Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 22226 del 19/04/2016


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 22226 Anno 2016
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: GIANNITI PASQUALE

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Gacesa Dragan, nato il 12/10/1965

avverso l’ordinanza n. 300/2015 del 27/03/2015 del Tribunale del riesame di
Milano

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Pasquale Gianniti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Delia
Cardia, che ha concluso chiedendo dichiararsi la inammissibilità del ricorso.

Data Udienza: 19/04/2016

RITENUTO IN FATTO

1.La Corte di appello di Milano, con ordinanza 25/2/2015, ha respinto la
richiesta formulata nell’interesse di Gacesa Dragan ed avente ad oggetto la
declaratoria di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere per
decorrenza del termine massimo di custodia cautelare ex art. 303 comma 4 lett.
c) c.p.p. a seguito di retrodatazione della data della custodia ex art. 297 comma

2.11 Tribunale del riesame di Milano, con ordinanza 27/3/2015 emessa ad
esito di udienza camerale, ha confermato l’ordinanza, che era stata emessa dalla
Corte di appello e che era stata appellata dall’imputato.

3.Avverso la suddetta ordinanza del Tribunale del riesame propone ricorso
per Cassazione l’indagato, a mezzo del proprio difensore di fiducia (che, ai fini
dell’autosufficienza del ricorso, riporta in esso la parte della propria istanza
diretta alla Corte di appello milanese)
Nel ricorso viene articolato un unico motivo, nel quale vengono dedotti vizio
di motivazione e violazione degli artt. 297 comma 3 c.p.p. e 74 d.P.R. n.
309/1990.
In sintesi, il ricorrente rileva che nel caso di specie ricorrono i presupposti
per la contestazione a catena. Ribadisce che lui è stato arrestato in data
19/1/2009 ragion per cui, in assenza di elementi di segno diverso, la condotta a
lui contestata non può non aver avuto il proprio limite in quella data (d’altronde
la stessa ordinanza impugnata afferma espressamente che la permanenza si
sarebbe protratta oltre a quella data a motivo delle condotte di due coindagati,
comunque successive al suo arresto). Richiama al riguardo la sentenza n. 48398
emessa in data 6 ottobre 2011 dalla Prima Sezione Penale di questa Corte a
sostegno dell’assunto che la decisione cautelare eseguita nei suoi confronti il
19/1/2009 segna per l’appunto il limite oltre il quale non può considerarsi
perdurante la condotta associativa a lui contestata con il secondo provvedimento
cautelare (quello del 16/11/2010).
Sotto altro profilo, il ricorrente precisa che, contrariamente a quanto rilevato
dal Tribunale distrettuale nell’ordinanza impugnata, la Corte di appello aveva
ritenuto che la originaria istanza difensiva fosse volta ad invocare la disciplina
relativa alla ipotesi in cui siano state emesse nei confronti dell’indagato più
ordinanze che dispongano la medesima misura per uno stesso fatto pur
diversamente circostanziato; mentre lui aveva dedotto l’esistenza di un fatto
diverso (oggetto della ordinanza cautelare 16/11/2010), collocato

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3.

temporalmente in epoca anteriore al primo provvedimento custodiale ed avente
ad origine dalla piattaforma investigativa sottesa alla prima misura e desumibile
dagli atti al momento della emissione della prima ordinanza. In definitiva, fin
dall’epoca di applicazione della prima misura custodiale, l’AG aveva a
disposizione tutti gli elementi necessari per emettere la seconda misura.

CONSIDERATO IN DIRITTO

inammissibile.

