Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21925 del 17/04/2018


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 21925 Anno 2018
Presidente: MICCOLI GRAZIA
Relatore: BORRELLI PAOLA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
RATTO ANGELO nato il 02/08/1947 a FRATTAMAGGIORE
MELE MARIA nata il 01/11/1952 a FRATTAMAGGIORE
RATTO IMMACOLATA nata il 02/02/1984 a GRUMO NEVANO
IOVINE ANTONIO nato il 12/11/1932 a FRATTAMAGGIORE
IOVINE ANGELO nato il 09/08/1976 a NAPOLI
MONTUORI ARMANDO nato il 08/10/1977 a NAPOLI
VITAGLIANO CARLO nato il 14/12/1970 a NAPOLI
CAPUANO LUIGI nato il 27/07/1942 a FRATTAMAGGIORE
CAPUANO LUCIA nata il 02/01/1971 a FRATTAMAGGIORE
DAMIANO FRANCESCO nato il 21/09/1959 a NAPOLI
CAPASSO SALVATORE nato il 01/09/1966 a FRATTAMAGGIORE
D’ANGELO CARMELINA nata il 30/05/1967 a FRATTAMAGGIORE

avverso la sentenza del 27/06/2016 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere PAOLA BORRELLI
Udito il Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO, che ha concluso per il rigetto di
tutti i ricorsi
Uditi i difensori, che hanno concluso come segue:
l’avvocato GIOVANNI BATTISTA VIGNOLA ha chiesto l’accoglimento dei motivi
del ricorso;

Data Udienza: 17/04/2018

l’avvocato MARCELLO D’ASCIA, per l’imputato n. 4) si è riportato ai motivi di
ricorso; per l’imputato n. 5), ha insistito per l’annullamento della sentenza; per
l’imputato n. 7), ha chiesto l’accoglimento dei motivi del ricorso; per gli imputati
nn. 6), 10), 11), si è riportato ai motivi del ricorso;
l’avvocato GIOVANNI SINISCALCHI ha chiesto l’annullamento della sentenza;
l’avvocato GIORGIO FONTANA, si è riportato ai motivi di ricorso,
contestualmente depositando memoria ex art. 121 c.p.p..
l’avvocato ANTONIO BARBATO si è riportato ai motivi di ricorso.

1. Con sentenza del 19 novembre 2009, il Tribunale di Napoli, per quanto di
interesse in questa sede, condannava Angelo Ratto e Maria Mele per il reato di
bancarotta fraudolenta patrimoniale con riferimento al fallimento della società
“Caseificio Iavarone Maria Carmela s.n.c. di Iavarone Maria” (dichiarato con
sentenza del Tribunale di Napoli del 21 maggio 2003).
I fatti di bancarotta (consistiti nella distrazione, successiva al fallimento, di
beni personali del Ratto a favore della figlia) sono stati ascritti al Ratto nella sua
qualità di socio illimitatamente responsabile fallito in proprio e alla Mele quale
concorrente estranea nel reato proprio.
Con la stessa pronuncia il Tribunale, sempre per quanto qui di interesse,
condannava Immacolata Ratto, Antonio Iovine, Angelo Iovine, Armando
Montuori, Carlo Vitagliano, Luigi Capuano, Lucia Capuano, Francesco Damiano,
Salvatore Capasso e Carmelina D’Angelo per il reato di cui all’art 648-bis cod.
pen. perché, senza concorrere nel reato di bancarotta, operavano in modo da
ostacolare la provenienza da delitto delle somme sottratte alla procedura
concorsuale relativa alla suddetta società, loro pervenute a seguito di operazioni
di trasferimento effettuate direttamente dai falliti o da soggetti che, a loro volta,
le avevano ricevute da questi ultimi. Va precisato, con riferimento alle posizioni
di tutti i soggetti condannati per riciclaggio — ad eccezione di Immacolata Ratto
— che il denaro proveniva da altra articolazione della condotta bancarottiera
(capo A2), ascritta a Maria Carmela Iavarone ed a Raffaele Iovine, soci della
società fallita e contro i quali non si procede in questa sede.
2. La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 27 giugno 2016, ha
confermato la pronuncia di primo grado, procedendo, tuttavia, alla
rideterminazione della pena inflitta ai soggetti imputati del reato di riciclaggio.
3.

Avverso la pronuncia della Corte territoriale gli imputati hanno

ritualmente proposto ricorso per cassazione.
4. Con un unico atto sottoscritto dall’Avv. Giovanni Battista Vignola hanno
proposto ricorso Angelo Ratto, Maria Mele e Immacolata Ratto.

2
)Th

RITENUTO IN FATTO

4.1. Angelo Ratto ha affidato il ricorso a due motivi.
4.1.1. Il primo motivo lamenta violazione di legge quanto all’applicazione
della circostanza aggravante del primo comma dell’art. 219 legge fall. e vizio di
motivazione in ordine alla denegata applicazione della circostanza attenuante di
cui all’art. 219, ultimo comma, legge fall.
Si sostiene che la Corte avrebbe ritenuto la sussistenza della contestata
aggravante – e conseguentemente avrebbe escluso la suddetta attenuante omettendo di valutare le doglianze difensive contenute in uno specifico motivo di

(come la circostanza che la gestione in titoli e il conto corrente fossero
cointestati alla propria moglie) e confondendo il danno derivante dalle condotte
contestate al ricorrente con quello addebitabile agli altri coimputati.
A quest’ultimo proposito, la motivazione fornita dalla Corte territoriale circa
l’applicazione dell’aggravante sarebbe, inoltre, carente, illogica e contraddittoria
in quanto, trattandosi di condotte distrattive di beni personali e non aziendali per cui ogni singolo socio può rispondere unicamente delle operazioni effettuate
sul proprio patrimonio personale e non certamente di quelle consumate dagli
altri – la Corte non avrebbe potuto ricavare il danno patrimoniale di rilevante
gravità, come invece ha fatto, «dall’azione concorsuale degli imputati tutti», ma
avrebbe dovuto considerare unicamente il danno causato dalla condotta
distrattiva del singolo socio.
4.1.2. Con il secondo motivo del Ratto si lamentano vizi motivazionali in
ordine alle doglianze difensive avanzate con l’atto di appello circa l’omessa
concessione delle attenuanti generiche, dal momento che la Corte territoriale
avrebbe fornito una risposta parziale ed apparente alle ragioni evidenziate
dall’appellante.
4.2. Nell’interesse di Maria Mele sono stati articolati due motivi.
4.2.1. Con il primo la ricorrente lamenta violazione di legge quanto agli artt.
111 Cost., 190, 234 e 526 in relazione all’art. 178, lett. c), cod. proc. pen.
giacché sia il Tribunale che la Corte territoriale avrebbero esaminato un
documento essenziale ai fini del decidere senza un formale provvedimento di
acquisizione dello stesso. Secondo le doglianze della ricorrente, l’acquisizione
fuori udienza di tale documento da parte del Tribunale (l’ordine di disposizione
della gestione patrimoniale in titoli) senza alcuna ordinanza annmissiva, né
avviso alle parti, avrebbe determinato un’evidente violazione del diritto di difesa
e, nello specifico, del diritto al contraddittorio, impedendo di fatto alla difesa di
articolare iniziative e richieste istruttorie sulla base del documento. Altro profilo
di doglianza attiene alla circostanza che sia stata acquisita una copia e non

