Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21639 del 24/11/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 21639 Anno 2016
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: SANDRINI ENRICO GIUSEPPE

Data Udienza: 24/11/2015

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
EMANUELE BRUNO N. IL 30/11/1972
FORASTEFANO ANTONIO N. IL 04/11/1971
avverso la sentenza n. 21/2013 CORTE ASSISE APPELLO di
CATANZARO, del 08/07/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 24/11/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE SANDRINI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. M ir\
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CONCLUSIONI:
Il Procuratore Generale, dott.ssa Marilia Di Nardo, per Forastefano Antonio
conclude chiedendo il rigetto del ricorso; per Emanuele Bruno conclude
chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente all’aggravante
dei motivi abbietti, con rigetto nel resto del ricorso dell’imputato.
Il difensore avv. Michele Albanese, anche in sostituzione dell’avv. Antonio
Quintieri, per le parti civili Regione Calabria e Provincia di Cosenza si riporta alle
conclusioni scritte.

chiedendo l’accoglimento del ricorso.
I difensori dell’imputato Emanuele Bruno, avv. Alfredo Gaito e avv. Giovanni
Aricò, concludono chiedendo l’accoglimento del ricorso.

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Il difensore dell’imputato Forastefano Antonio, avv. Sante Foresta, conclude

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 9.01.2013 la Corte d’assise di Cosenza condannava
Emanuele Bruno e Forastefano Antonio alle pene rispettive dell’ergastolo con
isolamento diurno per anni due (il primo) e di anni 15 di reclusione (il secondo),
oltre alle pene e statuizioni accessorie (comprensive della condanna al
risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, alle parti civili costituite),
previo riconoscimento al solo Forastefano delle attenuanti generiche equivalenti
alle aggravanti contestate e dell’attenuante di cui all’art. 8 legge n. 203 del

di Abbruzzese Nicola, ascritti ai capi 1 e 5 della rubrica, commessi dagli imputati
in concorso tra loro e con altri soggetti in Cassano allo Jonio il 27.02.2004 e
1’8.06.2003, entrambi aggravati dalla premeditazione, dai motivi abbietti, dal
numero delle persone concorrenti nel reato superiore a cinque, dalla finalità di
agevolare la cosca mafiosa facente capo alla famiglia Forastefano, nonché per i
connessi reati in materia di violazione della disciplina delle armi, di furto di
autovettura, di lesioni personali in danno di Bevilacqua Mario, di tentato omicidio
di Abbruzzese Leonardo Emanuele, rispettivamente ascritti ai prevenuti negli altri
capi della rubrica.
2. A seguito di appello degli imputati, la Corte d’assise d’appello di Catanzaro,
con sentenza pronunciata 1’8.07.2014, riformava parzialmente la decisione di
primo grado, dichiarando estinti per prescrizione i reati satellite ascritti al
Forastefano – per il quale il riconoscimento dell’attenuante speciale ex art. 8
legge n. 203 del 1991 aveva prodotto l’effetto di elidere l’incidenza
dell’aggravante di cui al precedente art. 7 – ai capi 2, 3, 4 e 6 (quest’ultimo
limitatamente alla sola detenzione delle armi ivi indicate), nonché quelli ascritti
all’Emanuele al capo 4 e, limitatamente alla sola condotta di detenzione, anche al
capo 2 della rubrica; rideterminava per l’effetto in anni uno mesi sei la durata
dell’isolamento diurno inflitto con l’ergastolo ad Emanuele Bruno e riduceva ad
anni 14 mesi 3 di reclusione la pena detentiva inflitta a Forastefano Antonio, con
eliminazione della misura di sicurezza della libertà vigilata applicata dalla Corte
di primo grado, confermando nel resto le statuizioni della sentenza impugnata.
3. Le sentenze di primo e secondo grado hanno ricostruito la genesi, la dinamica
e le responsabilità dei due episodi delittuosi, che si collocavano nel contesto di
violenta contrapposizione in corso all’epoca dei fatti per il controllo e la gestione
delle attività criminali sul territorio di Cassano Jonio e della piana di Sibari (con
particolare riguardo al traffico degli stupefacenti e al racket delle estorsioni) tra
la cosca mafiosa in ascesa capeggiata dalla famiglia Forastefano e quella c.d.
degli “zingari”, facente capo ad Abbruzzese Nicola ed alla quale apparteneva (
Bevilacqua Antonio, che i Forastefano intendevano soppiantare.

1

1991, per i delitti – unificati in continuazione – di omicidio di Bevilacqua Antonio e

Il primo omicidio commesso era stato quello di Abbruzzese Nicola, consumato
1’8.06.2003 mentre la vittima era sottoposta alla misura dell’obbligo di
presentazione alla p.g., circostanza che aveva agevolato la pianificazione e
l’esecuzione dell’agguato mortale; l’Abbruzzese era stato colpito e ucciso da più
colpi di arma da fuoco sparati da un kalashnikov e da un fucile cal. 12 mentre si
trovava a bordo dell’autovettura Ford Focus condotta dal figlio Leonardo
Emanuele, che era stato a sua volta attinto di striscio dai colpi sparati dai killer,
che viaggiavano a bordo di altra vettura, condotta da Forastefano Antonio e sulla

L’omicidio di Bevilacqua Antonio era stato successivamente commesso il
27.02.2004, mentre la vittima procedeva alla guida di un’autovettura VW Golf,
sulla quale viaggiava insieme al cugino Bevilacqua Mario rimasto ferito
nell’agguato, che era stata affiancata dalla vettura sulla quale si trovavano gli
imputati, anche in questo caso condotta dal Forastefano, dalla quale erano stati
esplosi i colpi di fucile cal. 12 che avevano attinto da distanza ravvicinata la
vittima, uccidendola e facendole perdere il controllo della Golf.
4. Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo
dei rispettivi difensori, entrambi gli imputati.
4.1. Il ricorso proposto nell’interesse di Emanuele Bruno dagli avvocati Giovanni
Aricò e Alfredo Gaito deduce cinque motivi di doglianza.
Col primo motivo, il ricorrente lamenta inosservanza della legge processuale, in
relazione agli artt. 178 lett. c) e 415 bis del codice di rito, censurando l’ordinanza
in data 13.12.2011 con cui la Corte di primo grado aveva rigettato l’istanza della
difesa di declaratoria di nullità del decreto che dispone il giudizio, perché viziato
dall’omesso deposito, in occasione della notifica dell’avviso di conclusione delle
indagini preliminari, di due missive inviate dal collaboratore di giustizia Falbo
Domenico all’ufficio del pubblico ministero, nelle quali ammetteva di aver riferito
notizie inveritiere in occasione dei suoi interrogatori, nonché di un verbale di
interrogatorio reso dal collaborante il 21.04.2010.
Il ricorrente deduce che la mancata tempestiva presa di cognizione dell’elemento
di prova costituito dagli atti di cui era stato omesso il deposito aveva
pregiudicato l’esercizio delle facoltà previste dall’art. 415 bis cod.proc.pen. e una
completa valutazione della regiudicanda, anche agli effetti di una decisione
ponderata sull’eventuale scelta di un rito alternativo; contesta il riferimento
all’esigenza di segretezza istruttoria con cui entrambe le Corti di merito avevano
ritenuto legittimo il mancato deposito delle missive, anche a fronte del dovere
del pubblico ministero di depositare agli atti del fascicolo, ex art. 16-quater D.L.
n. 8 del 1991, il verbale illustrativo delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia, necessario a consentire alla difesa di conoscere le modalità della scelta