2.In punto di fatto, occorre premettere che in data 16 febbraio 2015 il
Gacesa ha presentato richiesta di scarcerazione per decorrenza dei termini
massimi di custodia cautelare, deducendo che:
– i delitti di cui all’ordinanza cautelare del Gip Milanese erano stati
commessi anteriormente all’emissione dell’ordinanza cautelare del Gip pisano;
-la Corte d’Appello con sentenza 27.6.2014 aveva riconosciuto il vincolo
della continuazione tra i fatti decisi dalla A.G. di Milano con quello oggetto della
sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Firenze;
-a seguito della pronuncia di incostituzionalità (n. 408/2005), la disciplina
dell’art. 297 comma 3 c.p p. ricomprendeva anche i casi in cui, pur per fatti non
commessi, gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili
dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza, come per
l’appunto si verificava nel caso di specie, nel quale il materiale investigativo era
comune a quello posto a sostegno dell’ordinanza cautelare del Gip pisano;
-in applicazione di tali principi, il calcolo dei termini di durata della custodia
cautelare doveva decorrere dal 19.1.2009, data di interruzione della sua
condotta criminosa (comprovata dal fatto che il Magistrato di sorveglianza gli
aveva concesso la liberazione anticipata relativa ai semestri 19.1.200918.7.2011 non avendo rinvenuto elementi ostativi a tale beneficio), con la
conseguenza che, applicando la disciplina di cui all’art. 297 comma 3 c.p p., la
decorrenza della misura cautelare emessa dal Gip di Milano andava anticipata al
19.1.2009 e la sua efficacia doveva pertanto essere dichiarata cessata per
decorrenza dei termini massimi di custodia.

3.Ai fini di una migliore comprensione della fattispecie di fatto, sottesa al
ricorso, conviene distinguere la vicenda pisana da quella milanese
Quanto alla prima, va ricordato che il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Pisa, con ordinanza 19/1/2009 emessa ad esito di udienza di

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1.11 ricorso è manifestamente infondato e, pertanto, va dichiarato

convalida, ha convalidato l’arresto subìto in pari data da Gacesa Dragan ed ha
applicato al predetto la misura della custodia cautelare in carcere in relazione al
reato di cui agli artt. 73 comma 1 e 80 d.P.R. n. 309/1990.
Il Gacesa è stato poi condannato per il predetto reato con sentenza della
Corte d’Appello di Firenze emessa in data 23.11.2010 e passata in giudicato il
3.11.2011.

4.Più articolata è la vicenda milanese.

ordinanza 8 novembre 2010 (notificata in data 16 novembre 2010) ha applicato
a Gacesa la misura della custodia cautelare in carcere in relazione a 4 reati:
– al reato di cui al capo A (artt. 74 comma 1 e comma 3 d.P.R. n. 309/1990
e di cui agli artt. 3 e 4 della legge 146/2006), commesso in Milano da ottobre
2007 a maggio 2009;
– al reato di cui al capo C (artt. 73 comma 1 e comma 1 bis lett. a) e comma
6, art. 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990 e di cui agli artt. 3 e 4 della legge 146/2006),
commesso in Milano il 26 febbraio 2008;
– al reato di cui al capo O (artt. 73 comma 1 e comma 1 bis lett. a) e
comma 6, art. 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990 e di cui agli artt. 3 e 4 della legge
146/2006), commesso in Settimo Milanese e Corsico tar il 4 e 1’11 dicembre
2008;
– al reato di cui al capo P (artt. 73 comma 1 e comma 1 bis lett. a) e comma
6, art. 80 cpv. d.P.R. n. 309/1990 e di cui agli artt. 3 e 4 della legge 146/2006),
commesso in Trezzano sul Naviglio e Corsico il 24/12/2008 e il 3/1/2009.
4.2. Il Giudice dell’udienza preliminare di Milano, con sentenza emessa in
data 3 febbraio 2012, ha assolto il Gacesa dal fatto allo stesso ascritto al capo C)
(relativo alla detenzione di 89 kg di cocaina detenuta in via Washington a Milano
il 28.2.2008) e lo ha condannato per la partecipazione al reato associativo di cui
al capo A e per la importazione e detenzione di alcune decine di kg di cocaina (di
cui ai capi O e P), ritenuta l’aggravante dell’ingente quantità e ritenuto il vincolo
della continuazione, alla pena di anni 20 di reclusione
4.3. La Corte di appello, con sentenza del 29/11/2012, in parziale riforma
della pronuncia di primo grado, ha ridotto la pena ad anni 16 di reclusione,
escludendo la contestata aggravante ex art. 4 L. 146/2006 e concedendo ad
alcuni imputati (tra i quali non l’odierno ricorrente) le attenuanti generiche
equivalenti alle residue contestate aggravanti.
4.4. Questa Corte regolatrice, con sentenza del 7-15 gennaio 2014 emessa
a seguito di ricorso del Procuratore Generale, ha annullato la sentenza
29/11/2012, limitatamente alla statuizione relativa all’art. 4 L. 146/2006. In