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appello dedicato all’attenuante, nonché stravolgendo le emergenze probatorie

l’originale e che la Corte di appello abbia effettuato, su tale copia, una
valutazione dell’intensità della traccia grafica.
4.2.2. Con il secondo motivo la Mele lamenta vizi motivazionali in ordine alle
specifiche censure mosse con l’atto di appello relativamente all’insussistenza di
un contributo causale nella condotta a lei addebitata. La Corte non avrebbe
adeguatamente indicato le ragioni per le quali la circostanza che il conto titoli
fosse a firma disgiunta — e che quindi la sola firma del Ratto fosse sufficiente al
raggiungimento del fine illecito — non conducesse ad escludere il suddetto

della richiesta dell’appellante circa l’applicazione della circostanza attenuante di
cui all’art. 114 cod. pen.
4.3. Immacolata Ratto — che risponde del reato di riciclaggio di cui al capo
b) in relazione ai beni distratti dai genitori Angelo Ratto e Maria Mele — ha
articolato tre motivi di ricorso.
4.3.1. Con il primo motivo si ripropone la stessa doglianza dedotta dalla
Mele in ordine all’acquisizione, da parte del Tribunale, dell’ordine di disposizione
della gestione in titoli in difetto delle procedure all’uopo previste dal codice di
rito.
4.3.2. Con il secondo motivo si deducono violazione di legge e vizi
motivazionali in relazione all’art. 648-bis cod. pen, in quanto, secondo lo stesso
ragionamento seguito per l’imputata Maria Mele, la Corte territoriale avrebbe
dovuto ritenere che la condotta della ricorrente, in considerazione del fatto che la
distinta di trasferimento recasse anche la firma per accettazione di quest’ultima,
si iscrivesse, ai sensi dell’art. 110 cod. pen., nella fattispecie di cui all’art. 216
legge fall. e non in quella di riciclaggio, che punisce le condotte ivi previste «fuori
dal concorso nel reato presupposto», il che avrebbe imposto l’assoluzione per il
reato contestato. Ne conseguirebbe un’evidente contraddittorietà nonché
erroneità in diritto della motivazione della sentenza impugnata laddove non si
era tenuto conto che la ricorrente concorreva nel reato presupposto e, quindi,
non poteva rispondere di riciclaggio.
4.3.3. Con l’ultimo motivo si lamenta vizio di motivazione in ordine alle
risultanze dell’attività istruttoria e ai documenti acquisiti al fascicolo del
dibattimento. La Corte territoriale avrebbe totalmente omesso di valutare la
circostanza che la CREDEM aveva disposto il blocco cautelativo del conto
corrente e il blocco del 50% della gestione patrimoniale in titoli detenuta dalla
ricorrente, nonché che le somme bloccate erano confluite nella massa attiva
della procedura concorsuale. Ad avviso della ricorrente, le operazioni di
riciclaggio richiamate nella sentenza impugnata non solo sarebbero in parte (ad
eccezione, cioè, della ricezione delle somme da padre e dai genitori) successive

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contributo causale. Analoga omissione motivazionale riguarderebbe la reiezione

al suddetto blocco e al relativo prelievo del curatore, ma riguarderebbero
soltanto il 50% di pertinenza di Maria Mele, per cui non sarebbero riconducibili al
fallimento; ne conseguiva che la Corte di appello avrebbe dovuto ritenere che
l’imputata non avesse partecipato al fatto, ovvero che non fosse munita del
necessario coefficiente soggettivo o, quantomeno, avrebbe dovuto escludere la
continuazione.
5. Con un unico atto a firma dell’avv. Francesco Lubrano hanno presentato
ricorso per cassazione, articolato in due motivi, gli imputati di riciclaggio (di

contestata al capo A2) Salvatore Capasso, Armando Montuori e Francesco
Damiano.
5.1. Con il primo motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali
in relazione all’art. 648-bis cod. pen. in quanto la Corte territoriale non avrebbe
adeguatamente valorizzato il dato temporale (nove mesi) e le operazioni
bancarie (consistenti in operazioni di natura diversa, attuate in sequenza) che
separano la condotta dei ricorrenti dal fallimento cui è collegato il reato di
riciclaggio contestato. Tale circostanza, infatti, dimostrerebbe non solo che il
denaro era già stato “ripulito” per ben tre volte da Benedetta Capuano, ma
soprattutto che ciascun imputato aveva agito, in virtù di un’operazione legittima,
in perfetta buona fede e nell’inconsapevolezza della provenienza delittuosa del
denaro.
5.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge in ordine agli artt.
648-bis e 43 cod. pen. in quanto le stesse circostanze evidenziate con il primo
motivo – e cioè il dato temporale e le precedenti operazioni bancarie dimostrerebbero l’assenza dell’elemento psicologico del delitto di riciclaggio nella
condotta ascritta ai ricorrenti, non essendo sufficiente a fornire la prova di tale
elemento il mero possesso della cosa proveniente da delitto.
6. Francesco Damiano — come già precisato, imputato di riciclaggio in
relazione all’incasso di due assegni ricollegabili al fallimento e ricevuti dalla
cognata Benedetta Capuano — ha presentato ricorso per cassazione, articolato in
due motivi, anche con atto sottoscritto dall’avv. Giorgio Fontana.
6.1. Con il primo motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali
con riferimento agli artt. 192, comma 2, e 125, comma 3, cod. proc. pen.
Sostiene il ricorrente che, a fronte di un compendio probatorio formato
esclusivamente da elementi congetturali e prospettazioni meramente indiziarie,
la Corte territoriale avrebbe dovuto confrontare partitamente tali elementi con le
proposizioni alternative della difesa. In tal senso, la Corte, a meno che non abbia
voluto sostenere che il ricorrente “non poteva non sapere”, avrebbe dovuto
desumere dall’interrogatorio del ricorrente e dalle dichiarazioni rese ex art. 197-

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assegni ricevuti da Benedetta Capuano e ricollegabili alla condotta bancarottiera

bis cod. pen. da Benedetta Capuano (colei che aveva girato al ricorrente gli
assegni circolari derivanti dalla società fallita) l’estraneità dell’imputato alle
vicende fallimentari e alle conseguenti condotte di riciclaggio.
La contraddittorietà e illogicità della motivazione risiederebbero, infine, nella
valorizzazione, quanto alla prova dell’elemento psicologico, della circostanza —
riferita dallo stesso imputato in sede di interrogatorio — che qualche mese dopo
il fallimento il ricorrente aveva negato un prestito di € 40.000 al suocero Raffaele
Iovine in difficoltà economiche. In nessun modo, però, la Corte motiverebbe in

che i titoli derivassero dalla società fallita.
6.2. Con il secondo motivo si denunziano violazione di legge e vizi di
motivazione con riferimento agli artt. 648-bis cod. pen. e 533, comma 1, cod.
proc. pen. in quanto la penale responsabilità del ricorrente non sarebbe stata
desunta da un accordo illecito tra quest’ultimo e la Capuano, ma esclusivamente
dalla ritenuta “certezza” circa la consapevolezza da parte dell’imputato della
provenienza illecita degli assegni.
Anche sul piano oggettivo, inoltre, non sussisterebbero gli elementi
costitutivi del reato contestato perché la condotta addebitata al ricorrente – che
ha versato i titoli sui suoi due conti correnti in rapidissima successione con
contestuale consegna della valuta alla Capuano – non risulterebbe idonea ad
ostacolare l’identificazione della provenienza illecita della valuta, tanto che le
somme erano state facilmente sequestrate.
L’erronea qualificazione giuridica, unitamente al vizio di motivazione, si
riscontrerebbe, inoltre, nella mancata risposta da parte del giudice di secondo
grado alle osservazioni formulate dalla difesa con l’atto di appello, pur
puntualmente riportate in sentenza in punto di fatto, quanto all’elemento
soggettivo, alla natura di post factum rispetto al già consumato riciclaggio della
condotta del Damiano ed alla possibilità di contestare al massimo la ricettazione,
della quale però mancherebbe il profitto personale e diretto.
7.

Il 14 settembre 2017 l’Avv. Fontana ha depositato motivi aggiunti

nell’interesse del proprio assistito incentrati su violazione di legge e vizio di
motivazione quanto al coefficiente soggettivo perché i giudici di merito avrebbero
svolto una valutazione presuntiva di responsabilità ed avrebbero condannato
l’imputato nonostante non ricorresse il necessario dolo diretto, senza considerare
le ragioni della difesa.
8. Avverso la predetta sentenza ha proposto un unico ricorso l’Avv. Marcello
D’Ascia, nell’interesse di Antonio Iovine, Angelo Iovine e Carlo Vitagliano
(anch’essi imputati di riciclaggio, relativo alle somme provenienti dalla condotta

