Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 22075 del 12/04/2018


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 22075 Anno 2018
Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
TAGLIAVIA FRANCESCO nato il 20/02/1962 a PARTINICO

avverso l’ordinanza del 12/10/2016 della CORTE APPELLO di PALERMO
sentita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA;
lette le conclusioni del PG Dott. PAOLO CANEVELLI, che ha chiesto rigettarsi il
ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali;
lette le conclusioni dell’Avvocatura Generale dello Stato per il Ministero
dell’Economia e delle Finanze che ha chiesto dichiararsi inammissibile o, in
subordine, rigettarsi il ricorso, con condanna alle spese.

Data Udienza: 12/04/2018

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Palermo, con ordinanza del 12/10/2016 rigettava la
richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata ex art. 314 cod. proc.
pen. dall’odierno ricorrente, Tagliavia Francesco, per la custodia cautelare in carcere patita a seguito di ordinanza del GIP di Palermo del 25/11/2010, dal
30/11/2010 fino al 11/4/2012 in relazione alle imputazioni per il reato di associazione mafiosa, più precisamente di partecipazione alla famiglia della consorteria Cosa Nostra radicata in Partinico.

tenza di assoluzione per non aver commesso il fatto dall’imputazione associativa,
resa in data 11/4/2012 dal Tribunale di Palermo, che lo condannava alla pena di
mesi 9 di reclusione per il distinto delitto di una concorrente imputazione di danneggiamento aggravato dall’art. 7 del D.L.vo 152/1991, contestata per avere
danneggiato unitamente ai Paradiso e Brolo, in concorso tra loro, l’autovettura di
Cataldo Giuseppe, figlio di Cataldo Salvatore nella cui controversia con Lunetto
Rosario sia l’imputato che il Paradiso che il Brolo erano intervenuti a “mediare”.
Successivamente in secondo grado, la Corte di appello di Palermo, con sentenza
del 7/5/2013, divenuta irrevocabile il 18/11/2013, confermava l’assoluzione per
l’addebito associativo e dichiarava, previa esclusione dell’aggravante di cui
all’art. 7 D.L.vo 152/91, in merito alla distinta imputazione di danneggiamento,
non doversi procedere per difetto di querela.

2. Avverso il sopra ricordato provvedimento di rigetto ha proposto ricorso
per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, Tagliavia Francesco,
deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la
motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen..
a. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della colpa grave ostativa al riconoscimento della riparazione.
Il ricorrente lamenta l’erronea interpretazione di elementi decisivi, la valutazione di elementi di fatto che nulla hanno a che vedere con l’indagato e il travisamento di fatti acclarati con sentenze passate in giudicato.
La responsabilità del Tagliavia verrebbe ravvisata nelle frequentazioni dello
stesso con due soggetti malavitosi, uno dei quali suo parente, senza motivare
però sull’oggettiva idoneità di dette frequentazioni ad essere valutate quali indizi
di complicità.
La Corte di Appello si sarebbe soffermata unicamente sul contenuto dell’ordinanza cautelare omettendo di dare adeguato rilievo a tutti gli elementi favorevoli al Tagliavia come quanto emerso dall’interrogatorio del predetto, le risultanze dei procedimenti di merito sfociati tutti in sentenze di assoluzione e le consi-

Il procedimento di primo grado a carico del Tagliavia si concludeva con sen-

derazioni fatte nelle stesse pronunce, dei due soggetti ritenuti cattive frequentazioni del Tagliavia.
Il ricorrente lamenta che il giudice della riparazione avrebbe travisato la natura delle frequentazioni tra il Tagliavia e il Paradiso, vecchio amico, e il Brolo,
cugino, arrivando a ravvisare l’assoluta attendibilità delle propalazioni degli stessi nel corso di alcune intercettazioni, ritenute, invece, assolutamente inaffidabili
in tutte le pronunce di merito.
L’attendibilità dei due soggetti, non sarebbe stata assolutamente provata