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4.1.11 Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con

conformità all’insegnamento di Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Rv. 255035, in
quell’occasione è stato osservato che l’aggravante della transnazionalità è
compatibile con il reato associativo purché il gruppo criminale organizzato
transnazionale non coincida con l’associazione per delinquere, sicché il diniego
motivato sulla base della automatica non applicabilità dell’aggravante al reato
associativo non era corretto e comportava una rinnovata valutazione.
4.5. La Corte di appello di Milano, con sentenza emessa in data 27/6/2014
ad esito di giudizio di rinvio – dopo aver dato atto che, sulla base delle

definite la responsabilità penale e la conseguente appartenenza degli imputati al
sodalizio criminoso in contestazione – ha ritenuto sussistente l’aggravante di cui
all’art. 4 della legge n. 146/2006 ed ha rideterminato la pena in anni venti mesi
cinque e giorni 10 di reclusione (in detta pena compresa la continuazione tra i
fatti in essa giudicati ed i fatti oggetto della sentenza della Corte d’Appello di
Firenze in data 23.11.2010 irrevocabile il 3.11.2011). Il Giudice di rinvio ha
osservato che il sodalizio, per il quale il ricorrente era stato irrevocabilmente
condannato unitamente ai coimputati, operava su scala mondiale come una sorta
di agenzia di servizi, «un sostanziale intermediario tra le fonti di produzione e gli
acquirenti all’ingrosso europei, senza contatti di sorta con lo spaccio di strada»,
acquirenti che, a loro volta, non potevano essere immaginati in contesti diversi
da quelli organizzati disponendo a loro volta di ingenti risorse economiche
necessarie e sufficienti ad approvvigionamenti per decine di chili di cocaina. E’
proprio il rapporto con questi gruppi organizzati che giustificava – ha affermato
la Corte di appello – l’aggravamento della pena ai sensi dell’art. 4, legge n. 146
del 2006 (citando ad esempio il sequestro di kg. 76 di cocaina destinati, dietro
corrispettivo di 500.000 euro, a un gruppo organizzato bulgaro). L’associazione
per la quale si procede – proseguivano i Giudici distrettuali – era operativa anche
in Sudannerica, a monte della catena del narcotraffico, e si caratterizza per la
ramificazione dei rapporti «reciprocamente intrattenuti tra le cellule criminose
dislocate in vari paesi d’Europa (…) indipendenti per struttura organizzativa pur
se federate». Ne deriva – ha concluso la Corte di appello – che sussiste
l’aggravante di cui all’art. 4 legge n. 146 del 2006 perché gli interlocutori
internazionali (a loro volta organizzati) con cui si sviluppano i rapporti sono a
loro volta esterni, e perché la cellula italiana del consorzio slavo, «pur se
rispondente a un medesimo capo supremo (Sarik Darko) di stanza all’estero, si
connota tuttavia di un’apprezzabile autonomia rispetto alle consorelle operanti in
altri Stati europei, composte da diversi soggetti e da distinte articolazioni
territoriali con cui si identifica, sviluppando l’attività cui è dedito a livello
transnazionale».

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statuizioni di questa Corte regolatrice, erano da intendersi irrevocabilmente

4.6. La Terza Sezione Penale di questa Corte, con sentenza 30/4/2015, ha
annullato la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano quale giudice di
rinvio, con rinvio ad altra Sezione della stessa corte, rilevando che:
– l’aggravante in questione è così contestata: «Con le aggravanti (…)
dell’essere il reato transnazionale perché commesso da un gruppo organizzato in
più di uno Stato»; detta contestazione sembra evocare la sovrapposizione pura e
semplice dell’aggravante alla fisionomia internazionale dell’associazione;
– la motivazione della sentenza si mostra contraddittoria sul punto perché da