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ordine alle ragioni per le quali il ricorrente avrebbe avuto quanto meno il dubbio

bancarottiera di cui al capo A2) ascritta a Maria Carmela Iavarone e Raffaele
Iovine), sviluppando due motivi di ricorso.
8.1. Il primo, lungo motivo lamenta violazione di legge e vizio motivazionale
in relazione al capo C) dell’imputazione ascritto a Antonio Iovine e Angelo ‘ovine,
in quanto la Corte d’Appello di Napoli aveva trattato unitamente tutte le posizioni
in ordine alle problematiche principali concernenti la qualificazione giuridica del
fatto e la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, sebbene non tutte le
condotte contestate agli imputati del delitto di riciclaggio fossero assimilabili,

ciascun imputato.
Ad onta delle premesse giurisprudenziali poste, la Corte di appello aveva
omesso di considerare che, nel caso di Angelo Iovine e di Vitagliano, non vi era
stato passaggio diretto di denaro dal conto corrente del fallito a quello degli
imputati, sicché l’operazione volta ad ostacolare l’identificazione della
provenienza delittuosa del bene era già stata compiuta.
La coscienza della provenienza illecita del denaro in capo ai soggetti
coimputati del reato di riciclaggio sarebbe desunta da una serie di indizi, peraltro
carenti dei requisiti richiesti dal secondo comma dell’art. 192 cod. proc. pen. e
assolutamente non sintomatici della suddetta consapevolezza.
I Giudici di seconde cure, inoltre, avrebbero desunto la consapevolezza della
provenienza illecita del denaro in capo al Vitagliano in quanto persona vicina alla
famiglia Ratto o Iovine, malgrado questi non solo non avesse alcun rapporto di
parentela con nessuna delle due famiglie ma fosse stato assunto dalla Latticini
Iovine – e non dalla società fallita – solo quattro mesi prima della
monetizzazione dell’unico assegno circolare a lui contestato e a distanza di quasi
un anno dal fallimento della Caseificio Iavarone Maria Carmela s.n.c.
La Corte d’Appello non avrebbe motivato circa il mancato accoglimento della
richiesta di perizia grafologica avanzata dalla difesa di Antonio Iovine sui quattro
assegni utilizzati per trasferire il denaro ad Angelo Iovine, non consentendo di
verificare con assoluta certezza la paternità delle sottoscrizioni; si sarebbe
limitata a richiamare elementi fattuali errati o assolutamente non dimostrati,
senza tenere in alcun conto la modesta entità economica della somma oggetto
del riciclaggio.
Differentemente da quanto affermato in motivazione, gli assegni intestati a
Angelo Iovine sarebbero confluiti sul suo conto corrente personale e non sul
conto della società “Latticini Iovine s.r.l.”, il che non consentirebbe di ricavare
elementi a carico del predetto ricorrente legati alla centralità di quest’ultima
impresa nelle vicende post fallimentari della “Caseificio Iavarone Maria Carmela
s.n.c.” . Il trasferimento della somma di 19.100 euro oggetto del capo c)

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dovendosi distinguere le singole posizioni e i singoli ruoli coperti nella vicenda da

dell’imputazione da Raffaele Iovine a Antonio Iovine ben potrebbe essere un
prestito e solo per l’età avanzata dei due — che non se la sono sentiti di
affrontare il processo — non sono state raccolte le loro dichiarazioni sulla natura
lecita dell’operazione. In più la circostanza della monetizzazione dei predetti
assegni e della restituzione dei capitali illeciti riciclati al fallito non troverebbe
conforto nelle risultanze delle indagini e dell’istruttoria dibattimentale, sicché il
reato di cui all’art. 648-bis cod.pen. non avrebbe dovuto ritenersi integrato.
La sentenza dovrebbe essere annullata, in conclusione, quanto ad Antonio

della sua consapevolezza della provenienza delle somme. In subordine il reato
contestato dovrebbe essere derubricato in ricettazione. La condanna di Angelo
Iovine, dal canto suo, dovrebbe essere annullata perché egli aveva ricevuto soldi
eventualmente già ripuliti e non vi era la prova che avesse monetizzato gli
assegni, sicché non vi era stata sostituzione; in subordine il reato dovrebbe
essere riqualificato in ricettazione, favoreggiamento reale o in autoriciclaggio,
con applicazione della causa di non punibilità di cui al comma quarto dell’art.
648-terl cod.pen.
Infine, si lamenta l’omessa concessione delle attenuanti generiche a Angelo
Iovine, perché la motivazione della Corte territoriale sul punto sarebbe
insufficiente e infondata, posto che tale decisione sarebbe stata basata sulla
circostanza, pienamente smentita, del coinvolgimento del predetto ricorrente
nell’attività distrattiva paterna, non valorizzando adeguatamente l’entità della
somma riciclata.
8.2. Il secondo motivo è dedicato alla posizione di Carlo Vitagliano,
condannato per il riciclaggio di cui al capo f); il ricorrente deduce violazione di
legge e difetto di motivazione, in quanto la Corte d’Appello di Napoli avrebbe
omesso di valutare gli elementi documentali evidenziati dalla difesa, idonei a
smentire le dichiarazioni rese dal teste Massimo Noce e a confermare la versione
dei fatti proposta dallo stesso Vitagliano, in base alla quale questi avrebbe
provveduto prima ad effettuare un versamento di circa diecimila euro in contanti
sul conto della Latticini Iovine s.r.l. e poi a cambiare l’assegno della Capuano. In
aggiunta, la presenza di Iovine Angelo al compimento delle predette operazioni
bancarie, affermata dal Noce e smentita dagli imputati, non troverebbe conforto
nell’esame dei documenti presentati dalla difesa, da cui risulta che la firma dello
Iovine è differente da quella apposta in calce al timbro della distinta di
versamento.
I Giudici di secondo grado avrebbero poi ritenuto sussistente l’elemento
soggettivo in capo al Vitagliano, sebbene dalle risultanze processuali emergesse
come lo stesso avesse solo aderito alla richiesta della Capuano, moglie di uno dei

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Iovine perché manca la prova dell’addebitabilità degli assegni al predetto ovvero

soci della società datrice di lavoro, per mero dovere di ufficio, e senza il sospetto
della provenienza illecita del denaro, stante l’alto tenore di vita goduto dalla
Capuano e la circostanza che fosse trascorso quasi un anno dal fallimento del
Caseificio Iavarone.
Si contesta, altresì, il mancato raggiungimento della prova anche in
relazione all’elemento oggettivo del reato, laddove la condotta del Vitagliano si
sostanzia in una mera monetizzazione di un solo assegno circolare, frutto di
diversi passaggi già effettuati dalla Capuano, della cui origine delittuosa lo stesso

“ripulitura”. La condotta del Vitagliano, quindi, avrebbe dovuto più correttamente
essere qualificata come ricettazione o come favoreggiamento reale, ex art. 379
c.p.
9. Ha proposto ricorso anche il difensore di fiducia dell’imputata Carmelina
D’Angelo (imputata di riciclaggio di somme provenienti dalla condotta di
bancarotta di cui al capo A2), l’Avv. Antonio Barbato, affidando le doglianze a
quattro motivi.
9.1. Con il primo motivo proposto ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc.
pen., il ricorrente lamenta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 110 e
648-bis cod. pen. e 192 cod. proc. pen.
La Corte territoriale avrebbe fondato la responsabilità della D’Angelo sulla
mera circostanza che ella “non poteva non sapere” del fallimento della società
Caseificio Iavarone Maria Carmela s.n.c., in ragione del rapporto di amicizia con
Benedetta Capuano, limitandosi a ripercorrere pedissequamente

l’iter

motivazionale offerto dalla sentenza di prime cure, incorrendo in un vero e
proprio travisamento della prova, poiché la sola sussistenza di un rapporto di
amicizia tra la Capuano e la D’Angelo non implica che quest’ultima fosse a
conoscenza delle vicende giudiziarie della famiglia del marito della prima, né
tantomeno che fosse consapevole della provenienza illecita del denaro.
9.2. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 110 e 648-bis
cod.pen. La Corte d’Appello di Napoli avrebbe errato nel ritenere integrato il dolo
eventuale, senza verificare l’effettiva rappresentazione, da parte della D’Angelo,
della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto, circostanza che,
nel caso di specie, non troverebbe alcun conforto nel compendio probatorio
giacché ad essere fallita non era la Capuano, ma il suocero, e l’attività di impresa
era proseguita dopo il fallimento.
La motivazione dei Giudici di secondo grado, inoltre, sarebbe fallace anche
con riguardo all’elemento oggettivo del reato. La condotta della D’Angelo,
consistente nel versamento di due assegni circolari, a lei girati dalla Capuano, sul

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non era a conoscenza, e che, pertanto, non poteva essere finalizzata alla sua

proprio conto corrente, non sarebbe riconducibile ad alcuna delle condotte
sanzionate dall’art. 648-bis cod. pen., trattandosi di un’operazione trasparente e
tracciabile, e mancherebbe la prova della restituzione delle somme alla Capuano
o al di lei suocero.
9.3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione di legge e vizio
motivazionale in relazione agli artt. 47 e 48 cod. pen., perché la Corte d’Appello
di Napoli avrebbe dovuto mandarla assolta, in quanto la stessa avrebbe agito
senza trarre alcun vantaggio per sé, ma solo in ragione del vincolo di amicizia

avrebbe tratto in inganno l’odierna imputata.
9.4. Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione agli artt. 110 e 648-bis cod.pen., in quanto la Corte
territoriale avrebbe avallato un’errata qualificazione giuridica del fatto. La
condotta della D’Angelo, stante l’assenza di consapevolezza circa la provenienza
illecita del denaro e la mancata restituzione dello stesso alla Capuano, avrebbe
dovuto essere più correttamente sussunta nella fattispecie di cui all’art. 648 cod.
pen., piuttosto che quella prevista e punita dall’art. 648-bis cod.pen.
10. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso, con due atti distinti
ma di contenuto analogo, l’Avv. Giovanni Siniscalchi, per gli imputati di
riciclaggio Lucia Capuano e Luigi Capuano, con il supporto di un unico motivo.
I ricorrenti denunciano violazione di legge e vizio di motivazione,

ex art.