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quale si trovava il coautore materiale dell’omicidio Emanuele Bruno.

collaborativa e di articolare tempestivamente, nel termine previsto dall’art. 468
del codice di rito, le proprie istanze istruttorie; deduce l’estensione dell’invalidità
dell’atto a tutti quelli successivi.
Col secondo motivo, il ricorrente deduce mancanza e manifesta illogicità della
motivazione, impugnando contestualmente l’ordinanza in data 6.02.2014 con cui
la Corte di secondo grado aveva respinto l’istanza della difesa di parziale
rinnovazione dell’istruttoria, lamentando la frettolosa e incompleta esposizione
dei motivi d’appello da parte della sentenza impugnata, tale da non consentire al

grado e l’esistenza di un’effettiva risposta da parte del giudice d’appello; deduce
la vanificazione della garanzia del doppio grado di giudizio di merito, essendosi
limitata la Corte territoriale a rigettare in modo apodittico i motivi d’appello.
In particolare, il ricorrente censura l’omessa risposta alle critiche rivolte dalla
difesa al metodo di valutazione delle dichiarazioni rese dai collaboratori di
giustizia con riguardo ad entrambi gli omicidi Abbruzzese e Bevilacqua, limitato
all’esaltazione della natura coerente e particolareggiata delle dichiarazioni del
Falbo e del Forastefano, convalidate da quanto riferito de relato da altri
collaboranti (Oliva, Lione, Lovato), con specifico riguardo:
– alla dissonante ricostruzione della dinamica delittuosa operata dal figlio della
vittima Abbruzzese Nicola, rimasto ferito nell’agguato omicida, sui punti relativi
all’autovettura utilizzata dai killer (una Fiat Bravo di colore nero anziché una
Opel Corsa GSI 16 valvole di colore grigio scuro) e al fatto che lo sparatore fosse
sceso dalla vettura, colpendo la vittima ed esplodendo verso il figlio della stessa
altri colpi che questi era riuscito a schivare correndo a zig zag;
– all’esistenza di riscontri oggettivi dell’attendibilità di quanto dichiarato dal figlio
della vittima, tratti dalle risultanze di prova generica, e in particolare dal luogo di
rinvenimento dei bossoli, dalla presenza di un foro di proiettile sul montante
posteriore destro della vettura, dalla traiettoria intrasomatica dei proiettili che
avevano attinto la vittima, incompatibili con la posizione dello sparatore seduto
sul lato guida della vettura che aveva affiancato quella della vittima, indicata dal
Forastefa no;
– all’inattendibilità e all’incostanza delle dichiarazioni del Falbo, che aveva
coinvolto il ricorrente nell’omicidio Abbruzzese solo in occasione del suo secondo
interrogatorio, aveva modificato nel corso del procedimento le dichiarazioni sulla
sua partecipazione alle varie fasi del delitto e aveva violato il programma di
protezione;
– al contrasto esistente tra le dichiarazioni dei due collaboratori, Falbo e
Forastefano, sui punti relativi all’accuratezza dei preparativi dell’omicidio del
Bevilacqua, all’esistenza di un precedente tentativo di uccidere la vittima,

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giudice di legittimità di verificare le censure dedotte avverso la sentenza di primo

all’occultamento nelle acque del fiume Coscile della vettura utilizzata per
commettere l’omicidio;
– alla dissonanza e all’intrinseca contraddittorietà di quanto dichiarato da Oliva
Luciano sul predetto omicidio;
– al contrasto rilevabile tra le dichiarazioni del Forastefano sulla dinamica dei
colpi d’arma da fuoco che avevano attinto il Bevilacqua e le risultanze della prova
generica, che contraddicevano il duplice affiancamento della vettura della vittima
con esplosione di colpi in entrambe le occasioni, a fronte del rinvenimento dei

Il ricorrente critica il metodo di valutazione delle dichiarazioni accusatorie seguito
dalla sentenza impugnata, che si era limitata a valorizzarne la consistenza logica
dei contenuti, senza confrontarli con gli elementi esterni muniti di oggettiva
consistenza probatoria emergenti dalle diverse dimensioni di una Fiat Bravo (o
Brava) da quelle di una Opel Corsa GSI, dalle striature di vernice nera (e non
grigio scuro) rilevate sulla fiancata sinistra della vettura dell’Abbruzzese, dalla
presenza di un unico bossolo cal. 12 sul luogo dell’omicidio di quest’ultimo
(incompatibile con la pluralità di colpi esplosi riferita dal Forastefano).
Il ricorso censura altresì l’indicazione dell’Emanuele come autore dell’omicidio
senza il suffragio di alcun riscontro che non fosse stato confutato nel corso del
dibattimento, nonché l’erronea applicazione da parte delle Corti di merito dei
principi in materia di frazionabilità delle dichiarazioni collaborative, che non
potevano trovare applicazione nel caso di accertata inveridicità di una parte
essenziale della narrazione, e di quello della convergenza del molteplice,
indebitamente limitata al solo nucleo essenziale del racconto dei collaboratori;
lamenta l’assenza del rigore motivazionale necessario a escludere l’incidenza
delle parti risultate inattendibili sull’affidabilità complessiva delle dichiarazioni
accusatorie, nonché la mancanza di specifica risposta alle deduzioni difensive sul
punto; censura la violazione del “protocollo” di validazione della chiamata in
correità individuato dalla giurisprudenza di legittimità, avendo la sentenza
impugnata valorizzato esclusivamente la credibilità soggettiva dei dichiaranti.
Col terzo motivo, il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale e
vizio di motivazione, in relazione agli artt. 577 cod. pen. e 546 lett. e) del codice
di rito, rilevando l’assenza di organicità dell’Emanuele al sodalizio criminale
facente capo alla famiglia Forastefano, al quale aveva offerto solo un occasionale
ed episodico contributo con riguardo alla commissione di singoli delitti, così da
escludere che l’imputato fosse a conoscenza delle dinamiche criminali riguardanti
la contrapposizione dei Forastefano al clan degli zingari, nel cui ambito erano
maturati gli omicidi; rileva che la sconoscenza dell’attività preparatoria degli
agguati da parte del ricorrente e la sua cooptazione solo all’ultimo momento
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bossoli in un unico luogo.