del Tagliavia sarebbe soltanto quella di aver trascorso una piccolissima parte del
suo tempo con il Paradiso Elviro ed il Brolo Gianfranco, all’epoca incensurati.
Il ricorrente rileva che nulla poteva sapere della presunta appartenenza a
cosa nostra, circostanza smentita dalle sentenze passate in giudicato, degli stessi, non avendo vissuto le dinamiche del paese, in quanto reduce da una lunga
carcerazione. L’unico incontro accertato tra i tre, sarebbe stato il convivio per festeggiare la sua scarcerazione.
Nessun profilo di colpa sarebbe, quindi, ipotizzabile a carico del Tagliavia per
un’unica occasione di frequentazione dei due. Né lo stesso Tagliavia poteva sapere – si sostiene in ricorso- che i due, non appartenenti ad ambienti malavitosi,
millantavano appartenenze inesistenti.
Il provvedimento impugnato sarebbe incorso in un travisamento della prova
attribuendo attendibilità alle conversazioni tra il Paradiso e il Brolo, rilevatesi delle “fanfaronate”. Il ricorrente si duole che la Corte territoriale invece di apprezzare, la condotta del Tagliavia sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, se tale condotta avesse ingenerato la falsa apparenza
della sua configurabilità come illecito penale, abbia erroneamente ritenuto integrati gli estremi della colpa grave ravvisandola in alcuni comportamenti del Tagliavia che non poteva certamente immaginare cosa si raccontavano a sua insaputa il Paradiso ed il Brolo. Inoltre non vi sarebbero prove di assidua frequentazione dei tre, né il sentore del fatto che si trattasse di soggetti malavitosi, essendo gli stessi incensurati e dediti ad attività lecite.
Gli stessi sarebbero stati indagati solo a causa delle loro vanterie mendaci.
Pertanto, conclude il ricorrente, tutti gli elementi che la Corte di appello ha
utilizzato per ritenere una colpa o un dolo ostativo al riconoscimento del diritto
all’equa riparazione, non risulterebbero causalmente collegati alla custodia cautelare subita, o quanto meno non né stato adeguatamente motivato il nesso causale. L’ordinanza impugnata si limiterebbe ad elencare elementi di mero sospetto, emergenti dalla notizia di reato, quali la frequentazione con i Paradiso e Brolo
desunta da un’unica cena intercorsa tra loro e dalle intercettazione.

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mentre gli stessi sono stati tacciati di mendacio e di inaffidabilità. L’unica colpa

b. Contraddittorietà fra giudicati
Nel ricorso ci si duole che l’ordinanza impugnata si ponga in netto contrasto
con altra emessa dallo stesso organo giudicante relativa ad altro soggetto, Tagliavia Giovanni, che aveva analoga posizione. In suo favore sarebbe stata riconosciuta una riparazione per l’ingiusta detenzione patita pari ad € 126.833,43,
proprio sul presupposto che lo stesso soggetto attinto dagli stessi capi di incolpazione del Tagliavia Francesco, non ha dato adito, con colpa, all’emissione dell’ordinanza restrittiva della libertà personale.

3. Il P.G. presso questa Corte in data 24/1/2018 ha rassegnato ex art.
611 cod. proc. pen. le proprie conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

4.

In data 30/3/2018 ha rassegnato le proprie conclusioni il Ministero

dell’Economia e delle Finanze per mezzo dell’Avvocature Generala dello Stato che
ha chiesto dichiararsi inammissibile, ovvero rigettarsi il ricorso, con conseguente
condanna alle spese.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricorso
va rigettato.

2. Va premesso che è principio consolidato nella giurisprudenza di questa
Corte Suprema che nei procedimenti per riparazione per ingiusta detenzione la
cognizione del giudice di legittimità deve intendersi limitata alla sola legittimità
del provvedimento impugnato, anche sotto l’aspetto della congruità e logicità
della motivazione, e non può investire naturalmente il merito. Ciò ai sensi del
combinato disposto di cui all’articolo 646 secondo capoverso cod. proc. pen., da
ritenersi applicabile per il richiamo contenuto nel terzo comma dell’articolo 315
cod. proc. pen.
Dalla circostanza che nella procedura per il riconoscimento di equo indennizzo per ingiusta detenzione il giudizio si svolga in un unico grado di merito (in sede di corte di appello) non può trarsi la convinzione che la Corte di Cassazione
giudichi anche nel merito, poiché una siffatta estensione di giudizio, pur talvolta
prevista dalla legge, non risulta da alcuna disposizione che, per la sua eccezionalità, non potrebbe che essere esplicita. Al contrario l’art. 646, comma terzo cod.
proc. pen. (al quale rinvia l’art. 315 ultimo comma cod. proc. pen.) stabilisce
semplicemente che avverso il provvedimento della Corte di Appello, gli interessati possono ricorrere per Cassazione: conseguentemente tale rimedio rimane contenuto nel perimetro deducibile dai motivi di ricorso enunciati dall’art. 606 cod.
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Chiede, pertanto, l’annullamento della ordinanza impugnata.

proc. pen., con tutte le limitazioni in essi previste (cfr. ex multis, sez. 4, n. 542
del 21.4.1994, Bollato, rv. 198097, che, affermando tale principio, ha dichiarato
inammissibile il ricorso avverso ordinanza del giudice di merito in materia, col
quale non si deduceva violazione di legge, ma semplicemente ingiustizia della
decisione con istanza di diretta attribuzione di equa somma da parte della Corte).