606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 648-bis cod.pen., poiché il
giudice di seconde cure non avrebbe fornito adeguata motivazione in merito alla
sussistenza di tutti gli elementi idonei ad integrare il reato di riciclaggio,
fondando le sue valutazioni su una serie di assiomi che appaiono privi di alcun
riscontro probatorio.
In particolare si lamenta il mancato raggiungimento della prova, oltre ogni
ragionevole dubbio, circa la consapevolezza, in capo a Lucia e Luigi Capuano,
dell’origine delittuosa del denaro e la volontà di ostacolarne l’accertamento della
provenienza. I ricorrenti ben avevano potuto ritenere che Benedetta Capuano
avesse nella propria disponibilità ingenti somme di denaro, frutto di risparmi di
famiglia accumulati nel tempo ovvero provenienti da doni di nozze.
L’affermazione di responsabilità dei due Capuano confliggeva con l’assoluzione in
primo grado di Raffaele Pezzullo. A seguire i ricorrenti evidenziavano una serie di
indicatori (numero degli assegni, distanza temporale dal fallimento, regolarità
delle operazioni bancarie, inidoneità decettiva delle operazioni e rapporto di
parentela con la Capuano, disponibilità economiche di quest’ultima) che
testimonierebbero dell’assenza del coefficiente soggettivo e su cui il Giudice di
appello non si era adeguatamente interrogato.

Io

con la Capuano che — è logico ritenere — tacendo il vero motivo della richiesta,

La Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere sussistente l’elemento
oggettivo del reato, dal momento che non era stata dimostrata la potenzialità
delle condotte poste in essere dai due ricorrenti ad intralciare l’accertamento
dell’origine illecita del denaro, dei beni o degli altri valori ricavati dal delitto
presupposto. In generale, l’accusa non aveva assolto all’onere della prova ed il
Giudice di merito aveva ragionato per presunzioni. Pertanto il giudice di seconde
cure avrebbe dovuto, più correttamente, derubricare il reato di riciclaggio in

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati, ad eccezione di quelli di Lucia Capuano e Luigi
Capuano, che sono inammissibili.
2. Il ricorso di Angelo Ratto va rigettato.
2.1. Il primo motivo—con cui il predetto lamenta violazione di legge quanto
all’applicazione della circostanza aggravante del primo comma dell’art. 219 e
vizio di motivazione in ordine alla denegata applicazione della circostanza
attenuante di cui all’art. 219, ultimo comma, legge fall. — è infondato. La Corte
di appello ha affrontato il tema nella parte della sentenza dedicata alla risposta
alle doglianze della Mele, ma con considerazioni che possono applicarsi anche al
coniuge (pag. 23), vertendo sui caratteri obiettivi della condotta; in particolare,
la sentenza impugnata ha fatto correttamente riferimento alla giurisprudenza
formatasi in ordine alla circostanza aggravante di cui all’art. 219, comma 1,
legge fall. secondo cui l’entità del danno provocato dai fatti configuranti
bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono
stati sottratti all’esecuzione concorsuale (Sez. 5, n. 49642 del 02/10/2009,
Olivieri, Rv. 245822; Sez. 5, n. 8037 del 03/06/1998, Urso G., Rv. 211637; Sez.
5, n. 7794 del 09/06/1993, Taffanin ed altri, Rv. 194873), nel caso di specie
quantificato in due milioni di euro di massa personale distratta. Come sostenuto
dalla Corte di merito, da tali riflessioni consegue altresì il diniego della
circostanza attenuante di cui all’art. 219, ultimo comma, legge fall., il cui
riconoscimento è legato agli stessi parametri (Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013,
Pastorello, Rv. 255063).
2.2. Riguardo l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche il ricorso
di Angelo Ratto è parimenti infondato giacché la Corte di appello ha
adeguatamente motivato sul punto, escludendo l’esistenza di dati positivi cui
attingere e facendo riferimento, quale indicatore negativo, alla natura
parzialmente mistificatoria delle dichiarazioni rese dal ricorrente, tese ad
escludere la responsabilità dei familiari. Tale interpretazione è ispirata alla

11

quello di ricettazione.

giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il giudice, quando rigetta la
concessione delle circostanze attenuanti generiche, non deve necessariamente
prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle
parti o rilevabili dagli atti, ma può limitarsi a fare riferimento a quelli ritenuti
decisivi o comunque rilevanti (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv.
259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane e altri, Rv. 248244).
3. Il ricorso proposto nell’interesse di Maria Mele è infondato.
3.1. E’ infondato, in primo luogo, il motivo secondo cui il Tribunale prima e

decidere (l’ordine di smobilizzo della gestione patrimoniale CREDEM intestata alla
Mele e al Ratto datato 26 maggio 2003 di cui al capo di imputazione A2) senza
un formale provvedimento di acquisizione dello stesso. Al contrario tale
provvedimento — come aveva già verificato la Corte di appello (pag. 22 della
sentenza) — esiste ed è stato emesso dal Tribunale il 12 marzo 2009 (cfr. pag.
37 del verbale stenotipico), dopodiché la Cancelleria lo ha eseguito richiedendo
alla CREDEM il documento ed esso risulta allegato al verbale dell’udienza del 14
maggio 2009; nessun ulteriore provvedimento istruttorio doveva essere emesso
dal Tribunale e, una volta disposta l’acquisizione nel contraddittorio delle parti,
erano queste ultime, qualora lo avessero ritenuto necessario per le proprie scelte
processuali, a dover verificare se esso era poi confluito nel fascicolo del
dibattimento.
Tale riscontro rende sostanzialmente irrilevante l’argomentazione adoperata
dalla Corte di appello circa la natura irripetibile dell’atto (tale da dover essere
accluso ab initio nel fascicolo del dibattimento), che non è invece condivisibile, in
quanto l’art. 431 comma 1, lettere b) e c) cod. proc. pen. si riferisce ai soli atti
non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero o dal
difensore mentre, in questo caso, la distinta bancaria non solo non è atto che
documenta un’attività compiuta dai soggetti procedimentali suddetti, ma è senza
dubbio un documento — come tale acquisibile solo ex art. 234 cod. proc. pen.—
siccome formatosi al di fuori ed a prescindere dal procedimento.
Con riferimento, infine, alla doglianza circa l’utilizzo della suddetta copia
quale base per una valutazione visiva della traccia grafica da parte dei giudici di
appello, il Collegio non può che riscontrare che non solo che non vi è alcun error
iuris alla base del processo valutativo della Corte, ma che quest’ultima ha
affiancato alla contestata valutazione sia quelle sulla diversità delle firme, sia
altre attinenti al grado di coinvolgimento della Mele nella vicenda, restituendo
una motivazione completa, univoca ed immune da cadute logiche, caratteristiche
peraltro neanche esplicitamente contestate dalla ricorrente giacché il ricorso
appare incentrato solo su una presunta violazione di legge. D’altronde mette

12

la Corte territoriale avrebbero esaminato un documento essenziale ai fini del

conto ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente sancito il
principio secondo cui, in tema di prova documentale, la copia fotostatica di un
documento, per il principio di libertà della prova, quando sia idonea ad assicurare
l’accertamento dei fatti, ha valore probatorio anche al di fuori del caso di
impossibilità di recupero dell’originale, pur se essa sia priva di certificazione
ufficiale di conformità e finanche quando sia stata disconosciuta dall’imputato
(Sez. 2, n. 52017 del 21/11/2014, Lin Haihang, Rv. 261627; Sez. 2, n. 36721
del 21/02/2008, Buraschi e altro, Rv. 242083; Sez. 4, n. 18454 del 26/02/2008,