mondiale, fungendo da tramite tra i cartelli del Sudamerica e i grandi gruppi del
narcotraffico europeo, dall’altro sembra ridurre il ruolo della “cellula” italiana a
parte autonoma di un tutto diretto dalla mano dello stesso «capo supremo»,
Saric Darko, descritto dalla rubrica come promotore, finanziatore e organizzatore
del sodalizio;
– in questo modo, però, non sembra esservi differenza alcuna con l’ipotesi
definitoria del reato transnazionale di cui all’art. 3, lett. c), legge n. 146 del
2006, secondo cui è tale quello commesso in uno Stato nel quale sia però
«implicato un gruppo organizzato impegnato in attività criminali in più di uno
Stato». Non è cioè agevole comprendere se, nel caso di specie, nel reato di cui al
capo A sia semplicemente implicato il gruppo mondiale di cui tratta la sentenza
ovvero se tale gruppo abbia dato il suo contributo alla realizzazione
dell’associazione; il che comporta la necessità di stabilire se il gruppo criminale
organizzato diretto dal Saric Darko e il sodalizio di cui al capo A si pongano – per
usare le parole di Sez. U, Adami, cit. – «come entità o realtà organizzative affatto
diverse. La locuzione “dare contributo” postula, infatti, “alterità” o diversità tra i
soggetti interessati, ossia tra soggetto agente (il gruppo organizzato) e realtà
plurisoggettiva (trattandosi, appunto, di aggregazione delinquenziale)
beneficiaria dell’apporto causale». Il fatto, per esempio, che il capo del gruppo
mondiale si identifichi con lo stesso promotore, organizzatore e finanziatore del
sodalizio di cui al capo A sembra porsi in termini contraddittori con il rapporto di
alterità tra le due realtà criminali; un rapporto di alterità che non può
certamente essere desunto dal fatto che l’associazione italiana costituisca
articolazione federata del gruppo mondiale poiché, per quanto possa essere
dotata di autonomia, essa costituirebbe pur sempre parte di un tutto che a sua
volta si caratterizza proprio per l’immedesimazione con questo tutto composito;
– la Corte di appello deve chiarire cosa intenda per “federazione”, perché tale
concetto può valere sia a definire un rapporto tra entità autonome e distinte, che
magari perseguono interessi diversi, sia una modalità organizzativa di un’unica
realtà associativa che persegue lo stesso programma delinquenziale;

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un lato attribuisce al sodalizio di cui al capo A della rubrica un respiro di natura

-costituisce, inoltre, approccio ermeneutico sbagliato dedurre la sussistenza
o meno della circostanza aggravante di cui all’art. 4, legge n. 146 del 2006
esclusivamente dalla pura e semplice descrizione statica del modo di essere di un
gruppo o di un sodalizio, poiché ciò non spiega la fase genetica dell’associazione
e l’eventuale contributo che possa avervi apportato il gruppo organizzato
mondiale. La sentenza impugnata, infatti, spiega il meccanismo di
funzionamento dell’associazione per delinquere italiana e come essa si inserisca
negli ingranaggi del gruppo organizzato mondiale, ma così facendo rischia, anche

con quelli che concorrono a definire il reato transnazionale di cui all’art. 3, legge
n. 146 del 2006;
4.7. Non risulta dagli atti a disposizione di questa Corte (ed è comunque
irrilevante ai fini del decidere) l’esito del giudizio di rinvio da ultimo disposto.

5.La Corte di appello di Milano, con ordinanza 25.2.2015, ha respinto la
richiesta di retrodatazione della data d’esecuzione della misura cautelare emessa
dal Gip di Milano l’8/11/2010 alla data del 19/1/2009, data dell’arresto in
flagranza e di applicazione della misura cautelare disposta dal Gip di Pisa,
evidenziando che non era applicabile l’art. 297 comma 3 c.p.p, in quanto non
ricorreva né l’ipotesi di più ordinanze che disponevano la medesima misura
coercitiva per lo stesso fatto, pur diversamente circostanziato, e neppure l’ipotesi
di più ordinanze, di cui la seconda avente ad oggetto fatti commessi
anteriormente all’emissione della prima misura.
Invero, secondo la Corte, in relazione al capo a) (relativo al delitto
associativo di cui all’art. 74 D.P.R. 309/90 finalizzato al traffico di stupefacenti),
al richiedente era stata contestata la partecipazione dall’ottobre 2007 al maggio
2009, e quindi anche in epoca successiva all’emissione della prima ordinanza; e,
in punto di diritto, la disciplina prevista dall’art. 297 comma 3 c.p.p. non trova
applicazione nel caso in cui il provvedimento successivo riguardi un reato
associativo e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo
l’emissione della prima ordinanza.
In definitiva, secondo la Corte, l’ordinanza cautelare, della quale si
richiedeva la retrodatazione, non poteva essere “anticipata” al 19.1.2009,
essendo stata eseguita il 16.11.2010, in presenza di una doppia pronuncia di
condanna, con la conseguenza che i termini di custodia dovevano essere
computati ai sensi dell’art. 303 comma 1 lett. d) c.p.p. (sei anni) e quindi non
erano ancora decorsi.

