Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21993 del 01/02/2018


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 21993 Anno 2018
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GALLI STEFANO nato il 24/01/1960 a ROMA

avverso la sentenza del 03/06/2016 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO MARIA ANDRONI°
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GABRIELE
MAZZOTTA
che ha concluso per
Il Proc. Gen. conclude per l’annullamento con rinvio
Udito il difensore
L’AVVOCATO DICHIARA DI RINUNCIARE ALLA RELAZIONE E IL PRESIDENTE LA
DA’ PER LETTA.

il difensore presente si riporta ai motivi

e

cz(k/D

Rzt-41-1-11-_

Data Udienza: 01/02/2018

RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 3 giugno 2016, la Corte d’appello di Roma ha confermato la
sentenza del Tribunale di Roma del 16 gennaio 2014, con la quale l’imputato era stato
condannato, per il reato di cui all’art. 10 ter del d.lgs. n. 74 del 2000, perché nella qualità
di legale rappresentante della IES s.r.1., nonché firmatario della dichiarazione dei redditi
relativamente all’anno di imposta 2008, non aveva versato nei termini previsti per il
versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’imposta sul valore

581.076,00.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza si censura la violazione degli artt. 10 ter
del d.lgs. n. 74 del 2000 e 45 cod. pen., perché la Corte d’appello avrebbe
illegittimamente rigettato l’eccezione della difesa volta a dimostrare l’assoluta impossibilità
di adempiere all’obbligazione tributaria da parte del ricorrente, tale da assurgere a causa
di non punibilità ex art. 45 cod. pen.
In particolare, la difesa evidenzia, come già aveva fatto in sede d’appello, che
l’impossibilità ad adempiere sarebbe dipesa, soprattutto, dalla mancata attuazione del
piano di risanamento inizialmente prospettato per salvare la società dalla crisi nella quale
versava; piano in funzione del quale l’imputato era stato nominato legale rappresentate
della IES s.r.1, sulla base di un accordo intercorrente tra la società e le banche, per un
tentativo di ristrutturazione del debito. La mancata attuazione del piano di risanamento
rappresentava, pertanto, un evento del tutto estraneo alla sfera di controllo del Galli,
inevitabile e quindi non rimproverabile. A sostegno di questa tesi, si richiamano i più
recenti orientamenti di legittimità, che riconoscono l’applicazione dell’art. 45 cod. pen.
anche ai reati tributari e, in particolare, al reato di cui all’art. 10 ter del d.lgs. n. 74 del
2000 e si ricorda, altresì, che l’imputato avrebbe assolto tutti gli oneri di allegazione
necessari a provare la crisi di liquidità della società e la concreta impossibilità di evitare
quanto poi accaduto. Sulla base di ciò si ritiene illegittima la decisione della Corte
d’appello, perché basata sulla preferenza per una corrente interpretativa più severa in
tema di riconoscimento della forza maggiore quale causa di non punibilità dei reati fiscali.
E si sostiene che anche quest’ultimo filone giurisprudenziale avrebbe sviluppato
argomentazioni in linea con la possibilità di assolvere l’imprenditore in casi simili a quello
che ha visto coinvolto il Galli, avendo riconosciuto l’attribuibilità dell’inadempimento
tributario a cause di forza maggiore quando l’insolvenza derivi da fatti non imputabili
all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause
indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono dal suo dominio finalistico.

aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per l’ammontare complessivo di €

2.2. – Con un secondo motivo, di ricorso si censurano vizi della motivazione.
Il primo luogo, la difesa lamenta la carenza di motivazione sulla doglianza
concernente l’applicazione dell’istituto ex art. 45 cod. pen., perché i giudici del gravame si
sarebbero limitati a richiamare apoditticamente l’orientamento giurisprudenziale ritenuto
più opportuno, senza spiegare le ragioni per cui quest’ultimo fosse preferibile rispetto
all’impostazione interpretativa menzionata nell’atto d’ appello. Parimenti, la difesa ritiene
carente la motivazione perché la Corte d’appello non si sarebbe pronunciata sul