nella relativa esecuzione escludeva l’aggravante della premeditazione, sotto il
profilo della mancata condivisione dell’intensità del dolo.
Col quarto motivo, il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale e
vizio di motivazione, in relazione agli artt. 61 n. 1 cod. pen. e 546 lett. e) del
codice di rito, censurando la ritenuta compatibilità dell’aggravante dei motivi
abbietti e futili con quella dell’agevolazione mafiosa, alla stregua dei principi
affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 337 del 2009.
Col quinto motivo, il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale e

del codice di rito, criticando la contestazione dell’aggravante dell’agevolazione
mafiosa in relazione a un delitto punito con l’ergastolo, evocando un parallelismo
con la disciplina della prescrizione.
4.2. Il ricorso proposto nell’interesse di Forastefano Antonio dall’Avv. Sante
Foresta deduce due motivi di gravame.
Col primo motivo, il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione
in ordine al diniego delle attenuanti generiche.
Deduce l’omessa valutazione della condotta

post delictum

dell’imputato,

particolarmente rilevante in ragione del lasso temporale di oltre un decennio
trascorso tra l’epoca dei fatti e la pronuncia della sentenza d’appello, tale da
implicare un radicale mutamento dello stile di vita del prevenuto; rileva la
funzione delle attenuanti generiche di adeguare la pena al caso concreto,
connotato da pentimento e accettazione della condanna, nonché dalla
collaborazione leale e fattiva con la giustizia; richiama i principi affermati dalla
Consulta nella sentenza n. 183 del 2011, dichiarativa dell’illegittimità del divieto
di tener conto del comportamento del reo successivo alla commissione del reato,
e invoca l’utilizzabilità, nel giudizio da compiersi agli effetti dell’art. 62 bis cod.
pen., dei medesimi criteri che avevano giustificato il riconoscimento al
Forastefano dell’attenuante della dissociazione attuosa.
Col secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione di legge, in relazione all’art.
63 cod. pen., e vizio di motivazione, in ordine al calcolo della pena conseguente
al riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 8 legge n. 203 del 1991.
Deduce che l’attenuante era stata erroneamente applicata dopo il giudizio di
comparazione, formulato in termini di equivalenza, tra le aggravanti e le
attenuanti generiche, mentre la natura dell’attenuante ad effetto speciale ne
imponeva l’applicazione per prima, pena la vanificazione – altrimenti – dell’effetto
favorevole sul piano sanzionatorio del riconoscimento delle attenuanti generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso di Emanuele Bruno.
1. Il primo motivo di doglianza del ricorrente è infondato.

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V.)

vizio di motivazione, in relazione agli artt. 7 D.L. n. 152 del 1991 e 546 lett. e)

Questa Corte ha affermato il principio, che deve essere qui ribadito, per cui
l’omesso deposito, da parte del pubblico ministero, di taluni atti acquisiti in fase
d’indagine in occasione dell’avviso all’indagato della conclusione delle indagini
preliminari, ovvero della presentazione della richiesta di rinvio a giudizio, non è
sanzionato da alcuna nullità, che non è prevista dagli artt. 415-bis e 416
cod.proc.pen., né è riconducibile alla categoria delle nullità generali per lesione
del diritto di difesa di cui all’art. 178 comma 1 lett. c) del codice di rito, posto
che l’atto non depositato non è – in via di principio – utilizzabile in giudizio nei

Sez. 1 n. 13407 del 2/03/2005, Rv. 231504).
Un vulnus del diritto di difesa non è configurabile, in particolare, sotto i profili,
dedotti dal ricorrente, dell’incidenza che la tempestiva conoscenza del verbale
d’interrogatorio del 21.04.2010 del collaborante Falbo Domenico e delle missive
dallo stesso inviate all’ufficio del pubblico ministero avrebbe potuto avere sulle
determinazioni difensive inerenti la scelta ponderata di un rito alternativo al
dibattimento, ovvero sull’esercizio del diritto dell’imputato alla prova contraria a
fronte dell’emersione solo nel corso dell’istruttoria dibattimentale dell’esistenza
degli atti e documenti provenienti dal collaboratore di giustizia.
Sotto il primo profilo, occorre rilevare che il corso dell’istruzione dibattimentale è
ordinariamente suscettibile di dar luogo a un’ampia gamma di possibilità legali di
accrescimento del materiale probatorio disponibile per la decisione del giudice,
rispetto alle deduzioni e alle aspettative originarie delle parti, sia ad iniziativa
delle parti stesse che di quella ufficiosa del giudice, senza che la sopravvenienza
dell’elemento di novità non conosciuto dall’imputato entro le scansioni temporali
in cui gli era consentita la scelta di un rito alternativo possa far insorgere una
legittimazione tardiva all’esercizio di una facoltà non tempestivamente esercitata
e che doveva contemplare ab initio nel suo ambito valutativo anche i prevedibili
sviluppi del dibattimento (Sez. 2 n. 29573 del 2006, citata, in motivazione),
specialmente con riguardo ai contenuti dichiarativi dell’esame di un collaboratore
di giustizia; inoltre, l’eventualità di una diversa determinazione in ordine alla
scelta del rito (in tesi, in favore del giudizio abbreviato) è stata enunciata dal
ricorrente in termini del tutto astratti e solo congetturali, che non possono
trovare ingresso nel giudizio di legittimità, non essendosi la relativa
prospettazione tradotta in alcuna concreta richiesta processuale e, soprattutto,
non contenendo alcuna indicazione specifica delle ragioni per cui la tempestiva
conoscenza degli atti non depositati dal pubblico ministero sarebbe stata idonea
a comportare una diversa valutazione in ordine all’opportunità di una rinuncia
preventiva a saggiare nel contraddittorio dibattimentale la credibilità del
collaboratore proprio sul contenuto e sul significato di quegli atti.
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confronti dell’imputato (ex multis, Sez. 2 n. 29573 del 7/07/2006, Rv. 234968;

Sotto il secondo profilo, occorre ribadire che la pienezza della garanzia del
contraddittorio nella formazione della prova, assicurata dalla possibilità della
difesa di controesaminare direttamente il Falbo al dibattimento anche sulla
circostanza (emersa per la prima volta in tale sede) relativa alle missive inviate
al pubblico ministero, esclude – così come correttamente ritenuto dalla sentenza
impugnata – qualsiasi pregiudizio dei diritti processuali dell’imputato, la cui
facoltà di articolare un’eventuale prova contraria sul punto, davanti al giudice di
primo grado, non avrebbe incontrato alcuna preclusione nel decorso del termine

nel corso dell’istruzione dibattimentale: Sez. 3 n. 15368 del 3/03/2010, Rv.
246613), salva sempre la verifica giudiziale della rilevanza e della non manifesta
superfluità della prova.
L’eccezione di nullità degli atti successivi del processo, sollevata dal ricorrente
sotto i suddetti profili, è dunque infondata.
2. Anche il secondo motivo di censura dedotto dal ricorrente è infondato, fino a
rasentare l’inammissibilità.
La sentenza impugnata non è incorsa in alcuno dei vizi di motivazione lamentati
dal ricorrente con riguardo all’affermazione della responsabilità concorsuale
dell’Emanuele negli omicidi di Abbruzzese Nicola e Bevilacqua Antonio, in qualità
di esecutore materiale di entrambi i delitti.
2.1. Quanto alle censure di metodo rivolte alla motivazione e alla tecnica
redazionale della sentenza d’appello, va ribadito il consolidato orientamento di
questa Corte secondo cui il giudice di merito non è tenuto, nell’adempimento del
dovere di motivazione della sentenza, a compiere un’analisi approfondita di tutte
le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le
risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione
globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le
ragioni del proprio convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato
tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni
difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata (Sez. 4 n. 26660 del 13/05/2011, Rv.
250900; Sez. 6 n. 20092 del 4/05/2011, Rv. 250105); la motivazione del giudice
d’appello, dunque, deve ritenersi congrua, e incensurabile in sede di legittimità,
ogniqualvolta abbia esaminato e confutato gli argomenti che costituiscono
l’ossatura dei motivi di gravame dell’appellante, a prescindere dal silenzio
(apparentemente) serbato su talune deduzioni prospettate dalla parte, quando le
stesse risultino comunque disattese dalla motivazione della sentenza considerata
nel suo complesso, anche sotto il profilo della loro incompatibilità logica con la
decisione (Sez. 1 n. 27825 del 22/05/2013, Rv. 256340).
7

di cui all’art. 468 cod.proc.pen. (essendo emersi i relativi presupposti soltanto