3. Le doglianze proposte nell’interesse del ricorrente sono infondate.

motivi del rigetto.
L’art. 314 cod. pen., com’è noto, prevede al primo comma che “chi è stato
prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver
commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla
legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, costituisce
causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato
dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della
custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza
di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla
deduzione della parte (cfr. sul punto questa Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002,
Guadagno, Rv. 226004).
In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che,
in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi
dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini
fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la
condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole
di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. Unite n. 43 del 13/12/1995
dep. il 1996, Sarnataro ed altri, Rv. 203637)
Poiché inoltre, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi
ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto primo
comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, tra-

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La Corte d’Appello di Palermo motiva in maniera ampia e circostanziata sui

scuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento
dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso.
In altra successiva condivisibile pronuncia è stato affermato che il diritto alla
riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato ha tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria o se ha tenuto una condotta che abbia

vanza di leggi o regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi
nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (sez. 4, n. 43302 del 23.10.2008, Maisano, rv.
242034).

4. Il provvedimento impugnato si palesa coerente e logico, sia nella ricostruzione dei fatti sia nella valutazione della condotta del ricorrente.
Il rigetto dell’istanza di riparazione si fonda essenzialmente sulla valutazione
del materiale probatorio utilizzato dagli stessi giudici del merito in relazione al
quale la Corte ritiene di poter affermare con assoluta certezza che sia ipotizzabile, quale causa sinergica alla genesi della disposta custodia cautelare, una condotta gravemente colposa, se non dolosa, del ricorrente che impedisce di accogliere l’istanza di riparazione; in particolare viene valorizzata la partecipazione
del Tagliavia ad incontri e trattative finalizzate a ricomporre contrasti tra imprenditori facenti riferimento a diversi schieramenti locali.
A ben guardare, dunque, diversamente da quanto si ritiene in ricorso, si
tratta di qualcosa che va ben oltre le ambigue frequentazioni.
Come rileva il provvedimento impugnato, indubbia appare l’appartenenza
degli stessi imprenditori all’ambiente malavitoso. Il Cataldo, uno dei soci in contesa era stato implicato nel 2006 nell’occultamento di un cadavere di un capomandamento soppresso con il metodo della lupara bianca e l’attività societaria
aveva costituito il punto di confluenza delle cointeressenza di un altro socio il Lunetto e di un pluripregiudicato.
Del resto anche le modalità di svolgimento dell’attività cosiddetta di “mediazione” attraverso il danneggiamento, acclarato in dibattimento e non perseguito
per difetto di querela, venuta meno l’aggravante del metodo mafioso, di
un’autovettura di proprietà del figlio di uno dei soci in contesa tra loro appare
sintomatico di un atteggiamento criminale del soggetto che correttamente è sta-

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posto in essere, per evidente negligenza, imprudenza o trascuratezza o inosser-

to valutato in termini di colpa sinergica all’emanazione del provvedimento cautelare.
Il giudice della riparazione ha legittimamente evidenziato, in tal senso, che il
Tagliavia ha speso, sostanzialmente, la propria caratura criminale, con fama di
bandito violento, per risolvere una controversia relativa ad affari economicamente rilevanti radicati in quello stesso contesto territoriale che dieci anni prima aveva conteso alla mafia locale. L’odierno ricorrente, infatti, aveva formato e capeggiato un gruppo armato di malavitosi che sul finire degli anni 90 si era posto in

conteso il controllo del territorio partinicese (approfittando della detenzione a
quel tempo del locale capomandamento Vito Vitale, onde s’era sfiorata una guerra di mafia in piena regola: fra l’altro, il principale sodale del Tagliavia, Alduino
Francesco Paolo, era in quel drammatico frangente caduto ucciso in un agguato
mafioso, mentre come già noto lo stesso Tagliavia si era reso responsabile di
tentato omicidio).
Non va dimenticato -come si legge nel provvedimento impugnato- che il Tagliavia non solo era reduce da una lunga detenzione carceraria di dieci anni, ma
prima di far rientro a Partinico aveva dovuto espiare una misura di prevenzione
personale all’isola d’Elba.