all’obbligazione tributaria, ossia il “naufragio” del piano di risanamento per la conclusione
del quale l’imputato era stato appositamente nominato legale rappresentate della IES s.r.l.
Sul punto la Corte si sarebbe limitata a richiamare la prima sentenza, senza rispondere
concretamente alle doglianze prospettate. Contraddittoria risulterebbe – secondo la
prospettazione difensiva – isarebbè la motivazione relativa all’esame dell’elemento
soggettivo del reato contestato, dalla quale sarebbe dipeso, oltretutto, l’illegittimo diniego
di conversione della sanzione da reclusione a pena pecuniaria. Si sostiene, infatti, che la
Corte d’appello avrebbe rigettato l’ipotesi difensiva in punto di responsabilità sulla base
dell’ accettazione del rischio (da parte dell’imputato) di non poter pagare il debito IVA
verso lo Stato, con chiaro riferimento al dolo eventuale, forma più tenue dell’elemento
psicologico intenzionale, mentre, nel paragrafo immediatamente successivo, avrebbe
escluso la conversione della sanzione in virtù dell’entità della somma dovuta e
dell’intensità del dolo dimostrato, riferendosi, pertanto; intensità che sarebbe
incompatibile con il dolo eventuale. I giudici di secondo grado avrebbero ripetuto la
contraddizione in seguito, con l’utilizzo del termine “intenzione criminale”, che sarebbe
anch’esso in contrasto logcio con la mera accettazione del rischio.
2.3. – Con un terzo motivo, si censura la mancata assunzione di una prova decisiva
per non avere la Corte d’appello consentito la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale
ex art. 603, comma 1, cod. proc. pen., diretta ad acquisire le dichiarazioni degli ulteriori
testi indicati dalla difesa nell’istanza ex art. 468 cod. proc. pen., che il Tribunale aveva
ritenuto di non ammettere per manifesta sovrabbondanza della lista testimoniale. Secondo
il ricorrente, limitare a soli tre testi l’escussione testimoniale avrebbe compromesso
fortemente il diritto di difesa e lasciato l’istruttoria dibattimentale priva di fonti dichiarative
idonee a chiarire definitivamente quale fosse la situazione economica della società e
descrivere nel dettaglio il ruolo del Galli come amministratore, tanto più considerando le
forti lacune presenti nell’impugnata sentenza con riferimento alla mancata valutazione del
naufragio del piano di risanamento tentato dalla società e all’incomprensibile qualificazione
dell’intensità dell’elemento psicologico.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3

fondamentale elemento in grado di dimostrare l’inevitabile l’impossibilità di adempiere

3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – Il primo motivo di doglianza – con cui si censura il mancato riconoscimento
della causa di forza maggiore ex art. 45 cod. pen., che sarebbe integrata dall’inevitabile e
non ipotizzabile naufragio del piano di risanamento aziendale – è manifestamente
infondato. Infatti, contrariamente a quanto asserito dalla difesa, nella giurisprudenza di
legittimità non sussiste alcuna divergenza di vedute in ordine al riconoscimento della
causa dì non punibilità ex art. 45 cod. pen. nell’ambito dei reati tributari e, di

punto, infatti, non si riscontra un orientamento “più morbido” contrapposto a uno “più
severo”, bensì un’evoluzione concettuale, tramite la quale questa Corte, prendendo le
mosse dal principio per cui anche in materia di reati tributari può riconoscersi la causa di
forza maggiore, configurabile, a seconda dei casi concreti, in una imprevista e
imprevedibile indisponibilità del denaro necessario ad adempiere all’obbligazione tributaria
(Sez. 3, n. 5905 del 7/02/2014), ha specificato le condizioni necessarie affinché possa
ritenersi integrata e dimostrata la causa di forza maggiore, richiedendosi, a tal proposito,
un onere di allegazione relativo, non solo alla crisi di liquidità dell’azienda, ma anche
all’impossibilità di fronteggiare detta crisi tramite il ricorso da parte dell’imprenditore ad
idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato possibile
per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntale
adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili
azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di
recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad
assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà
e ad egli non imputabili (ex plurimis Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013). Quest’ultima
impostazione è stata correttamente posta alla base della sentenza d’ appello che, tra le
allegazioni di parte, non ha riscontrato alcuna prova del comportamento diretto a porre in
essere tutte le azioni necessarie per fronteggiare la crisi di azienda. Al contrario dalle

conseguenza, in rifermento al reato di cui all’art. 10 ter del d.lgs n. 74 del 2000. Sul

stesse è apparso evidente che l’imputato ha distratto le somme attive presenti in bilancio
in favore del pagamento degli stipendi dei dipendenti, compiendo, pertanto, una specifica
scelta di politica imprenditoriale che, in quanto tale, come risulta anche dalla
giurisprudenza citata dal ricorrente, esclude espressamente la non punibilità per cause di
forza maggiore, data l’insussistenza della non inevitabilità dell’inadempimento fiscale

(ex

plurimis Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015; Sez. 3, n. 05/05/2015; Sez. 3, n. 10120 del
01/12/2012). Tale elemento – in aggiunta al fatto che l’imputato era stato nominato
amministratore delegato della società un anno prima rispetto alla sottoscrizione del piano
di risanamento, che lo stesso aveva firmato la dichiarazione per l’anno d’ imposta 2008 e
che, sulla base di quanto dichiarato dal funzionario dell’Agenzie delle Entrate anche a
4