Nell’ambito di un ordinamento processuale che prevede (e impone) il requisito
della “concisione” nell’esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la
sentenza è fondata (artt. 544 comma 1 e 546 comma 1 lett. e) cod.proc.pen.),
non è dunque suscettibile di censura la sintetica enunciazione dei motivi
d’appello dell’imputato, da parte della sentenza impugnata, nel medesimo
contesto espositivo delle ragioni della loro ritenuta infondatezza, in quanto ciò
che risulta decisivo, agli effetti del superamento del vaglio di legittimità della
motivazione, è il dato obiettivo rappresentato dalla risposta esauriente

delle argomentazioni della Corte territoriale.
La motivazione della sentenza d’appello non appare censurabile neppure sotto il
profilo della dedotta assenza di autonomia e indipendenza rispetto all’apparato
argonnentativo della decisione di primo grado, che la Corte distrettuale si
sarebbe limitata a replicare in termini apodittici e meramente ripetitivi senza
confrontarsi con le doglianze dell’appellante, così da violare la garanzia del
doppio grado di giurisdizione di merito, in quanto dal raffronto tra gli apparati
motivazionali delle due sentenze risulta che – contrariamente all’assunto del
ricorrente – i motivi d’appello dell’Emanuele si sono risolti essenzialmente nel
riproporre le medesime argomentazioni di fatto che erano già state esaminate e
disattese in modo puntuale, sulla scorta delle emergenze istruttorie, dalla
sentenza di primo grado, in tal modo giustificando l’operatività del principio per
cui l’omogeneità dei criteri di analisi degli elementi di prova e delle correlative
valutazioni di merito, compiute dai giudici di entrambi i gradi, comporta che, ai
fini del controllo di legittimità sulla motivazione della condanna dell’imputato
demandato alla Corte di cassazione, la struttura giustificativa delle due sentenze
si saldi fino a formare un unico e complessivo corpo argomentativo (Sez. 3 n.
44418 del 16/07/2013, Rv. 257595; Sez. 3 n. 13926 dell’1/12/2011, Rv.
252615; Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007, Rv. 236181), la cui tenuta logica e la
cui capacità dimostrativa devono essere sindacate e apprezzate in modo unitario.
In ogni caso, la sentenza d’appello – nel richiamare e condividere l’impianto
motivazionale della sentenza di primo grado, dichiaratamente ritenuto aderente
alle risultanze dell’istruzione dibattimentale che sono state giudicate univoche e
puntualmente dimostrative della responsabilità dell’imputato (tanto da rigettare
le istanze di rinnovazione istruttoria formulate nei motivi di gravame
dell’Emanuele ai sensi dell’art. 603 cod.proc.pen.), oltre che sorretto da
adeguate argomentazioni logico-giuridiche, in specie per quanto riguarda la
valutazione delle chiamate in correità operate a carico dell’imputato dai
collaboratori di giustizia – non si è limitata a una motivazione per relationem, ma
ha direttamente esaminato e affrontato (alle pagine 32-38) i temi della

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comunque fornita alle doglianze difensive, emergente dalla lettura complessiva

credibilità soggettiva dei propalanti e dell’attendibilità intrinseca dei loro apporti
dichiarativi, in particolare quelli di Falbo Domenico e di Forastefano Antonio,
concorrenti nei medesimi reati e rei confessi degli stessi, pervenendo a un
motivato giudizio di conferma dell’idoneità probatoria delle relative dichiarazioni
accusatorie e della capacità di riscontrarsi reciprocamente tra loro, e con gli altri
elementi acquisiti, che costituisce frutto di un percorso argomentativo proprio e
autonomo della Corte di secondo grado, che ha risposto in modo adeguato e
coerente alle censure dedotte nei motivi d’appello, così da risultare, anche sotto

2.2. Con specifico riguardo alle censure rivolte dal ricorrente al metodo di
valutazione delle chiamate in correità operate dai collaboratori di giustizia, la
sentenza impugnata non si è limitata a esaltare e recepire acriticamente i
contenuti dichiarativi delle relative propalazioni, ma ha proceduto a esaminare,
con esito positivo, la credibilità soggettiva e le ragioni della scelta collaborativa
dei dichiaranti, in particolare del Falbo, argomentandone l’autonomia, la
spontaneità e la genuinità, che si è tradotta nella messa a disposizione dell’intero
patrimonio conoscitivo posseduto, e dando adeguato conto della ritenuta
inidoneità della sopravvenuta irreperibilità, peraltro solo temporanea, del Falbo a
inficiarne l’affidabilità della collaborazione, avendo il propalante spiegato la sua
sottrazione al programma di protezione con la paura di ritorsioni da parte dei
Forastefano nei confronti propri e dei familiari, specie a seguito
dell’appropriazione da parte sua di denaro della cosca, temendo di non essere
adeguatamente tutelato nella propria incolumità personale.
Anche per quanto concerne l’attendibilità intrinseca delle propalazioni
accusatorie, la sentenza gravata ha coerentemente valorizzato la provenienza
dei contributi dichiarativi da soggetti intranei alla medesima cosca mafiosa
(Forastefano Antonio in posizione apicale e Falbo Domenico in qualità di uomo di
fiducia del capo), contrapposta a quella di appartenenza delle vittime, entrambi
perciò a diretta conoscenza dei fatti delittuosi narrati per aver partecipato alle
relative fasi deliberative, organizzative e – il Forastefano – anche esecutive, che
si sono autoaccusati dei relativi omicidi e di altri gravi reati, ed autori di
descrizioni logicamente coerenti, dettagliate, e circostanziate nel tempo e nello
spazio, degli episodi delittuosi, che si riscontrano a vicenda nei loro contenuti
essenziali e presentano solo marginali discrasie, tali da non incidere sul nucleo
fondamentale del racconto.
In particolare, la Corte distrettuale ha evidenziato come entrambi gli omicidi,
connotati da un protocollo commissivo comune, contemplante la partecipazione
in tutti e due i casi dell’Emanuele in qualità di killer ed esecutore materiale
congiuntamente al Forastefano (al quale l’imputato era legato da risalenti vincoli,
9

tale profilo, insindacabile dalla Corte di legittimità.

di solidarietà criminale, riguardanti sia i traffici di droga che il concorso comune
in altri omicidi, come quello dei fratelli Loielo), trovassero la loro genesi causale
e si inserissero nelle medesime dinamiche criminali di contrapposizione tra la
cosca capeggiata dalla famiglia Forastefano e quella c.d. degli “zingari” (alla
quale appartenevano le vittime Abbruzzese e Bevilacqua) nell’ambito della
“guerra di mafia” in corso all’epoca per il controllo delle attività illecite nel
territorio di Cassano Jonio e della Sibaritide, secondo un racconto – comune ai
collaboratori di giustizia Falbo e Forastefano – che aveva trovato riscontro non