3.2. Il ricorso, quanto alla questione del rapporto di causalità tra la
sottoscrizione del modulo per l’operazione da parte della Mele e lo smobilizzo
“incriminato”, è, in primo luogo, inammissibile perché richiedebbe a questa Corte
una valutazione in fatto — circa la dinamica dell’operazione bancaria — che
trascende i limiti del giudizio di legittimità. D’altra parte, il ragionamento della
ricorrente condurrebbe ad una conseguenza paradossale ed inaccettabile sotto il
profilo logico, vale a dire l’esclusione delle rilevanza causale della condotta
rispetto alla movimentazione bancaria di ciascuno dei due contributi, sulla base
della considerazione teorica della sufficienza causale del singolo apporto. La
questione posta, infine, pare trascurare la motivazione della Corte distrettuale
laddove ha ricostruito il complessivo contesto in cui l’operazione si inseriva ed

i

profili di coinvolgimento della Mele nell’operazione, che ne evidenziano la
partecipazione consapevole, in concorso con il coniuge, a prescindere dalla
essenzialità della sua sottoscrizione per la realizzazione dell’operazione.
A quest’ultimo aspetto si ricollega anche la valutazione in punto di
attenuante ex art. 114 cod. pen.: il ricorso è, in parte qua, ugualmente infondato
in quanto la Corte territoriale ha correttamente e compiutamente motivato
riguardo alle ragioni che l’hanno indotta a negare l’attenuante, facendo appunto
leva sulla piena consapevolezza e partecipazione dell’imputata nel trasferimento
dei titoli
4. Il ricorso di Immacolata Ratto è infondato.
4.1. Con riferimento al primo motivo si richiama quanto osservato in
relazione alla posizione di Maria Mele (§ 3.1.), giacché esso ripropone la stessa
doglianza dedotta da quest’ultima in ordine all’acquisizione, da parte del
Tribunale, dell’ordine di disposizione della gestione in titoli in difetto delle
procedure all’uopo previste dal codice di rito.
4.2. Il motivo concernente i vizi relativi all’ascrivibilità alla Ratto del
concorso nella bancarotta commessa dai genitori piuttosto che del riciclaggio, a
parere del Collegio, è inammissibile per difetto di interesse siccome si risolve in
una deduzione tesa a ricondurre il fatto contestato ed accertato ad un reato

13

Lombardo, Rv. 240159; Sez. 2, n. 22184 del 22/05/2007, Rigo, Rv. 237017).

diverso e più gravemente sanzionato di quello ritenuto (Sez. 2, n. 12993 del
19/02/2013, Marra, Rv. 255544; Sez. 1, n. 18849 del 09/02/2016, Siano, Rv.
266887).
4.3. L’ultimo motivo di ricorso nell’interesse di Immacolata Ratto — quello
fondato sulla dedotta liceità delle operazioni perché concentrate su un
compendio non riferibile al padre fallito — è infondato giacché la Corte
territoriale ha ricostruito le operazioni addebitate all’imputata, evidenziando la
condotta consistita nella ricezione della somma di euro 276.000 proveniente dal

dal padre per la somma complessiva di euro 19.800, facendo altresì riferimento
alle condotte successive attraverso le quali la ricorrente ha mobilizzato, con
plurime operazioni, anche effettuate nello stesso giorno, le somme, operazioni
sintomatiche della volontà di moltiplicarle per rendere difficile la ricostruzione dei
movimenti. Quanto alla doglianza circa il fatto che ella, ad eccezione delle prime
due operazioni, avesse manipolato somme disponibili perché appartenenti alla
quota di Maria Mele, oltre che essere relativa solo a parte delle operazioni iscritte
nel novero dell’art. 648-bis cod. pen., non si confronta con un dato pure
presente nella pronunzia della Corte partenopea. Il riferimento è a quanto si
legge a pag. 23 della sentenza impugnata, laddove la Corte di appello ha
evidenziato come la circostanza che il curatore avesse inizialmente aggredito
solo il 50 % del denaro dei coniugi Ratto/Mele non avesse significato pro reo,
dato che il compendio apparteneva integralmente al fallito, tanto che il legale
della curatela aveva poi ritenuto di poter avanzare pretese anche rispetto al
restante 50 °/0, dal momento che la Mele non aveva dimostrato di avervi
impiegato propri guadagni.
5. I motivi dell’Avv. Lubrano per Salvatore Capasso, Armando Montuori e
Francesco Damiano possono essere trattati congiuntamente, in quanto fondati
sulle stesse considerazioni.
5.1. Il primo motivo, nella parte in cui fonda sul presunto “esaurimento”
delle operazioni dissimulatorie da parte della Capuano, va rigettato. Esso, infatti,
non coglie nel segno, in quanto — come correttamente argomentato dalla Corte
di appello nella parte generale della sentenza (pag. 27 e segg.) — sminuisce
impropriamente il ruolo che le operazioni addebitate agli imputati hanno avuto
nell’ostacolare la provenienza delittuosa delle somme, ruolo che ha visto i
ricorrenti protagonisti di segmenti comunque penalmente rilevanti di condotta. A
questo proposito, ci si può ispirare alla giurisprudenza di questa Corte secondo la
quale integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio, e non un post factum non
punibile, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti
versamenti, ivi compreso il mero trasferimento di denaro di provenienza

14

conto di gestione dei titoli dei genitori e l’incasso degli assegni circolari ricevuti

delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato e
acceso presso un diverso istituto di credito, essendo il delitto in parola a forma
libera e attuabile anche con modalità frammentarie e progressive (Sez. 3, n.
3414 del 29/10/2014, dep. 2015, Giaccone, Rv. 263718; Sez. 6, n. 13085 del
03/10/2013, dep. 2014, Amato e altri, Rv. 259487; Sez. 2, n. 546 del
07/01/2011, P.G. in proc. Berruti, Rv. 249446). In altri termini, se rileva
penalmente qualsiasi condotta di manipolazione, trasformazione, trasferimento
di denaro quando essa sia idonea ad ostacolare gli accertamenti sulla

dissimulatorie precedenti non elide la portata criminosa di quelle successive
ispirate alla medesima finalità, parimenti idonee ad “allontanare” sempre più il
bene dalla sua origine e a renderne difficoltoso l’accertamento.
5.2. Il ricorso è inammissibile nella parte in cui concentra le doglianze sul
profilo soggettivo perché contiene argomentazioni teoriche — tanto da essere
sviluppate congiuntamente per tutte le posizioni — e generiche ed omette di
confrontarsi con la motivazione della Corte distrettuale, contravvenendo al
principio, di recente autorevolmente ribadito da Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016,
dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione
sono inammissibili non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma
altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a
fondamento del provvedimento impugnato.
6. L’Avv. Fontana per Damiano si duole sia della mancata risposta della
Corte di appello alle critiche contenute nell’impugnativa, sia delle conclusioni cui
è giunta la Corte territoriale, soprattutto, ma non solo, con riferimento al profilo
soggettivo.
Ebbene, schematizzando le censure, va osservato quanto segue.
6.1. La Corte di appello non ha omesso di fornire riscontro alle doglianze che
riguardavano il profilo oggettivo della condotta, giacché, nel paragrafo
qualificazione giuridica”

“III.4) la

(pag. 26), ha affrontato le tematiche comuni ai

ricorrenti. Quanto, in particolare, alla doglianza che verte sulla riconducibilità al
reato ex art. 648-bis cod. pen. della condotta ascritta al Damiano, la Corte
partenopea ha correttamente fatto riferimento alla giurisprudenza di questa
Corte già sopra richiamata (cfr. supra, § 5.1.) quanto alla natura penalmente
rilevante ex art. 648-bis cod. pen. di ogni contegno manipolatorio dei beni di
provenienza delittuosa, anche tenuto in momenti successivi rispetto ad altri della
stessa natura. A ciò si aggiunga

in risposta ad altra osservazione difensiva —

una considerazione correttamente formulata dalla Corte distrettuale, vale a dire
che l’efficacia dissimulatoria dell’azione del soggetto-agente rispetto all’origine
delle somme non deve essere assoluta. Si evince, infatti, dal dato testuale della

