
esplicitamente escluso allorquando il comportamento dell’indagato, come appunto

nella fattispecie de qua, abbia indotto in errore il giudice circa l’esistenza dei gravi
indizi di colpevolezza a suo carico.
5. Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il ricorrente deve essere condannato al
pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di questo giudizio in
favore del Ministero resistente che si liquidano in complessivi Euro 1000,00.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla
rifusione delle spese in favore del Ministero dell’Economia e Finanze che liquida in
complessivi € 1.000,00..

IL CONSIGLIERE E NSORE

IL RESIDENT

Così deciso nella camera di consiglio del 19 aprile 2016

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