Lovato Samuele, Lione Salvatore) e all’altra (Perciaccante Pasquale) delle parti in
lotta, ma anche nelle sentenze definitive di condanna già pronunciate per i
medesimi e altri delitti, che avevano consentito una compiuta ricostruzione della
vicenda relativa allo scontro tra le due consorterie criminali in termini
pienamente conformi a quelli descritti dai collaboranti, confermando l’affidabilità
dei loro apporti dichiarativi.
Dalla lettura coordinata del testo delle sentenze di primo e di secondo grado,
emerge in modo immediato la sostanziale coincidenza e l’assenza di significative
discrasie del narrato dei collaboratori di giustizia sugli elementi essenziali dei due
omicidi, con riguardo alla causale, alle concrete modalità attuative, alle attività
preparatorie e successive, alle armi e ai mezzi impiegati, al diretto ruolo
esecutivo dell’Emanuele.
Quanto all’omicidio Abbruzzese, sia il Falbo che il Forastefano hanno riferito degli
appostamenti propedeutici, ai quali il Falbo aveva preso parte diretta, finalizzati
a sorprendere la vittima approfittando dei suoi spostamenti fuori dall’abitazione
necessitati dall’esigenza di adempiere l’obbligo di presentazione al quale
l’Abbruzzese era soggetto presso la stazione dei carabinieri di Cassano Jonio,
dell’impiego nell’azione delittuosa di un kalashnikov e di un fucile cal. 12 caricato
a pallettoni, delle modalità esecutive dell’agguato materialmente attuato dal
Forastefano e dall’Emanuele (che era arrivato il giorno prima) a bordo di
un’autovettura Opel Corsa Gsi con la quale i killer avevano raggiunto la Ford
Focus condotta dal figlio della vittima che la stava accompagnando a firmare in
caserma, sparando all’Abbruzzese con entrambe le armi lunghe a disposizione,
nonché del successivo occultamento della Opel nel letto del fiume Coscile; e le
relative, conformi, propalazioni di natura diretta sono state ulteriormente
riscontrate da quelle de relato del Lione e del Lovato, sodali della cosca
Forastefano, anche con specifico riguardo al ruolo di esecutore materiale
dell’omicidio svolto dall’Emanuele.
Entrambe le Corti di merito si sono puntualmente confrontate, disattendendole,
con le argomentazioni difensive, riproposte nel motivo di ricorso, tratte dalle

10

solo nelle dichiarazioni di altri soggetti appartenenti all’una (Oliva Luciano,

dichiarazioni del figlio della vittima (Abbruzzese Leonardo Emanuele) e
conducente della Ford Focus, riuscito a sottrarsi con la fuga (a differenza del
padre) al proposito omicida dei killer, nonché dagli esiti della consulenza
balistica, intese a contraddire le propalazioni dei collaboratori sul tipo di vettura
utilizzata nell’agguato (che l’Abbruzzese ha indicato in una Fiat Bravo, o Brava,
anziché in una Opel Corsa Gsi) e sulla dinamica della sparatoria, spiegando con
la somiglianza esistente tra i due modelli di autovetture l’errore in cui era incorso
il teste nell’indicazione del tipo di veicolo (comunque di colore scuro, nero o

della prova generica acquisita dagli inquirenti delle modalità di esplosione e di
successione dei colpi riferita dal Forastefano, riscontrata dal rinvenimento in loco
di bossoli riconducibili ad entrambe le armi lunghe da sparo (il fucile d’assalto
modello kalashnikov e il fucile da caccia calibro 12) indicate dai collaboranti
come impiegate nell’azione delittuosa.
L’esistenza di un’adeguata e coerente motivazione sul punto, complessivamente
emergente dalle due sentenze, rende, dunque, incensurabile la valutazione
operata dai giudici di merito, ai quali compete in via esclusiva l’attività di
ricostruzione del fatto e di interpretazione delle prove, che non è ulteriormente
sindacabile in sede di legittimità mediante la sollecitazione di un’inammissibile
rilettura delle risultanze istruttorie in cui tende a risolversi la doglianza del
ricorrente (Sez. Un. n. 47289 del 24/09/2003, Rv. 226074, Petrella).
Anche per quanto riguarda l’omicidio Bevilacqua, le dichiarazioni del Falbo (che
partecipò personalmente alla sola fase organizzativa, ma non a quella esecutiva,
del delitto perché successivamente ristretto agli arresti domiciliari) e del
Forastefano coincidono sugli elementi essenziali del fatto, in particolare sulla
causale del delitto (nella quale convergeva, insieme all’appartenenza della
vittima al clan contrapposto degli “zingari”, lo specifico movente vendicativo di
natura personale del Forastefano per aver il Bevilacqua agito da specchietto in
un precedente tentativo di omicidio in suo danno, sfociato nell’uccisione di altro
sodale della cosca capeggiata dal collaborante), sugli appostamenti preparatori
che avevano consentito di cogliere l’occasione propizia rappresentata dalla
frequentazione abituale di una palestra da parte della vittima, sul furto
(compiuto personalmente dal Falbo) dell’Alfa Romeo 164 di colore amaranto
destinata a essere utilizzata nell’agguato e fatta successivamente sparire
anch’essa nelle acque del fiume Coscile (dove gli inquirenti avevano
effettivamente recuperato un paraurti appartenente alla vettura rubata), sul
ruolo di esecutore diretto dell’omicidio dell’Emanuele, che sparò materialmente al
Bevilacqua con un fucile cal. 12, attingendolo con più colpi diretti alla testa, nel
momento in cui la vettura condotta dal Forastefano aveva affiancato la Golf
11

grigio “canna di fucile”) ed escludendo una reale dissonanza con le risultanze

guidata dalla vittima, che percorreva il tragitto dalla palestra all’abitazione, e al
cui fianco sedeva il cugino Bevilacqua Mario, che ha confermato la dinamica
dell’omicidio; e le propalazioni dei due collaboratori hanno trovato ulteriore
riscontro in quelle, frutto in parte anche di scienza diretta, del sodale Oliva
Luciano (che eseguì alcuni degli appostamenti, provvide a predisporre per
l’azione delittuosa l’Alfa Romeo 164 rubata dal Falbo, e assistette alle operazioni
di pulizia e di caricamento a pallettoni del fucile cal. 12 compiute dall’Emanuele
prima dell’agguato), nonché in quelle de relato del Lione e – per quanto concerne