15

provenienza del denaro, la circostanza che vi siano state operazioni

norma — laddove si parla di «ostacolare»

e dall’elaborazione giurisprudenziale

di questa Corte, che integra il reato di riciclaggio il compimento di operazioni
volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile
l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità (Sez. 2,
n. 26208 del 09/03/2015, Steinhauslin, Rv. 264369; Sez. 2, n. 1422 del
14/12/2012, dep. 2013, Atzori, Rv. 254050; Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012,
dep. 2013, Anemone e altri, Rv. 254314; Sez. 2, n. 2818 del 12/01/2006,
Caione, Rv. 232869; Sez. 6, n. 16980 del 18/12/2007, dep. 2008, Gocini e altri,

quanto l’obiettivo illecito ben può essere realizzato anche attraverso condotte
che non escludono affatto l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine
delittuosa del bene, dal momento che queste ultime evenienze non costituiscono
l’evento del reato (dalle motivazioni di Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012, dep.
2013, Anemone e altri, Rv. 254314). Il motivo, dunque, è,

in parte qua,

infondato.
6.2. Quanto al profilo soggettivo, il ricorso è inammissibile giacchè non si
confronta con tutte le argomentazioni della sentenza impugnata e mira a far
prevalere una propria ricostruzione dei fatti, in contrapposizione a quella dei
giudici di merito. Questi ultimi, infatti, con motivazione esente dai vizi di cui
all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., hanno valorizzato non solo
l’appartenenza del Damiano al nucleo familiare Iovine e la sua dichiarata
consapevolezza del dissesto del suocero quali indicatori della consapevolezza
circa l’anomalia dell’operazione che la Capuano gli aveva proposto, ma anche
due specifiche caratteristiche della condotta a lui contestata (ignorate dal
ricorrente), che evidenziano come le rassicurazioni che la cognata dice di avergli
dato circa la provenienza della somma da una donazione obnuziale non possano
essere una valida giustificazione della sua buona fede. Ci si riferisce, in
particolare, all’effettuazione delle operazioni ad un giorno di distanza l’una
dall’altra, presso due diversi istituti di credito — sintomatica della volontà di non
attirare l’attenzione su di esse — ed alla evidente illogicità della giustificazione
fornitagli dalla Capuano, quella di dover monetizzare un regalo attraverso
l’incasso di assegni tratti su un conto corrente a lei intestato, da cui avrebbe
potuto invece direttamente attingere senza coinvolgere nessuno.
A proposito del coefficiente soggettivo, occorre altresì rimarcare che la Corte
di merito ha correttamente interpretato i dati suddetti nell’ottica della ritenuta
ricorrenza del dolo, evidenziando come il Damiano, al pari degli altri imputati,
dovesse rispondere delle condotte di riciclaggio quantomeno a titolo di dolo
eventuale, avendo accettato il rischio della provenienza delittuosa del compendio
(in tema, cfr. Sez. 2, n. 8330 del 26/11/2013, dep. 2014, Antonicelli e altri, Rv.

16

Rv. 239844). Neanche rileva che le operazioni realizzate fossero tracciabili, in

259010, che ha sancito il principio, costantemente affermato quanto alla
ricettazione, secondo cui si configura il dolo del riciclaggio, nella forma
eventuale, quando l’agente si rappresenta la concreta possibilità, accettandone il
rischio, della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito).
7. Il ricorso proposto dall’Avv. D’Ascia nell’interesse di Antonio Iovine,
Angelo Iovine e Carlo Vitagliano (imputati di riciclaggio relativo alle somme
provenienti dalla condotta bancarottiera di cui al capo A2) ascritta a Maria
Carmela Iavarone e Raffaele Iovine) è complessivamente infondato e va,

7.1. Il primo, lungo motivo di ricorso impone alcune considerazioni distinte
quanto distinte sono le riflessioni che la parte ha ivi condensato, pur non
avendole suddivise in appositi paragrafi; esse — per ovvie ragioni di chiarezza
espositiva, che impongono un tentativo di schematizzazione — saranno
esaminate partitamente. Sulle osservazioni presenti in questa prima parte del
ricorso e relative a Carlo Vitagliano — cui è dedicato specificamente il secondo
motivo — ci si intratterrà valutando quest’ultimo.
7.1.1. In primo luogo, il motivo è inammissibile perché generico nella parte
in cui contesta l’impostazione della sentenza di secondo grado, laddove la Corte
di appello ha scelto, per un’evidente esigenza di sintesi, di trattare unitariamente
alcune tematiche comuni a più posizioni, salvo poi trarne le conseguenze in
relazione a ciascun imputato.
7.1.2. La circostanza che non vi sia stato passaggio diretto di denaro dai
falliti ai riciclatori e che, in ipotesi, le operazioni-ostacolo sarebbero già
“esaurite” dalle condotte precedenti a quelle dei ricorrenti in discorso è inidonea
a smentire la rilevanza penale della condotta a ciascuno ascritta, giacché —
come sopra osservato — ogni trattamento del denaro, in ogni momento
avvenuto, idoneo a rendere difficoltosa la ricostruzione della provenienza illecita
di esso, costituisce condotta rilevante in termini di riciclaggio (cfr. supra § 5.1).
7.1.3. La doglianza concernente l’insufficienza indiziaria dei dati valorizzati
dalla Corte distrettuale al fine di supportare l’elemento soggettivo si palesa del
tutto generica, non fornendo argomentazioni specifiche atte a smentire quanto la
Corte aveva evinto dalla valorizzazione degli indici di conoscenza enunciati nella
parte generale e dalle riflessioni svolte con riferimento a ciascun ricorrente,
contravvenendo così, ai principi ribaditi dalla già ricordata Sez. U, n. 8825 del
27/10/2016, dep. 2017, Galtelli Rv. 268823, circa il dovere di specificità dei
motivi di ricorso per cassazione.
7.1.4. La censura circa il mancato accoglimento della richiesta di perizia
grafologica avanzata dalla difesa di Antonio Iovine sui quattro assegni utilizzati
per trasferire il denaro ad Angelo ‘ovine è inammissibile in quanto, come di

17

pertanto, rigettato.

recente ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 39746 del
23/03/2017, A. e altro, Rv. 270936), la mancata effettuazione di un
accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi
dell’art.606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi
rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova
“neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del
giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2,
cod.proc.pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano

Sotto altro profilo, il ricorso sul punto non si confronta con un dato specifico
atto a neutralizzare le perplessità circa la paternità dell’operazione, vale a dire
con quanto si legge in sentenza circa la deposizione del cap. Iuliano (pag. 31),
che ha riferito come tutti gli assegni in questione, provenienti da Raffaele Iovine,
sono confluiti sul conto corrente del fratello Antonio e da questi girati al nipote
Angelo.
7.1.5. Il ricorso, poi presenta tratti marcati di inammissibilità quando
contesta la ritenuta centralità di Angelo Iovine nelle vicende post fallimentari
della società fallita e si intrattiene sulla possibile natura di prestito della somma
trasferita da Raffaele ed Antonio Iovine. Così facendo, il ricorrente offre una
propria, alternativa ricostruzione del merito delle res iudicanda che non può
trovare sfogo in questa sede. Nel solco della giurisprudenza delle Sezioni Unite
(cfr. le motivazioni di Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibè, Rv. 249651) deve
infatti reputarsi inammissibile il motivo che «pretende di valutare, o rivalutare,
gli elementi probatori al fine di trarre proprie conclusioni in contrasto con quelle
del giudice del merito chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che
non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una
“rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui
valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa
integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il
ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali».
Quanto, in particolare alle doglianze che attengono alla posizione di Angelo
Iovine, il ricorso è altresì privo di specificità, laddove pare sordo alle
argomentazioni che la Corte di merito ha dedicato ad evidenziare la
consapevolezza del predetto ricorrente circa l’illiceità delle operazioni cui si era
prestato; i giudici di appello, invero, con motivazione effettiva, coerente e priva
di fratture logiche, hanno evidenziato gli indicatori della sua centralità nella
vicenda in discorso, dal momento che le somme versate da Vitagliano e da
Montuori erano confluite — a seguito di operazioni svolte in sua presenza — sul
conto corrente della Latticini Iovine s.r.l. da lui rappresentata, società che,

18

carattere di decisività.