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per questa via, di non distinguere i fatti costitutivi dell’aggravante di cui all’art. 4

6.Avverso la suddetta ordinanza ha proposto appello il Gacesa chiedendo
l’annullamento della stessa per vizio di motivazione e per omessa applicazione
della disciplina di cui all’art. 297 comma 3 primo periodo seconda parte c.p.p..
L’appellante ha rilevato che la sua istanza era fondata sulla ipotesi di misura
emessa per fatti commessi antecedentemente all’emissione della prima
ordinanza (già desumibili dalla medesima piattaforma investigativa che aveva
fondato l’emissione di quest’ultima). Ha rilevato che la Corte aveva già ritenuto
la continuazione tra i fatti da essa giudicata e quelli già oggetto della sentenza

oggetto i fatti per cui era stato tratto in arresto). Ha contestato che le condotte
contestate al capo a) (associazione finalizzata al traffico di sostanza
stupefacente) si fossero protratte per oltre quattro mesi dopo la data di
emissione della prima ordinanza del 19.1.2009; ciò in quanto, nonostante il dato
costituito dalla imputazione formalmente contestata, la perdita della libertà
personale rappresenta un elemento fattuale di primaria rilevanza idoneo a far
ritenere recisi i legami materiali tra gli associati, in difetto di elementi di prova
contrari (in difetto cioè di manifestazioni positive di ausilio al sodalizio).
In definitiva, secondo l’appellante, operata la retrodatazione del termine
iniziale della custodia in carcere alla data del 19.1.2009, doveva essere
dichiarata la perdita di efficacia della misura cautelare (con conseguente sua
remissione in libertà) in quanto il termine massimo di custodia cautelare di anni
sei era interamente decorso.

7. Giova qui richiamare sinteticamente gli approdi cui è pervenuta la
giurisprudenza costituzionale e di legittimità nell’interpretazione della norma
dettata dall’art. 297 c.p.p., comma 3, anche a seguito della sua riscrittura ad
opera della L. n. 332 del 1995, art. 12.
Il legislatore con la norma in esame, disciplinante l’istituto cosiddetto della
“contestazione a catena”, ha voluto codificare la regula iuris, frutto
dell’elaborazione giurisprudenziale, formatasi sotto la vigenza del previgente
codice di rito, con la quale si era stabilita una deroga al principio della
decorrenza autonoma dei termini di durata massima della custodia in relazione a
ciascun titolo cautelare: ciò al dichiarato scopo di evitare la “diluizione” nel
tempo della “carcerazione provvisoria”, attuata mediante l’emissione, in momenti
diversi, nei confronti della stessa persona di più provvedimenti coercitivi
concernenti il medesimo fatto, diversamente qualificato o circostanziato, ovvero
riguardanti fatti di reato diversi, ma connessi tra loro.
Pertanto, l’art. 297 comma 3 c.p.p. nel suo testo originario (che riprendeva
la disposizione introdotta dalla L. n. 398 del 1984) stabiliva che la decorrenza del

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divenuta irrevocabile da parte della Corte di appello di Firenze (ed avente ad

termine di durata massima della custodia cautelare applicata con un’ordinanza si
sarebbe dovuta retrodatare al momento dell’esecuzione di altra precedente
ordinanza cautelare, laddove i due provvedimenti avessero riguardato lo stesso
fatto ovvero più fatti in concorso formale tra loro, oppure integranti ipotesi di
aberratio delicti o di aberratio ictus plurioffensiva (purché il fatto di reato oggetto
della seconda ordinanza fosse stato commesso in epoca anteriore all’adozione
della prima ordinanza).
Nella versione novellata nel 1995, da un lato, è stato ristretto l’ambito