cosca rivale degli “zingari” Perciaccante Pasquale.
La sentenza impugnata ha evidenziato che le discrasie rilevate dalla difesa
dell’imputato nel racconto del Falbo (rispetto al narrato del Forastefano e
dell’Oliva) riguardano aspetti solo secondari della sequenza delittuosa, e non
concernono comunque il ruolo e le modalità di partecipazione dell’Emanuele
all’omicidio, spiegando – con argomentazione logica, la cui linearità non presta il
fianco a censura – come la presenza di talune imprecisioni o incoerenze nella
relativa narrazione costituisca un’evenienza ordinariamente giustificabile
nell’ambito della rievocazione di un’ampia gamma di vicende e fatti delittuosi, da
parte del collaboratore, che ha riguardato l’intero contesto delle azioni illecite
poste in essere nel periodo dalla cosca mafiosa di appartenenza; e, del resto, il
dato incontroverso dell’assenza di partecipazione materiale del Falbo alle fasi
finali dell’omicidio, dovuta alla sopravvenuta sottoposizione agli arresti
domiciliari, dà ragione della mancata conoscenza da parte sua del tentativo desistito – di uccidere il Bevilacqua all’uscita da un ristorante che aveva
preceduto la consumazione dell’omicidio, concordemente riferito invece dagli altri
collaboratori Oliva e Forastefano, nonché delle ulteriori attività di appostamento,
di predisposizione dell’Alfa 164 e di successivo occultamento della stessa nel
fiume Coscile, poste in essere dall’Oliva nell’imminenza del delitto ovvero subito
dopo la sua commissione.
Anche l’apparente contraddizione, segnalata dalla difesa, del luogo di
rinvenimento dei bossoli dei proiettili sparati contro la vittima, tutti in prossimità
della curva dove la Golf guidata dal Bevilacqua era uscita di strada a seguito
della perdita di controllo della vettura da parte del conducente colpito alla testa,
con l’esplosione di due successive sequenze di colpi da parte dell’Emanuele,
riferita dal Forastefano, non inficia la complessiva attendibilità degli elementi
essenziali della dinamica omicidiaria descritta dal collaboratore, che ha trovato
puntuale riscontro nelle dichiarazioni del cugino della vittima e nelle risultanze di
prova generica con riguardo agli aspetti salienti dell’affiancamento della Golf da
parte della vettura guidata dal Forastefano e dell’esplosione dei colpi da distanza
12

la conferma dello specifico movente dell’omicidio – anche del componente della

ravvicinata da parte dell’Emanuele mediante l’impiego di un (unico) fucile di
calibro e tipo corrispondenti a quelli conformemente indicati da tutti i collaboranti
e ai reperti inventariati in loco dagli inquirenti.
2.3. La motivazione dei giudici di merito non si è limitata, dunque, a un generico
“atto di fede” nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, come lamentato dal
ricorrente, ma ha proceduto al loro vaglio critico, ponendole a confronto con le
complessive acquisizione istruttorie, in conformità al protocollo valutativo della
chiamata in correità enunciato in modo costante da questa Corte, che prevede la

intrinseca delle sue dichiarazioni, secondo i criteri tradizionalmente individuati
dall’elaborazione giurisprudenziale sul punto, e la successiva verifica
dell’esistenza di riscontri esterni che ne confermino l’attendibilità (ex plurimis, da
ultima, Sez. 2 n. 21171 del 7/05/2013, Rv. 255553), che devono avere natura
individualizzante con specifico riguardo sia alla persona del soggetto chiamato
che ai fatti a lui addebitati, e possono essere costituiti anche dalle convergenti
dichiarazioni accusatorie di altri collaboranti.
Su quest’ultimo punto, entrambe le Corti di merito hanno fatto corretta
applicazione dei principi affermati da questa Corte Suprema in tema di c.d.
convergenza del molteplice, secondo cui le dichiarazioni accusatorie provenienti
da fonti soggettive diverse devono bensì caratterizzarsi per la loro convergenza
in ordine ai fatti materiali oggetto di narrazione, per la loro reciproca autonomia
e indipendenza non solo quanto alle rispettive fonti di conoscenza ma anche con
riguardo all’assenza (oltre che, ovviamente, di pregresse intese fraudolente) di
suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della loro
concordanza, nonché per la loro specificità nel senso sopra indicato della valenza
individualizzante che deve concernere tanto i fatti-reato quanto la riferibilità
degli stessi all’imputato, senza tuttavia che possa pretendersi una completa
sovrapponibilità del racconto e degli elementi d’accusa forniti dai propalanti,
dovendo privilegiarsi invece l’aspetto sostanziale della concordanza della
narrazione sul nucleo centrale e significativo dei fatti e degli episodi delittuosi
oggetto di giudizio (ex multis, Sez. 2 n. 13473 del 4/03/2008, Rv. 239744; Sez.
1 n. 1263 del 20/10/2006, Rv. 235800; Sez. 2 n. 3616 del 17/12/1999, Rv.
215558; nonché Sez. 3 n. 44882 del 18/07/2014, Rv. 260607).
Nel caso di specie, le sentenze di primo e secondo grado hanno dato conto, con
motivazione adeguata che si sottrae a censura in sede di legittimità, della
convergenza e del riscontro reciproco e incrociato esistente tra le dichiarazioni
del Falbo, del Forastefano e degli altri collaboratori di giustizia sugli aspetti
essenziali della dinamica degli omicidi dell’Abbruzzese e del Bevilacqua (anche)
per quanto riguarda specificamente la partecipazione diretta dell’Emanuele alla
13

preventiva verifica della credibilità soggettiva del propalante e dell’attendibilità

relativa fase esecutiva, nel ruolo di autore materiale di entrambe le condotte
omicidiarie, secondo modalità – consistite nello sparare alle vittime con armi
automatiche o semiautomatiche da distanza ravvicinata dopo averle sorprese e
raggiunte, o comunque avvicinate, durante il tragitto stradale, a bordo di
un’autovettura condotta in ambedue i casi dal Forastefano – che sono state
descritte nel loro nucleo centrale in modo fondamentalmente conforme da tutti i
collaboratori e che non sono contraddette, nella loro complessiva dinamica
circostanziale e nel tipo di armi impiegate, dalle risultanze della prova generica.

avrebbe fatto dei principi elaborati da questa Corte in tema di frazionabilità della
valutazione della chiamata in correità (secondo cui l’esclusione dell’attendibilità
di una parte del racconto del propalante non implica per ciò stesso un giudizio di
inaffidabilità delle altre parti intrinsecamente attendibili e adeguatamente
riscontrate, a condizione che non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la
parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti, e l’inattendibilità non sia
talmente macroscopica, per il suo conclamato contrasto con altre sicure
emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante:
Sez. 6 n. 35327 del 18/07/2013, Rv. 256097) non ha, dunque, ragion d’essere e
si rivela inconferente al caso di specie, nel quale non sussiste alcuna accertata
inveridicità o contrasto macroscopico nelle dichiarazioni dei collaboranti, sia tra
di loro che in rapporto al complesso delle acquisizioni istruttorie, ma sono
ravvisabili – al più – soltanto marginali discrasie su particolari secondari, di cui i
giudici di merito hanno dato adeguata giustificazione logica, che non riguardano
il nucleo essenziale del racconto dei propalanti e gli aspetti fondamentali e
significativi della ricostruzione probatoria degli episodi delittuosi.
3. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato.
Costituisce principio consolidato nell’elaborazione giurisprudenziale di questa
Corte che la circostanza aggravante della premeditazione si estende al
concorrente nel reato che non abbia direttamente premeditato il delitto qualora
egli abbia acquisito, prima dell’esaurirsi del proprio apporto volontario alla
realizzazione dell’evento criminoso, effettiva conoscenza della premeditazione
altrui, così da fare propria la particolare intensità del dolo dei compartecipi
qualificato dagli elementi richiesti dall’art. 577 primo comma n. 3 cod. pen. (ex

plurímis,

Sez. 5 n. 29202 dell’11/03/2014, Rv. 262383; Sez. 5 n. 4977

dell’8/10/2009, Rv. 245581; Sez. 1 n. 40237 del 10/10/2007, Rv. 237866).
Nel caso di specie, non essendo controvertibile la natura premeditata dei due
omicidi, entrambi pianificati e organizzati da tempo nei confronti di altrettanti
appartenenti alla cosca rivale degli “zingari”, nell’ambito di una determinazione
criminosa ferma e irrevocabile di soppiantare la stessa nel controllo delle attività
14