peraltro, aveva in fitto alcuni locali della fallita a prezzi definiti dal curatore
irrisori, ne distribuiva i prodotti ed aveva partecipato al concordato fallimentare.
Erra, infine, la difesa quando tenta di valorizzare

in bonam partem la

circostanza che le somme ricevute dallo zio Antonio fossero state versate sul
conto personale di Angelo Iovine, non fossero state monetizzate e non fossero
state restituite a chi le aveva trasferite. In primo luogo, tale impostazione
trascura di confrontarsi con la giurisprudenza di legittimità già citata circa
l’idoneità di qualsiasi manipolazione delle somme rinvenienti da delitto ad

supra § 5.1.). In secondo luogo, è sempre la giurisprudenza di questa Corte che
fornisce la dirittura interpretativa utile per valutare la doglianza, questa volta
qiella concernente la mancata restituzione del denaro a chi l’aveva movimentato,
restituzione ritenuta non necessaria ai fini dell’integrazione della fattispecie (Sez.
2, n. 1857 del 16/11/2016, dep. 2017, Ferrari, Rv. 269316), essendo stata
reputata sufficiente l’operazione di svuotamento del patrimonio aggredibile dalla
curatela e il successivo deflusso del denaro nel conto corrente di un soggetto del
tutto estraneo alla compagine societaria (Sez. 2, n. 43881 del 09/10/2014,
Matarrese, Rv. 260694).
7.1.6. Il ricorso è altresì inammissibile nella parte in cui invoca una
riqualificazione, contestando quella della Corte di merito, ma ignorando le
argomentazioni da quest’ultima utilizzate sul punto (cfr. pag. 30 e 31 della
sentenza impugnata).
A proposito dell’invocata riqualificazione in ricettazione, occorre, in primo
luogo, ricordare che, come già anticipato al § 6.1, è idonea ad integrare
l’elemento oggettivo del reato di riciclaggio qualsiasi condotta atta ad impedire o
anche solo ad ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa di un bene,
ancorché attuata in sequenza rispetto ad altre ed a prescindere dal carattere
dell’attività, che rileva comunque nella misura in cui allontana il bene dalla sua
origine. Ebbene, le caratteristiche delle condotte come ricostruite dai giudici di
merito evidenziano l’idoneità oggettiva a ostacolare od impedire l’accertamento,
legata alla proliferazione dei passaggi delle somme provenienti dalla distrazione
post fallimentare. E questo è un primo aspetto che segna la distanza tra il reato
contestato e l’invocata ricettazione. Il dato più dirimente è però quello che
attiene all’elemento soggettivo, laddove la Corte distrettuale ha evidenziato, in
via generale e poi, posizione per posizione, quali fossero i dati indicativi della
consapevolezza di partecipare al meccanismo mistificatorio, dati che aggiungono
quel quid pluris che è uno degli elementi distintivi delle due fattispecie e che i
ricorrenti non hanno contrastato. Giova osservare, a quest’ultimo proposito, che,
nell’individuazione delle differenze tra le due fattispecie, la Corte di appello ha
7- `

19

integrare una condotta riferibile al paradigma dell’art. 648-bis cod. pen. (cfr.

correttamente attinto alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il
delitto di riciclaggio si distingue da quello di ricettazione oltre che in relazione
all’elemento materiale, che si connota per l’idoneità ad ostacolare
l’identificazione della provenienza del bene, anche quanto all’elemento
soggettivo, costituito, nel riciclaggio, dal dolo generico di trasformazione della
cosa per impedirne l’identificazione (ex multis, Sez. 2, n. 30265 del 11/05/2017,
Giannè, Rv. 270302; Sez. 2, n. 48316 del 06/11/2015, Berlingeri, Rv. 265379).
Anche con riferimento all’esclusione dell’invocata derubricazione in

stata corretta, né il ricorrente — nella specie è solo Angelo Iovine a dolersene —
ha dedotto argomentazioni specifiche a sostegno della sua tesi. La differenza tra
riciclaggio e favoreggiamento va rinvenuta nel profilo soggettivo che, nel reato
ex art. 379 cod. pen., vede il soggetto-agente animato dall’esclusiva volontà di
favorire colui che deve conseguire l’utilità, mentre il riciclatore compie
l’operazione nella consapevolezza che essa ostacolerà/impedirà l’accertamento
della provenienza delittuosa del bene e agisce a prescindere dalla volontà di
favorire alcuno.
La giurisprudenza di legittimità sul tema — invero non particolarmente
ampia — sostiene che i rapporti tra i due reati vadano risolti sulla scorta della
clausola di sussidiarietà che si legge nell’incipit dell’art. 379 cod. pen., che
esclude l’applicazione di quest’ultima fattispecie quando sono integrati gli
estremi, tra gli altri, del reato di riciclaggio (Sez. 2, n. 43295 del 24/11/2010,
Lombardo, Rv. 248949; Sez. 2, n. 11709 del 27/09/1994, Coluccia ed altro, Rv.
199762).
Ebbene, correttamente la Corte di appello ha escluso la sussistenza del
favoreggiamento reale sulla scorta della suddetta clausola di salvezza, dopo aver
evidenziato gli indici di consapevolezza dell’imputato circa la provenienza e la
capacità dissimulatoria di qualsiasi ulteriore trasferimento delle somme rispetto
alla sua provenienza e, quindi, dopo aver ritenuto sussistente non già lo scopo di
favorire il soggetto trasferente, ma quello di impedire il recupero da parte degli
organi fallimentari.
Il ricorso di Angelo Iovine è, infine, inammissibile quanto all’invocata
derubricazione nel reato di cui all’648-terl cod. pen.
Va sottolineato, a tal proposito, che la mozione fonda su una ricostruzione
congetturale che vede Angelo Iovine concorrere fin dall’inizio nella condotta
bancarottiera del padre, sì da inferirne la riconduzione all’autoriciclaggio e, una
volta operata detta riconduzione, l’applicazione della causa di non punibilità di
cui al comma quarto, trattandosi di condotta posta in essere a fini di mera
utilizzazione e godimento personale. Ebbene, il ricorrente nulla dice per

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favoreggiamento reale, deve ritenersi che la scelta della Corte territoriale sia

supportare la tesi del concorso nel reato presupposto (sicché il ricorso è, sul
punto, generico), mentre introduce una propria personale ed immotivata
ricostruzione di merito allorché sostiene che il versamento degli assegni sul
conto personale sarebbe indicativo della volontà di goderne personalmente e non
già di occultarne la provenienza delittuosa.
7.1.7. Il ricorso è infondato allorché si duole della mancata concessione della
circostanze attenuanti generiche ad Angelo Iovine dal momento che la
motivazione della Corte di appello sul punto non è né omessa, né contraddittoria

legate al grado di coinvolgimento nella vicenda (per l’aiuto prestato ai familiari,
per la ricezione del denaro da parte della “Latticini Iovine” s.r.I., per

i rapporti

commerciali che quest’ultima aveva con la fallita), costituenti un indicatore
negativo rispetto all’applicazione del trattamento di favore. Sul punto si richiama
la giurisprudenza già riportata nel § 2.2. a proposito dei limiti della delibazione
della Corte sul tema in discorso.
8. Il ricorso, nella parte concernente la posizione di Carlo Vitagliano (di cui
l’impugnativa accenna nel primo motivo, ma che tratta soprattutto nel secondo),
è infondato.
8.1. Circa la ricostruzione dell’operazione di sportello in cui il Vitagliano è
risultato coinvolto, il ricorso — teso sostanzialmente a contestare che il denaro
fosse confluito sul conto della Latticini Iovine s.r.I., ritenendo, al contrario, che
Vitagliano avesse solo monetizzato il titolo a beneficio della Capuano — è
inammissibile in quanto mira ad ottenere una riedizione della valutazione di
merito estranea ai confini decisori di questa Corte. Di contro, la Corte di appello
ha fornito una motivazione immune dai vizi denunziati giacché, in primo luogo,
ha richiamato il ragionamento svolto dal Tribunale per smentire la versione
dell’imputato, adottando una tecnica motivazionale consentita nel caso in cui le
censure formulate dall’appellante — come è accaduto nella specie — non
contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e
disattese dalla sentenza richiamata (Sez. 2, n. 30838 del 19/03/2013, Autieri e
altri, Rv. 257056; Sez. 6, n. 17912 del 07/03/2013, Adduci e altri, Rv. 255392;
Sez. 6, n. 28411 del 13/11/2012, dep. 2013, Santapaola e altri, Rv. 256435).
In secondo luogo, la Corte distrettuale ha logicamente evidenziato la
sostanziale irrilevanza della destinazione finale della somma portata nel titolo
(restituzione in contanti alla Capuano ovvero versamento nelle casse della
Latticini Iovine s.r.I.), ricordando come l’efficacia dissimulatoria della
provenienza delittuosa prescinda dalla sorte del compendio.
8.2. In merito all’elemento soggettivo, il ricorso è parimenti infondato. La
Corte di merito ha adottato una decisione ed offerto una motivazione che si