retrodatazione esclusivamente con riferimento ai casi di connessione qualificata
ai sensi dell’art. 12 c.p.p., lett. b) (continuazione tra i reati) e lett. c),
limitatamente all’ipotesi di reati connessi per eseguire gli altri (connessione
teleologia); dall’altro, è stata introdotta una regola generale di retrodatazione
“automatica” (“se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che
dispongono la medesima misura… i termini decorrono dal giorno in cui è stata
eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più
grave”): automatismo, tuttavia, non applicabile laddove la seconda ordinanza
cautelare venga emessa dopo il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima
ordinanza (“la disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti
non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il
quale sussiste connessione ai sensi del presente comma”).
La portata applicativa della disposizione in esame è stata ampliata dalla
Corte costituzione per effetto, dapprima, della sentenza additiva n. 408 del 2005
(con la quale è stata dichiarata la illegittimità dell’art. 297 c.p.p., comma 3, nella
parte in cui “non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che
gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al
momento dell’emissione della precedente ordinanza”); e, poi della sentenza n.
233 del 2011 (con la quale è stata dichiarata la illegittimità dello stesso art. 297,
comma nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure
cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei
termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la
prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in
giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura).
Nella cornice normativa così tratteggiata – seguendo il percorso
argomentativo fissato dalle Sezioni Unite con due sentenze rispettivamente del
2005 e del 2006 (sent. nn. 14535/07 del 19/12/2006, Librato, Rv. 235909-1011; e 21957 del 22/03/2005, Rahulia ed altri, Rv. 231057-8-9) e tenendo in
disparte alcune situazioni processuali in un certo qual modo al limite (quali quelle
in cui i fatti-reato abbiano costituito oggetto di diversi procedimenti, pendenti

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applicativo della norma, con la previsione dell’operatività del meccanismo di

dinanzi a distinte autorità giudiziarie, in ogni caso non riunibili in ragione della
inoperatività delle norme sulla connessione: si pensi al caso dell’art. 13 c.p.p.,
comma 2 o a quello dell’art. 14 c.p.p. comma 2) – già altra Sezione di questa
Corte regolatrice (cf. Sez. 6, sent. n. 15821 del 03/04/2014, De Simone, Rv.
259771), nel ribadire la necessità (da più parti segnalata) di un complessivo
intervento chiarificatore del legislatore in materia, ha enucleato, con specifico
riferimento all’ipotesi di contestazione di reati diversi variamente collegabili tra
loro (ipotesi che ricorre nella fattispecie in esame), le seguenti tre distinte

-la prima situazione è quella in cui le due (o più) ordinanze applicative di
misure cautelari personali abbiano ad oggetto fatti-reato legati tra loro da
concorso formale, continuazione o da connessione teleologia (casi di connessione
qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo non
sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio. In queste circostanze trova
applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell’art. 297 c.p.p., comma
3, che non lascia alcun dubbio sul fatto che la retrodatazione della decorrenza
dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla
prima operi automaticamente e, dunque – impiegando le parole delle Sezioni
unite di questa Corte – “indipendentemente dalla possibilità, al momento della
emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti
oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente
dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a
giustificare le relative misure”. Detta automatica retrodatazione della decorrenza
dei termini risponde all’esigenza “di mantenere la durata della custodia cautelare
nei limiti stabili dalla legge, anche quando nel corso delle indagini emergono fatti
diversi legati da connessione qualificata” (così Corte cost., n. 89 del 1996) e si
determina solo se le ordinanze siano state emesse nello stesso procedimento
penale (così Sez. U, n. 14535/07 del 19/12/2006, Librato, cit.);
-la seconda situazione rappresenta una variante della prima, presupponendo
comunque l’accertata esistenza, tra i fatti oggetto delle plurime ordinanze
cautelari, di una delle tre forme di connessione qualificata sopra indicate, ma è
caratterizzata dall’intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatti
oggetto del primo provvedimento coercitivo. Tale ipotesi presuppone,
ovviamente, che le due o più ordinanze siano state emesse in distinti
procedimenti, ma (come hanno chiarito le Sezioni unite nelle più volte richiamate
sentenze) è irrilevante che gli stessi siano “gemmazione” di un unico
procedimento, vale a dire siano la conseguenza di una separazione delle indagini
per taluni fatti, oppure che i due procedimenti abbiano avuto autonome origini.
In siffatta diversa situazione si applica la regola dettata dal secondo periodo