/k)

seguito della contestazione bonaria dell’omissione di quanto dovuto non aveva fornito
alcuna riposta né aveva inoltrato richieste di rateizzazione del debito – rende del tutto
legittimo il mancato riconoscimento della non punibilità per causa di forza maggiore, per la
totale mancanza di prove in grado di dimostrare il compimento di qualsivoglia sforzo da
parte dell’imputato per evitare l’insolvenza tributaria, nonostante il fallimento del piano di
ristrutturazione aziendale.
3.2. – Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Sulla base di quanto affermato sub 3.1. la Corte d’appello non è incorsa in alcuna lacuna
motivazione in ordine all’applicabilità della causa di forza maggiore ex art. 45 cod. pen., e
neppure, in ordine alla valutazione del piano di risanamento inevitabilmente fallito in virtù
del quale, secondo la difesa, l’imputato sarebbe stato nominato amministratore della
società. A tal proposito va segnalato che la difesa non aveva presentato specifiche
doglianze in tal senso nell’atto d’appello, essendosi limitata a descrivere la generica
situazione di crisi economica in cui verteva l’azienda al momento del compimento del reato
contestato, alla quale aveva contribuito, insieme ad altri fattori, anche il fallimento del
piano di risanamento. La Corte d’appello, pertanto, non era investita di uno specifico
obbligo in punto di motivazione, dovendosi limitare alla valutazione della situazione
economica complessiva e della posizione del Galli rispetto alla stessa. I giudici del
gravame hanno correttamente compiuto quest’analisi prendendo in considerazione la
totale inerzia da parte dell’imputato nell’adempimento del debito fiscale a carico della
società, nonché la distrazione delle somme da esso effettuata a favore della soddisfazione
di crediti diversi rispetto a quello erariale, elementi destinati a prevalere sull’inevitabilità
del naufragio del piano di risanamento e quindi idonei ad escludere l’applicazione della
causa di non punibilità. Sul punto, pertanto, non è ravvisabile alcuna omissione.
Dalla motivazione, inoltre, non emerge alcuna contraddizione in ordine all’esame
dell’elemento soggettivo del reato. È chiaro, infatti, che la Corte d’appello si è riferita al
concetto di “accettazione del rischio” in senso puramente atecnico: non ha qualificato

l’elemento psicologico della fattispecie di reato, ma solo descritto una specifica scelta
consapevole compiuta dall’imputato, ossia quella di accettare l’incarico di amministrare la
IES s.r.l. pur essendo a conoscenza della stagnante situazione economica della stessa. Il
concetto di “accettazione del rischio”, pertanto, non si rifersice all’elemento psicologico del
dolo eventuale, ma viene valutato dalla Corte d’appello (correttamente) come situazione
di fatto idonea ad escludere la non punibilità per cause di forza maggiore conseguente
all’imprevedibile fallimento del piano di risanamento aziendale, data la consapevolezza dei
rischi collegati all’incarico assunto. Ciò si desume palesemente dal fatto che i giudici del
gravame, valutando (in questo caso propriamente) l’elemento soggettivo del reato al fine
di statuire in ordine alla conversione della sanzione, si sono riferiti all’ intensità del dolo
5

A)

”dimostrata

nell’intera

fattispecie”,

distinguendo

così,

l’elemento

psicologico

complessivamente valutato durante l’intero iter criminis e la situazione di consapevole
accettazione del rischio conseguente all’assunzione dell’incarico, relativa ad un momento
specifico, oltretutto preliminare di molto rispetto all’effettiva consumazione del reato e
quindi irrilevante ai fini della valutazione dell’intenzionalità della condotta criminosa. E del
tutto legittimamente la Corte distrettuale ha riscontrato l’intensità del dolo sulla base di
diversi convergenti elementi, osservando che: Galli aveva assunto l’incarico di