La doglianza del ricorrente sull’erronea applicazione che la sentenza impugnata

illecite sul territorio anche mediante l’eliminazione fisica dei suoi esponenti,
secondo un atteggiamento psicologico proprio in particolare di Forastefano
Antonio nella sua qualità di elemento apicale della cosca omonima, l’esistenza correttamente ritenuta dai giudici di merito – dell’adesione piena ed effettiva
dell’Emanuele alla premeditazione omicida emerge in modo immediato dal testo
della sentenza impugnata, con particolare riguardo alla descrizione del legame
fiduciario diretto intercorrente tra il Forastefano e l’imputato, frutto della
collaborazione reciprocamente prestata in occasione della commissione di altri,

dall’Emanuele in entrambi i delitti, operando in immediato contatto sinergico col
capo della cosca (Forastefano) che gli aveva messo a disposizione le armi e le
autovetture con le quali lo aveva accompagnato personalmente sui luoghi degli
agguati tesi alle vittime.
Dalla ricostruzione, operata nella sentenza, dei tempi e modi che avevano
scandito la condotta partecipativa dell’Emanuele, il quale in occasione
dell’omicidio Abbruzzese – così come riferito dal Falbo – era arrivato a Cassano
ionio il giorno prima del delitto e si era intrattenuto a parlare col Forastefano
dell’agguato da compiersi, trascorrendo la notte insieme allo stesso, e che nelle
fasi preparatorie dell’omicidio Bevilacqua era stato visto dall’Oliva incontrarsi coi
correi dopo il furto dell’Alfa 164 e pulire e caricare a pallettoni il fucile cal. 12
destinato a essere impiegato nell’agguato, emerge che l’imputato ebbe a
disposizione un lasso temporale adeguato – se non addirittura per la maturazione
di un proprio, autonomo, dolo di premeditazione – per una consapevole e
deliberata adesione alla premeditazione altrui, fatta palese dalle stesse modalità
della partecipazione ad agguati omicidiari di evidente natura premeditata,
immediatamente significative della piena condivisione dell’atteggiamento
psicologico dei soggetti in concorso coi quali l’Emanuele aveva agito.
L’estensione dell’aggravante della premeditazione all’imputato, in quanto fondata
sull’adesione volontaria dell’Emanuele alla natura premeditata dei delitti, e non
sulla mera conoscibilità degli elementi costitutivi dell’aggravante, si sottrae
perciò alle censure del ricorrente.
4. E’ invece fondato, nei termini che seguono, il quarto motivo di ricorso.
Questa Corte, a Sezioni Unite, ha affermato il principio per cui, allorché siano
contestate, in relazione al medesimo reato, le circostanze aggravanti di aver
agito sia al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, sia per
motivi abietti, le due circostanze concorrono se l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1
cod. pen., nei termini fattuali della contestazione e dell’accertamento giudiziale,
risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di
consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo criminale
15

precedenti, omicidi, nonchè del ruolo di killer designato concretamente assolto

(Sez. Un. n. 337 del 18/12/2008, Rv. 241577, Antonucci).
Nel caso di specie, i motivi abietti dei due omicidi sono stati individuati – tanto
nella contestazione formulata nei capi 1 e 5 della rubrica, quanto nella
motivazione della sentenza impugnata – nelle finalità (esclusive) di dimostrare la
forza dell’organizzazione delinquenziale di tipo ndranghetistico capeggiata dal
Forastefano e di conseguire l’incontrastato controllo criminale delle attività
illecite sul territorio della piana di Sibari, mediante l’uccisione degli esponenti
della cosca rivale, e dunque coincidono e sono esattamente sovrapponibili col

del correo Forastefano, che integra l’elemento costitutivo dell’aggravante
speciale parimenti contestata all’imputato ex art. 7 legge n. 203 del 1991.
L’assenza di autonomia, nel caso concreto, dell’aggravante comune rispetto a
quella speciale, risultante dal testo stesso della sentenza gravata, comporta
l’assorbimento della prima nella seconda alla stregua del principio di specialità
sancito dall’art. 15 cod. pen. e ribadito, in tema di circostanze, dall’alinea del
primo comma dell’art. 61 cod. pen.; l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 cod. pen.
deve perciò essere eliminata, senza che a ciò consegua alcun effetto sul
trattamento sanzionatorio in concreto inflitto all’imputato, in quanto gli omicidi
ascritti ai capi 1 e 5, essendo aggravati entrambi dalla premeditazione, restano
puniti con la pena dell’ergastolo, il cui concorso si traduce nell’applicazione, ex
art. 72 cod. pen., dell’isolamento diurno nella misura che è stata fissata dalla
sentenza d’appello; sul punto, la sentenza impugnata deve di conseguenza
essere annullata senza rinvio.
5. Infondata, infine, è la doglianza dedotta nel quinto motivo di ricorso.
Già la sentenza di primo grado ha dato atto della concreta inoperatività della
circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203 del 1991 agli effetti
dell’aggravamento della pena da infliggersi all’Emanuele per gli omicidi di cui ai
capi 1 e 5, in quanto puniti entrambi con l’ergastolo, richiamando tuttavia il
principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui l’aggravante
de qua è legittimamente contestabile, come avvenuto nella fattispecie, anche
con riguardo ai delitti astrattamente punibili (in base alla rubrica, che contempla
l’aggravante della premeditazione) con la pena perpetua, essendo destinata
comunque a esplicare la sua efficacia a fini diversi da quelli della determinazione
della pena (Sez. Un. n. 337 del 18/12/2008, Rv. 241578, Antonucci), e in
particolare – per quanto ormai interessa – sul momento esecutivo della pena.
Nei termini e ai fini indicati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite (le cui
argomentazioni non sono scalfite dal richiamo operato dal ricorrente a massime
giurisprudenziali riguardanti istituti diversi), risulta dunque giuridicamente
corretta la ritenuta sussistenza, da parte della sentenza impugnata, degli
16

medesimo fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa, di appartenenza

elementi costitutivi dell’art. 7 legge n. 203 del 1991 rappresentati dalla finalità di
agevolare l’attività di stampo mafioso della cosca Forastefano, anche con
riguardo alle condotte omicidiarie ascritte all’Emanuele ai capi 1 e 5.
I motivi di ricorso di Forastefano Antonio.
1. Il ricorso di Forastefano Antonio è inammissibile in entrambe le sue deduzioni.
2. Il primo motivo di doglianza si esaurisce in una generica censura di merito che
non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
Premesso che le attenuanti generiche sono state concesse all’imputato, in