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situazioni, alle quali corrispondono altrettante, distinte regole operative:

dell’art. 297 c.p.p., comma 3, sicché la retrodatazione della decorrenza dei
termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le
successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano
desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a
giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza;
-la terza situazione, infine, è quella in cui tra i fatti oggetto dei due
provvedimenti cautelari non esista alcuna connessione ovvero sia configurabile
una forma di connessione non qualificata (cioè diversa da quelle sopra

per quest’ultimo, nei limiti fissati dal codice). Questa ipotesi, che in passato si
riteneva pacificamente non riguardare l’art. 297 c.p.p., comma 3, oggi rientra
nel campo applicativo di tale disposizione codicistica per effetto della menzionata
sentenza “manipolativa” della Consulta n. 408 del 2005. Ne consegue che la
retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della misura
cautelare è dovuta “in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti
coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa
l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle
singole ordinanze”. Il giudice deve, perciò, verificare se al momento
dell’emissione della prima ordinanza cautelare non fossero desumibili, dagli atti a
disposizione, gli elementi per emettere la successiva ordinanza cautelare, da
intendersi – come sottolineato dai Giudici delle leggi – come “elementi idonei e
sufficienti per adottare” il provvedimento cronologicamente posteriore. Tale
regola vale solo se le due ordinanze siano state emesse in uno stesso
procedimento penale, perché se i provvedimenti cautelari sono stati adottati in
procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare,
oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli
elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura disposta con la seconda
ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità
giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del
pubblico ministero (così Sez. U, sent. n. 14535/07 del 19/12/2006, Librato, cit.;
conf., in seguito, su tale specifico aspetto, Sez. 2, sent. n. 44381 del
25/11/2010, Noci, Rv. 248895; Sez. 1, sent. n. 22681 del 27/05/2008, Camello,
Rv. 240099).
In tutti e tre i casi è, comunque, necessario, perché si possa parlare di
“contestazione a catena” e perché possa eventualmente trovare applicazione la
disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima
della custodia cautelare, che i delitti oggetto della ordinanza cautelare
cronologicamente posteriore siano stati commessi in data anteriore a quella di
emissione della ordinanza cautelare cronologicamente anteriore (in ques

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considerate del concorso formale, della continuazione o del nesso teleologico;

senso, ex plurimis, Sez. 6, sent. n. 31441 del 24/04/2012, Canzonieri, Rv.
253237).

8. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Tribunale del riesame di
Milano, nella impugnata ordinanza 27 marzo 2015, ha fatto buon governo dei
principi di diritto innanzi tratteggiati, svolgendo, con motivazione congrua e priva
di vizi di manifesta illogicità, le seguenti considerazioni:
– la Corte d’appello aveva correttamente ritenuto non applicabile al caso in

indefettibile, costituito dal fatto che l’imputato è stato raggiunto dalla seconda
misura cautelare in relazione al reato associativo (delitto permanente, c.d. a
contestazione aperta) per il quale la condotta ascritta si protrae sino al maggio
2009. Tale dato è oggetto di una pronuncia di merito che, in quanto tale non può
essere disattesa, rivalutata o ritenuta insussistente dal giudice incidentale della
cautela. In altri termini, non risulta che la Corte d’appello, nel pronunciarsi sulla
penale responsabilità dell’appellante, abbia ritenuto di determinare una diversa
data in relazione alla partecipazione del Gacesa, determinandola o fissandola ad
una data anteriore o quanto meno alla data dell’arresto avvenuto il 19/1/2009.
Nel caso in esame non si è di fronte ad una incolpazione preliminare, ma ad un
giudizio di merito che ha condannato l’imputato in relazione “al sodalizio
criminoso descritto in epigrafe ” e la contestazione copre l’arco temporale
dall’ottobre 2007 al mese di maggio 2009;
– la Corte di appello – in applicazione del principio affermato da consolidata
giurisprudenza di legittimità (principio in base al quale, in tema di associazione
per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo dell’indagato
non esclude la permanenza della partecipazione dello stesso al sodalizio
criminoso, che viene meno solo nel caso, oggettivo, della cessazione della
consorteria criminale ovvero nelle ipotesi soggettive, positivamente acclarate, di
recesso o esclusione del singolo associato) – dapprima nel giudizio di merito e,
poi, nell’ordinanza 25/2/2015, aveva evidenziato come non fossero state
acquisite evenienze positive, indicative di una dissociazione da parte
dell’imputato, tal da comportare una diversa (ed anteriore) cessazione
dell’appartenenza alla struttura criminosa; si ricavava, infatti, dalle motivazioni
della sentenza e dai capi d’imputazione cristallizzata dalla doppia pronuncia di
condanna che questi aveva un ruolo di direzione e organizzazione sul territorio
italiano della importazione e distribuzione dello stupefacente, coordinando i
soggetti preposti alla custodia, al trasporto e alla consegna della droga (cfr. capo
d’imputazione sub A), come dimostrava il fatto che lo stesso veniva trovato in
possesso da parte della polizia slovena della somma di 537.000 euro in contanti

