Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2173 del 16/11/2012


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 2173 Anno 2013
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: MULLIRI GUICLA

ORDINANZA
su ricorso proposto da:

Occulto Luigi, nato a Foggia il 20.7.59
imputato art. 73 T.U. stup.
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 17.2.12

Sentita la relazione del cons. Guida Mùlliri;
Letta la richiesta del P.G. che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
osserva
Con la decisione impugnata, la corte d’appello ha confermato il giudizio di responsabilità
pronunciato nei confronti dell’odierno ricorrente accusato di avere detenuto a fini di spaccio
circa 100 gr di cocaina in parte ceduta a terzi. Con la recidiva specifica reiterata. Rivalutati i
criteri di cui all’art. 133 c.p., i giudici di secondo grado hanno, tuttavia ridotto in parte la pena
determinandola nella misura di 7 anni e 6 mesi di reclusione.
Il gravame lamenta la mancata esclusione della recidiva, il diniego dell’attenuante
speciale del comma 5 e di quelle generiche nonché il rigetto della richiesta di continuazione con
altro fatto già giudicato con sentenza definitiva ed, infine, il mancato dissequestro della somma
di denaro confiscata.
La corte respinge tali doglianze definendole generiche, reiterative di argomenti già svolti
in primo grado – dove erano stati esaminati con attenzione – e, quindi, dichiara inammissibili
i motivi svolti.

Data Udienza: 16/11/2012

Pur essendo innegabile una certa “stringatezza” del provvedimento impugnato , il
ricorrente non può dolersi più di tanto visto che, in ogni caso, la decisione è stata
sostanzialmente a suo favore visto che, nel rideterminare la pena, la Corte ha dimenticato, di
indicare quella pecuniaria.
In ogni caso, la sentenza è idonea a giustificare la presente declaratoria di
inammissibilità per manifesta infondatezza delle questioni sollevate. Ed infatti, come
giustamente osserva la Corte, esse erano state tutte svolte in primo grado dalla difesa ed
affrontate compiutamente dl giudice di primo grado nella sentenza che i giudici d’appello hanno
richiamato sì che le due decisioni si “saldano” andando a formare un unico complesso corpo
argomentativo (su. 4.2.92, Musumecl, Rv. 191229; Sez. I, 20.6.97, Zuccaro, Rv, 208257 Sez. I, 26.6.00, Sangiorgi, Rv.
Orbene, è appunto nella – decisamente accurata – decisione del G.i.p. che si legge
come l’imputato non abbia contestato la propria responsabilità limitandosi «concentrando la
propria discussione sulla qualificazione giuridica dei fatti e la quantificazione della pena».
Completa e corretta è però la replica del giudice quando esclude la riconducibilità del
fatto nell’alveo dell’attenuante speciale in considerazione della quantità e qualità della sostanza
stupefacente detenuta e ceduta. Ed infatti, a parte gli 80 gr. lordi di cocaina, si deve tener
conto ripartiti in involucri di carta stagnola ed ovuli, vi è da considerare gli altri (2,50, 2,70,
2,90), via via, sequestrati agli avventori che erano stati fermati dagli operanti che si erano
appostati fori dall’abitazione dell’imputato e che, di volta in volta, avevano appreso della
compravendita appena fatta e dell’esborso affrontato. Il tutto a dimostrazione di una attività
continuativa confermata anche da tutto il materiale sequestrato all’Occulto (bilancino di
precisione foglietti gialli tipo post-it (analoghi a quelli con cui era stata confezionata la droga sequestrata ai
vari clienti) alcuni dei quali già confezionati per ulteriori quantitativi di droga per un peso
complessivo di 8,30 gr. nonché vari importi di denaro tra cui una somma di 1860 C posta
sulla credenza della cucina.
Anche per quel che attiene al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, più
che congrua e logica è la considerazione del G.i.p. circa l’assenza di validi motivi per accedere
a quella richiesta visto che, a parte ogni latra considerazione sulle caratteristiche del fatto,
neppure il comportamento dell’imputato ha destato particolare apprezzamento essendosi
avvalso della facoltà di non rispondere ed avendo, solo in udienza « ha solo ammesso le
proprie responsabilità con dichiarazione spontanea, a fine chiaramente utilitaristico, essendo la
sua responsabilità evidente» e, quindi, non ha neppure spiegato se la sostanza stupefacente se
la fosse procurata evadendo dal regime custodiale domiciliare in cui si trovava ovvero gli fosse
stata portata da altri. A fronte di ciò, pertanto, non solo non erano giustificati riconoscimenti
riconducibili all’art. 62 bis c.p. ma, per contro trovava piena ragion d’essere al recidiva
reiterata specifica contestatagli.
Inoltre, il G.i.p., valutati gli elementi di cui all’art. 133 c.p. ha motivato per quale
ragione non ha ritenuto di irrogare il minimo della pena ed, a tale stregua, la sua decisione è
ineccepibile. Ed infatti, il computo della pena è esplicazione di un potere discrezionale del quale
il giudicante deve dare conto al fine di consentire a questa S.C., di esercitare la funzione di
controllo che le è propria. Una volta che, però, si rinvenga una motivazione aderente ai dati
processuali e che giunga a conclusioni che non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento
illogico, esse non sono censurabili in cassazione.
Anche il mancato dissequestro del denaro è stato puntualmente motivato dal giudice di
primo grado facendo notare che la documentazione prodotta dalla difesa consisteva in una
«fotocopia di una “ricevuta liberatoria” con rifotocopiata sopra la matrice di un assegno
circolare emesso 1’8.4.11» da cui si deduce che «Capobianco Cinzia ha ricevuto un assegno di
C 1421,81 in data 11.5..11 (data della sottoscrizione della ricevuta liberatoria), cioè dopo il
sequestro del denaro all’imputato».
Sulla scorta di tutto quanto precede e della completezza delle prima decisione, risulta
comunque giustificata la sintetica decisione della corte d’appello e, per contro manifestamente
infondata la doglianza del ricorrente.
Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 C.

216906).

P.Q.M.
Visti gli artt. 610 e ss. c.p.p.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 €.

Così deciso in Roma nell’udienza del 16 novembre 2012

Il P esidente

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