critiche del ricorrente devono intendersi rivolte al mancato riconoscimento del
beneficio di cui all’art. 62 bis cod. pen. in regime di prevalenza, anziché di mera
equivalenza, rispetto alle circostanze aggravanti.
In tema di controllo demandato alla Corte di cassazione sulle statuizioni del
giudice di merito relative al giudizio di comparazione tra aggravanti ed
attenuanti, questa Corte ha affermato il principio che le stesse, implicando una
valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sono censurabili in sede di
legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un
ragionamento illogico, mentre la soluzione dell’equivalenza non è sindacabile
allorché risulti sufficientemente motivata con riguardo alla sua idoneità a
realizzare l’adeguatezza della pena in concreto irrogata all’imputato (Sez. Un. n.
10713 del 25/02/2010, Rv. 245931; Sez. 5 n. 5579 del 26/09/2013, Rv.
258874; Sez. 6 n. 6866 del 25/11/2009, Rv. 246134).
Nel caso di specie, il bilanciamento in termini di equivalenza delle attenuanti
generiche con le aggravanti è stato congruamente effettuato da entrambe le
sentenze di merito, ritenendo ostativo a un giudizio di prevalenza delle prime
sulle seconde, in particolare, la pluralità dei ruoli ricoperti dal Forastefano in
entrambi gli omicidi, da lui deliberati, e partecipati sia nella fase organizzativa
che in quella direttamente esecutiva, con modalità ritenute significative di una
specifica inclinazione e attitudine a delinquere.
La motivazione delle Corti territoriali, sul punto, risulta incensurabile, costituendo
esplicazione di un tipico giudizio di fatto che non è suscettibile di essere scalfito
dalle argomentazioni del ricorrente intese a valorizzare la condotta dell’imputato
successiva al reato e la positiva evoluzione, nel corso del tempo trascorso
dall’epoca di commissione dei delitti, della sua personalità, che si risolvono nella
mera sollecitazione di una rivalutazione del giudizio di comparazione ex art. 69
cod. pen. – secondo lo schema tipico di un gravame di merito – che non compete
alla Corte di cassazione.
3.

Il secondo motivo di ricorso, diretto a censurare il criterio seguito dalla

sentenza di primo grado, e confermato dalla sentenza d’appello, nell’applicazione

17

ragione della sua condotta collaborativa, fin dalla sentenza di primo grado, le

della diminuente per la concessa attenuante della dissociazione attuosa di cui
all’art. 8 legge n. 203 del 1991, nel suo rapporto col contestuale riconoscimento
delle attenuanti generiche in regime di equivalenza alle circostanze aggravanti, è
manifestamente infondato.
I giudici di merito, infatti, hanno fatto corretta applicazione del principio di diritto
affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui il giudizio di
comparazione tra le attenuanti diverse da quella di cui all’art. 8 legge n. 203 del
1991 e le circostanze aggravanti deve precedere l’applicazione della diminuente

bilanciamento (Sez. Un. n. 10713 del 25/02/2010, Rv. 245930).
A tale conclusione le Sezioni Unite sono pervenute muovendo dal rilievo che la
norma di cui al secondo comma dell’art. 8 legge n. 203 del 1991, alfine di non
vanificare la funzione premiale dell’attenuante della dissociazione attuosa, ne
esclude la concorrenza con l’aggravante di cui all’art. 7 della stessa legge, la cui
operatività comporterebbe il divieto di prevalenza o equivalenza dell’attenuante
in sede di giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen., con conseguente
svuotamento della sua portata premiale, stabilendo perciò la disapplicazione
dell’aggravante speciale.
Poiché l’esigenza di non vanificare la funzione premiale, che l’attenuante è
destinata a svolgere nella determinazione del trattamento sanzionatorio, è
presidiata proprio dalla sua esclusione dalla soggezione al giudizio di
bilanciamento, la medesima esenzione deve trovare applicazione anche per le
altre circostanze aggravanti, diverse da quella di cui all’art. 7 legge n. 203 del
1991, alla stregua di un criterio ermeneutico inteso a evitare irrazionalità o
asimmetrie del sistema, e che si armonizza con la stessa lettera della norma di
cui al primo comma dell’art. 8, laddove fa testuale riferimento alla “pena
dell’ergastolo”, e non ai “delitti puniti con l’ergastolo”, così indicando che la
sostituzione della pena perpetua con la pena detentiva temporanea deve trovare
applicazione anche nelle fattispecie punite con l’ergastolo soltanto nelle ipotesi
circostanziate (e non solo in quelle che lo contemplano come pena edittale),
confermando che anche in questi casi deve obbligatoriamente operare l’effetto
diminuente che discende dal riconoscimento dell’attenuante, tralasciando il
bilanciamento con le concorrenti circostanze aggravanti.
Con specifico riguardo alla sequenza delle operazioni da compiere nel caso in cui,
con l’attenuante della dissociazione attuosa, concorrano anche altre circostanze
attenuanti (nel caso di specie, quelle di cui all’art. 62 bis cod. pen.), soggette
invece all’ordinario giudizio di comparazione con le aggravanti, deve seguirsi il
criterio per cui il bilanciamento tra le residue circostanze eterogenee deve
precedere l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 8 legge n. 203 del 1991,

18

per la dissociazione collaborativa, che va effettuata sul risultato del giudizio di

con la conseguenza che la diminuzione di pena da essa prevista deve essere
applicata sul relativo risultato, in quanto soltanto l’adozione di tale criterio è
idonea a consentire di coniugare la premialità, la personalizzazione del
trattamento sanzionatorio e la sua proporzionalità rispetto alla lesività effettiva
del fatto che costituisce il reato, impedendo che la dissociazione e il contributo
investigativo elidano la concreta offensività del fatto.
Manifestamente erroneo e inconferente è il richiamo operato dal ricorrente alla
pretesa violazione che sarebbe destinata a verificarsi del disposto dell’art. 63

circostanze attenuanti che producano, tutte, l’effetto concreto di abbattere la
pena base del reato, stabilendo che la riduzione per l’attenuante ad effetto
comune operi sulla pena già diminuita a seguito dell’applicazione di quella ad
effetto speciale, mentre nel caso in esame le attenuanti generiche sono state
riconosciute al Forastefano in termini di equivalenza, e non di prevalenza, con le
aggravanti, così che l’unica riduzione di pena che deve essere effettuata, sulla
pena base prevista dall’art. 575 cod. pen., è quella stabilita dall’art. 8 legge n.
203 del 1991.
4. All’inammissibilità del ricorso del Forastefano consegue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla cassa delle
ammende della sanzione pecuniaria che si stima equo quantificare in 1.000 euro.

La statuizione sulle spese sostenute dalle parti civili.
Entrambi gli imputati sono soccombenti nei confronti delle parti civili e devono
perciò essere condannati, in solido, alla rifusione delle spese sostenute nel
presente giudizio – che si liquidano nella misura indicata nel dispositivo – dalla
Regione Calabria e dalla Provincia di Cosenza, il cui difensore è comparso in
udienza formulando le proprie conclusioni.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Emanuele Bruno
limitatamente all’aggravante dei motivi abietti, che elimina; rigetta nel resto il
ricorso di Emanuele; dichiara inammissibile il ricorso di Forastefano, che
condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di
C 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Condanna gli imputati in solido al pagamento delle spese sostenute dalle parti
civili Regione Calabria e Provincia di Cosenza nel presente giudizio, che liquida
per ciascuna in complessivi C 3.000,00 oltre accessori di legge.
Così deciso il 24/11/2015

(terzo comma) cod. pen., che regola la diversa ipotesi del concorso di più

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