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né manifestamente illogica. I giudici di appello, infatti, hanno spiegato le ragioni,

sottrae ai profili di censura, sia nella parte generale in cui ha tratteggiato gli
indicatori della consapevolezza della provenienza delittuosa dei beni oggetto del
reato (pag. 29), sia allorché ha affrontato la posizione specifica del Vitagliano. In
quest’ultimo caso, i giudici di appello hanno valorizzato in malam partem i profili
anomali dell’operazione effettuata per conto della Capuano (il versamento o la
monetizzazione di un assegno proveniente da un soggetto estraneo alla società
datrice di lavoro) e le ragioni per le quali il ricorrente doveva essere a
conoscenza del contesto in cui l’operazione poteva inserirsi (dato il rapporto di

o incoerenze motivazionali. Ne risulta un quadro argomentativo incensurabile in
questa sede, da cui risulta che il Vitagliano aveva quantomeno accettato il rischio
che l’assegno negoziato fosse ricollegato al fallimento della Caseificio Iavarone
s.n.c. ed ai beni personali del suocero della Capuano, confrontandosi con la
specifica categoria di evento — la monetizzazione di una somma proveniente da
distrazione fallimentare — che si è verificata nella fattispecie concreta ed
aderendo psicologicamente ad essa (anche secondo la più rigorosa
interpretazione del dolo eventuale oggi sancita da Sez. U,
n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261105).
8.3. Quanto all’elemento oggettivo del reato, il ricorso è del pari infondato
per le ragioni già sviluppate a proposito delle altre posizioni circa la rilevanza
penale del riciclaggio “di secondo grado” e di operazioni di mero ostacolo e non
impedimento all’accertamento della provenienza delittuosa, cui si rinvia (cfr.
supra §§ 5.1. e 6.1.). Lo stesso dicasi in ordine all’invocata riqualificazione nel
reato di cui all’art. 379 cod. pen. (cfr. supra § 7.1.6.), correttamente negata
sulla scorta della ricorrenza degli indici soggettivi di cui all’art. 648-bis cod. pen.
9. Il ricorso di Carmelina D’Angelo è infondato.
9.1. Le doglianze mosse alla sentenza impugnata nel ricorso della D’Angelo
attengono, in primo luogo, al profilo soggettivo, laddove in radice si contesta la
scelta dei giudici di appello di ritenere sussistente la consapevolezza della
provenienza delittuosa degli assegni, non dando rilievo alla giustificazione del
prestito asseritamente fatto dalla ricorrente alla Capuano. Ebbene, sul punto non
si ravvisa alcuna falla motivazionale o errore di diritto, giacché la Corte
distrettuale — richiamando e riportando in sintesi il ragionamento probatorio del
Tribunale — ha evidenziato una serie di anomalie della versione resa dalla
D’Angelo circa il prestito (si pensi al divario economico tra soggetto finanziato e
soggetto finanziatore ed alla difficoltà che la ricorrente aveva detto di aver
incontrato nel reperire la somma) che hanno logicamente condotto a ritenere
quella resa una versione di comodo.

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Cif!

dipendenza dalla Latticini Iovine e quelli di quest’ultima con la fallita), senza falle

9.2. Quanto alla riconducibilità oggettiva della condotta al reato di
riciclaggio, deve dirsi che correttamente la Corte di appello ha ritenuto che il
versamento dei due assegni, rappresentando un ulteriore passaggio nella
sostituzione della titolarità delle somme provenienti dal fallimento, costituisse
certamente un ostacolo alla ricostruzione della provenienza dei beni, ostacolo
atto — come già sopra ricostruito — alla riconduzione al reato di riciclaggio (cfr.
supra §§ 5.1. e 6.1).
Peraltro, per rispondere ad una specifica osservazione del ricorso quanto alla

D’Angelo alla Capuano o al fallito, giova ricordare nuovamente — avallando il
ragionamento sul punto della Corte distrettuale — che questa Corte ha affermato
che il delitto di riciclaggio si consuma con la realizzazione dell’effetto
dissimulatorio conseguente alle condotte tipiche previste dall’art. 648-bis, primo
comma, cod. pen., non essendo invece necessario che il compendio “ripulito” sia
restituito a chi l’aveva movimentato (Sez. 2, n. 1857 del 16/11/2016, dep. 2017,
Ferrari, Rv. 269316) ed essendo sufficienti l’operazione di svuotamento del
patrimonio aggredibile dalla curatela e il successivo deflusso del denaro nel conto
corrente di un soggetto del tutto estraneo alla compagine societaria (Sez. 2, n.
43881 del 09/10/2014, Matarrese, Rv. 260694).
In ordine alla mancata derubricazione in ricettazione da parte della Corte di
appello, deve dirsi che il motivo è inammissibile perché manifestamente
infondato, considerata l’idoneità della condotta accertata a costituire un ostacolo
alla ricostruzione della provenienza dei beni, idoneità atta alla riconduzione al
reato di riciclaggio piuttosto che a quello ex art. 648 cod. pen. (come evidenziato
anche in relazione ad altre posizioni, cfr. supra § 7.1.6.).
10. I ricorsi di Lucia e Luigi Capuano sono inammissibili.
10.1 Va, in primo luogo, evidenziato che il ricorso di Lucia Capuano è
tardivo, perché presentato il 3 novembre 2016, oltre i 45 giorni dalla notifica
dell’estratto contumaciale della sentenza di appello, avvenuta nelle mani del
padre convivente il 16 settembre 2016
10.2. Anche a prescindere da tale aspetto, il ricorso di Lucia Capuano, come
quello del padre Luigi, presenta diversi profili contenutistici che ne determinano
l’inammissibilità. Le impugnative sono, in primo luogo, generiche, giacché non si
confrontano con la sentenza impugnata e non articolano, rispetto ad essa,
specifiche censure, risolvendosi i motivi — tra loro identici — in una dissertazione
teorica sui presupposti del reato contestato, scevra da una critica ragionata e
argomentata della pronunzia; gli unici passaggi in cui si menzionano quelli del
provvedimento contestato non sono altro che la trascrizione di stralci di esso e la
proposizione di una propria ricostruzione alternativa che nella realtà non spiega

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ritenzione della somma incamerata ed alla mancata restituzione di essa dalla

perché quella della Corte di appello sia viziata. La riprova della genericità dei
motivi si ravvisa anche nel fatto che essi si limitano—salvo modifiche marginali
o formali necessarie per adattare l’impugnativa al ricorso per cassazione — a
riprodurre testualmente i motivi di appello. Va ricordato, a quest’ultimo
proposito, che, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si
risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e
puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non
specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica

U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823, in motivazione; Sez.
6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838).
11. Vi è, infine, da dichiarare inammissibile la richiesta, formulata in udienza
dai difensori presenti, di applicazione dell’indulto giacché, se è pur vero che la
Corte di appello aveva affrontato, respingendola, la richiesta formulata in quella
sede, nessuno dei ricorrenti ha formulato tempestivamente uno specifico motivo
di ricorso per cassazione sul punto. Va segnalato, infatti, che solo i ricorsi di
Antonio Iovine, Angelo Iovine e Carlo Vitagliano recano, esclusivamente nella
parte conclusiva, dedicata alle mozioni finali, la richiesta di applicazione
dell’indulto, ma che anche per queste posizioni la richiesta è inammissibile in
quanto del tutto sfornita di argomentazioni a supporto, contravvenendo alla più
volte ricordata regola circa la specificità dei motivi di ricorso per cassazione.
Va, peraltro, qui ribadito il principio secondo il quale, anche nel caso di
omessa pronuncia da parte del giudice d’appello in ordine all’applicabilità o meno
dell’indulto, l’imputato non ha interesse a ricorrere per cassazione, potendo
ottenere l’applicazione del beneficio in sede esecutiva ed essendo tale possibilità
preclusa solo da una decisione di rigetto del giudice della cognizione. (Sez. 2, n.
21977 del 28/04/2017, Brancher, Rv. 26980001; Sez. 2, n. 710 del 01/10/2013,
Forin, Rv. 25807301).
12. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di Lucia Capuano e Luigi
Capuano consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali e al versamento alla Cassa delle ammende della somma, che si stima
equa, di Euro 2.000,00. Al rigetto dei ricorsi degli altri imputati ricorrenti
consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi proposti nell’interesse di Capuano Lucia e
Capuano Luigi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese

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funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso» (Sez.

processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Rigetta i restanti ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

Così deciso il 17/04/2018.

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