5. Con motivazione ampia ed articolata, nonché corretta in punto di diritto e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità- i giudici della riparazione
evidenziano che, nelle condizioni soggettive descritte e con tali trascorsi alle
spalle, chiunque per semplice buon senso avrebbe senz’altro tenuto un basso
profilo, dovendo di necessità essere consapevole del fatto. che ogni sua condotta
appena meno che trasparente sarebbe stata oggetto di attenzione e vaglio immediati da parte della polizia e dell’autorità giudiziaria. Ed invece, secondo quanto e rimasto comunque accertato in entrambi i gradi del giudizio di merito (a dispetto quindi dell’assoluzione ovvero del proscioglimento conseguiti dal ricorrente), una volta rientrato in quel di Partinico il Tagliavia Francesco effettivamente
aveva preso ad intrattenere stretti rapporti con il Paradiso Elviro e con Brolo
Gianfranco (che peraltro era un suo cugino), che erano in modo indiscutibile e
palmare due malavitosi, i quali, come rivelato dalle numerose conversazioni captate in ambientale nel corso delle indagini ed elencate sommariamente alle pagg.
26/30 della sentenza d’appello, vantavano apertamente la loro militanza in Cosa
Nostra (fra l’altro assumendo espressamente di esserne affiliati, ancorché poi il
Paradiso pur riportando in primo grado condanna in ordine al delitto di cui all’articolo 416 bis c.p. nell’ambito dello stesso giudizio a carico del Tagliavia Francesco ne sia invece stato assolto in grado d’appello, ritenendo in proposito la Corte

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aperta contrapposizione rispetto alla consorteria “Cosa nostra” alla quale aveva

potersi trattare di esternazioni vanagloriose o in qualche caso addirittura truffaidine: pagg. 24 /33 della sentenza d’appello; quanto al Brolo, a suo carico risulta
invece essersi proceduto separatamente).
La Corte palermitana, condivisibilmente, evidenzia che, a prescindere dal
rapporto parentale tra il Tagliavia ed il Brolo, quest’ultimo ed il Paradiso conoscevano perfettamente la storia criminale e lo spessore delinquenziale del Tagliavia, come si può desumere tra l’altro dal tenore di una conversazione tra i
due, verificatisi il 17/09/2009, riportata a pag. 235 dell’ordinanza cautelare e

tinico il Tagliavia Francesco si faceva rispettare per la storia che aveva avuto,
perché aveva dimostrato di sapere essere pericoloso e perché si era saputo fare
la galera’. Ed inoltre, anche nella diversa conversazione datata 20/10/2009, caduta sotto intercettazione ambientale e intercorsa tra il Paradiso Elviro ed il cugino Vincenzo (pag. 220 o.c.c. e pag. 84 della sentenza di primo grado) il primo
ribadiva al secondo che il Tagliavia era “quotato” in ambito criminale e che per
tale ragione la consorteria mafiosa partinicese s’era fatta carico del suo sostentamento durante la lunga espiazione della pena inflittagli in via definitiva fino a
2009 (ed è proprio da tale conversazione che ha tratto origine l’addebito al Tagliavia, formalizzato testualmente nel capo d’accusa, di essersi giovato durante
la detenzione delle consuetudini solidaristiche proprie delle consorterie mafiose).
Del pari – si legge ancore nel provvedimento impugnato- non è controvertibile che, sempre messi in disparte i suoi legami familiari con il Brolo, il Tagliavia
Francesco fosse a sua volta perfettamente a conoscenza della caratura criminale
del Paradiso Elviro (come sinteticamente riconosciuto anche nella sentenza assolutoria d’appello, pagina 59 penultimo paragrafo).
La circostanza, dunque, che il Paradiso e Brolo sia poi stati assolti nei giudizi
di merito non li affranca certamente dalla loro caratura criminale, sia pure in parte amplificata e millantata dagli stessi. E nulla toglie alla valutazione in termini di
colpa del Tagliavia rispetto all’emanazione del provvedimento cautelare di cui è
stato destinatario.
Va rilevato, infine, al di là dell’ovvia considerazione che si tratta di decisioni
diverse, che non c’è contraddizione con il diverso decisum che si assume esserci
stato per il figlio Tagliavia Giovanni, per la evidente diversità delle posizioni processuali (la stessa Corte palermitana, nel provvedimento impugnato, dà atto che
il figlio ebbe a sostituire il padre solo in alcuni incontri).

6. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente
al pagamento delle spese del procedimento

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nella quale il Paradiso discorrendo con il Brolo riconosceva senz’altro che “a Par-

Il ricorrente va altresì condannato alla rifusione delle spese al resistente Ministero dell’Economia e delle Finanze che, alla luce dei pertinenti e puntuali motivi versati in atti dall’Avvocatura dello Stato, tesi efficacemente a contrastare
quelli di cui al proposto ricorso, vengono liquidati come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese :A
processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente
che liquida in euro mille.

Il CojTigliere este sore
enzo P z la

Il Presidente
Pateip Picciall

Così deciso in Roma il 12 aprile 2018

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