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esame l’istituto della c.d. contestazione a catena, difettandone un presupposto

laddove e di contro l’associazione aveva continuato ad operare fino a quando,
dopo l’arresto di Gacesa, Stijepociv, Udrih ai quali venivano sequestrati 215
chilogrammi di cocaina in Tirrenia e 18 chilogrammi di cocaina a Pontremoli,
parte del complessivo carico di 233 chilogrammi di cocaina, 27 chilogrammi della
medesima sostanza venivano sequestrati solo il 20.5.2010;
-la giurisprudenza di legittimità, in un diverso contesto (relativo alla fase
cautelare e alla incolpazioni preliminare), aveva avuto modo di precisare che, ai
fini dell’operatività della regola della retrodatazione dei termini di custodia

seconda ordinanza rispetto alla data di emissione della prima deve risultare
positivamente (non essendo sufficiente l’assenza della prova della posteriorità
degli stessi, in quanto la previsione contenuta nel comma terzo dell’art. 297 cod.
proc. pen. costituisce eccezione rispetto alla disciplina generale di cui al primo
comma della norma medesima, secondo la quale gli effetti di tale misura
decorrono dalla data di esecuzione dell’ordinanza applicativa);
-la giurisprudenza citata dalla difesa (a sostegno della tesi della applicabilità
nel caso di specie della disciplina dell’art. 297 comma 3 c.p.p.) atteneva alla fase
cautelare e prima che sia intervenuta una pronuncia di merito, la quale, una
volta intervenuta (come nel caso in esame, nel quale è stata ritenuta la penale
responsabilità dell’imputato per un delitto associativo protrattosi anche dopo la
carcerazione per un delitto fine dell’organizzazione criminale), non consente al
giudice incidentale di rivalutarne la data di cessazione del delitto permanente al
fine di applicare la disciplina della c.d. contestazione a catena e la conseguente
retrodatazione della data di esecuzione della misura cautelare (peraltro – occorre
qui aggiungere con riguardo alla sentenza n. 48398 del 2011, emessa da questa
Corte e richiamata dal ricorrente – nella fattispecie sottesa a quella sentenza era
stata ritenuta cessata la partecipazione – ad una associazione criminosa volta al
commercio di stupefacenti al momento dell’arresto – di un sodale avente un ruolo
meramente subalterno ed esecutivo, mentre, nella fattispecie sottesa al presente
procedimento, il ricorrente viene indicato con sentenza passata in giudicato come
soggetto avente un ruolo di direzione e di organizzazione della importazione e
della distribuzione dello stupefacente, ruolo che espletava con il coordinamento
dei soggetti preposti alla custodia, al trasporto ed alla consegna della droga).
In definitiva, il Tribunale per il riesame, investito dell’appello avverso
l’ordinanza che aveva escluso l’applicabilità della disciplina dell’art. 297 comma 3
c.p.p per mancanza di un requisito indefettibile (anteriorità della condotta
delittuosa rispetto a quella per la quale è intervenuta la misura cautelare per la
quale si richiedeva la retrodatazione), ha correttamente ritenuto di non poter
disattendere l’esito del giudizio di merito (che nel caso in esame aveva

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cautelare, la sussistenza del presupposto dell’anteriorità dei fatti oggetto della

condannato l’appellante per il delitto associativo contestato come commesso fino
al maggio 2009, epoca successiva alla data dell’arresto in flagranza avvenuto il
19 gennaio 2009), dando corretta applicazione a consolidata giurisprudenza di
questa Corte.

9. Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod.
proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in

di inammissibilità (Corte cost., sent. n. 186 del 2000), anche al versamento a
favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo
determinare in euro 1000.
Copia del presente provvedimento deve essere poi trasmesso al direttore
dell’istituto penitenziario competente perché provveda a quanto stabilito dall’art.
94 c. 1 ter disp. stt. del c.p.p.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della cassa delle
ammende.
La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmesso
al direttore dell’istituto penitenziario competente perché provveda a quanto
stabilito dall’art. 94 c. 1 ter disp. Att. del c.p.p.
Così deciso il 19/4/2016.

mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa

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