sottoscrizione del piano di risanamento aziendale; lo stesso (soggetto professionale
qualificato con spiccate capacità tecniche) non poteva ignorare la grave situazione
economica di crisi dell’impresa; egli aveva personalmente firmato la dichiarazione dei
redditi dalla quale risultava il debito di imposta; egli aveva destinati parte dell’attivo
societario alle retribuzioni del lavoro dipendente; era rimasto completamente inerte
nonostante le sollecitazioni dell’agente riscossore. Orbene, da tali elementi emerge con
chiarezza – come già visto – che il Galli aveva piena e solida coscienza e volontà di non
versare all’erario le ritenute effettuate nel periodo di imposta considerato.
Conseguentemente, deve ritenersi legittima la mancata sostituzione della sanzione alla
reclusone, con quella al pagamento della pena pecuniaria, vista non solo l’intensità del
dolo, ma, soprattutto, come bene evidenziato dai giudici del gravame, anche l’entità
dell’imposta evasa. La combinazione dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo
conferisce, infatti, al reato commesso quel sufficiente livello di gravità, tale da escludere
legittimamente la sostituzione della sanzione, sulla base del principio per cui, nel valutarne
l’opportunità, il giudice non è tenuto a considerare tutti i criteri di cui all’art. 133 cod.
pen., ben potendo esercitare la sua discrezionalità motivando sugli aspetti ritenuti decisivi
in proposito (ex plurimis Sez. 5, n. 10941 del 26/01/2011; Sez. 2, n. 25085 del
18/06/2010). Ciò detto, si ritiene che la Corte d’appello abbia complessivamente e
correttamente assolto il proprio obbligo motivazionale. Infatti, la “stringatezza” della
motivazione che la difesa lamenta deve essere necessariamente valutata in relazione al
caso concreto, non essendo possibile semplicemente riferirsi alla brevità della motivazione
in termini di righe o di pagine. Orbene, nel caso di specie, i giudici del gravame non si
sono sottratti al loro obbligo specifico, motivando correttamente, se pur con sinteticità, in
ordine a tutti i profili essenziali sollevati dalla difesa con l’atto di gravame.
3.3. – Inammissibile è, altresì, l’ultimo motivo di ricorso, relativo alla mancata
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede d’appello ex art. 603, comma 1, cod.
proc. pen. A tal proposito, è assolutamente corretto il principio giurisprudenziale
richiamato dalla Corte d’appello secondo cui l’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., non
riconosce carattere di obbligatorietà all’esercizio del potere del giudice di appello di

amministratore della società in un periodo di tempo antecedente rispetto alla

disporre la rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove
prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa
condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato
degli atti (ex plurimis Sez. 3, n. 35372 del 23/05/2007; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003).
Dal principio in questione (ormai consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità), si
ricava palesemente la mancanza di un obbligo in capo al giudice d’appello gravato da una
richiesta di rinnovazione dibattimentale, essendo quest’ultimo libero di valutare

giustificare l’eventuale diniego in motivazione, se pure non necessariamente in modo
esplicito, potendosi ricavare la relativa motivazione per implicito dal complessivo tessuto
argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle
quali abbia ritenuto di poter decidere allo stato degli atti (ex plurimis Sez. 4, n. 16422 del
24/04/2007). Del resto, alle stesse conclusioni approda la giurisprudenza richiamata dalla
difesa che, descrivendo in modo puntale le condizioni in presenza delle quali procedere
alla rinnovazione dibattimentale, si riferisce comunque ad un ‘potere discrezionale’ e non
ad un obbligo specificatamente sanzionato, potendosi riscontrare quest’ultimo solo in caso
di violazione del diritto alla prova che non sia stato esercitato per forza maggiore o per
sopravvenienza della prova dopo il giudizio, o perché l’ammissione, ritualmente richiesta
nel giudizio di primo grado, sia stata ‘irragionevolmente’ negata dal primo giudice

(ex

plurimis Sez. 4, n. 7197 del 10/12/2003; sez. 6, n. 11082 del 27/05/1999). Orbene, nel
caso di specie non sussiste alcuna irragionevole negazione del diritto alla prova dal
momento che, come correttamente argomentato anche dalla Corte d’appello, la difesa
pretendeva l’ammissione di un numero di testimoni eccesivo, la cui escussione avrebbe
gravato l’iter processuale del tutto inutilmente, dal momento che i testi non escussi
ricoprivano posizioni giuridiche e fattuali identiche rispetto a quelle dei soggetti le cui
dichiarazioni erano state acquisite. Ciò è confermato dal fatto che, contrariamente a
quanto sostenuto dalla difesa, il primo giudice ha pedissequamente valutato gli elementi
sui quali si chiedeva l’escussione di ulteriori testimoni (la crisi di impresa, i rapporti con le
banche finalizzati al tentativo di ristrutturazione aziendale e l’imprevisto fallimento del
piano di risanamento) senza mai contestarli nella loro fondatezza, ma ritenendoli, tuttavia,
inidonei ad integrare una causa di non punibilità per forza maggiore, in quanto destinati a
soggiacere rispetto ad altri elementi ritenuti decisivi e non attaccabili in via testimoniale,
perché aventi natura documentale. La rinnovazione, pertanto, non avrebbe arricchito il
quadro probatorio di elementi nuovi in grado di confutare la ricostruzione istruttoria del
primo giudice, di conseguenza, del tutto legittimo deve ritenersi il diniego della Corte
d’appello.

discrezionalmente la necessità di assumere nuove prove e dovendo esclusivamente

4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto
conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che,
nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla
declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc.
pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in
favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 2.000,00.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di C 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2018.

P.Q. M

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