Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21605 del 15/04/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 21605 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: D’ARRIGO COSIMO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:

Guarini Benito Salvatore, nato a Milano il 20 marzo 1938

Guarini Ernesto, nata a Veglie (LE) il 9 luglio 1967

avverso la sentenza n. 1000 emessa in data 1° giugno 2015 dalla Corte d’appello
di Lecce.
Sentita la relazione svolta in pubblica udienza dal consigliere dott. Cosimo
D’Arrigo;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Enrico
Delehaye, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;
udito il difensore avv. Giuseppe Bonsegna, in sostituzione sia dell’avv. Luigi Rella, nell’interesse di Ernesto Guarini, sia dell’avv. Fabrizio Pisanello,
nell’interesse di Benito Salvatore Guarino, il quale ha insistito nell’accoglimento
del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 1° giugno 2015 la Corte d’appello dì Lecce ha confermato la condanna ad anni uno e mesi tre di reclusione ed euro 350,00 di multa inflitta a Benito Salvatore Guarini ed Ernesto Guarini dal Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Campi Salentina, con sentenza del 25 marzo 2010, per il delitto
di truffa aggravata, consumata ai danni della Super Croissant s.r.l.
Contro tale decisione propongono separatamente ricorso i due imputati
chiedendone l’annullamento.
Benito Salvatore Guarini deduce di essere estraneo al fatto delittuoso in
quanto il vero ed unico amministratore di fatto dell’azienda era suo figlio Erne1

Data Udienza: 15/04/2016

sto.
Ernesto Guarini sostiene, invece, che le difficoltà economiche dell’azienda
familiare furono del tutto improvvise e sopravvenute, che il pagamento con assegni postdatati non costituisce in sé un artifizio o un raggiro e che, pertanto, al
più ricorrerebbe l’ipotesi dell’insolvenza fraudolenta.
Inoltre, entrambi gli imputati – con sostanziale identità di accenti – si dolgono del trattamento sanzionatorio osservando che:
– un danno di circa C 42.000 non costituisce oggettivamente un danno di

– la corte d’appello avrebbe indebitamente negato loro il beneficio delle
circostanze attenuanti generiche;
– la pena comminata è troppo rigorosa, avuto riguardo ai criteri di determinazione di cui all’art. 133 cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Entrambi i ricorsi sono manifestamente infondati e devono essere dichiarati inammissibili.
Va premesso che entrambi i ricorsi contengono un’ampia premessa volta
a dimostrare, in sostanza, che la Corte di cassazione, nel controllo sulla motivazione, avrebbe il potere di effettuare un sindacato penetrante sugli elementi di
prova e sulla loro valutazione da parte del giudice di merito.
Invece, questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di
motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità
o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità
fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Sez. 1, n. 3262 del
25/05/1995 – dep. 06/07/1995 – Rv. 202133). In altri termini, occorre che il giudice abbia omesso del tutto di prendere in considerazione il punto sottoposto alla
sua analisi, talché la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è
fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono
aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Sez. 4, n.
10456 del 15/11/1996 – dep. 05/12/1996 – Rv. 206322).
Tali conclusioni restano ferme pur dopo la legge n. 46 del 2000 che, innovando sul punto l’art. 606 lett. e) c.p.p., consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad “altri atti del processo”. Alla Corte di cassazione resta
comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una
migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motiva2

rilevante gravità ai sensi di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen.;

zione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito (ex plurimis: Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006 dep. 28/12/2006, De Vita, Rv. 235507; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 – dep.
27/11/2015, Musso, Rv. 265482).
Quindi, anche dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento
che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di
legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può

infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se
questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Sez. 6, n. 36546 del 03/10/2006 dep. 03/11/2006, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 4, n. 35683 del 10/07/2007 – dep.
28/09/2007, Servidei, Rv. 237652; Sez. 2, n. 7380 del 11/01/2007 – dep.
22/02/2007, Messina ed altro, Rv. 235716).
Alla luce di tali premesse, i primi motivi dei ricorsi dei due imputati sono
manifestamente inammissibili.
Quanto alla posizione di Benito Salvatore Guarini (firmatario degli assegni
scoperti e legale rappresentante della “Gelati & Dolcezze”), la Corte d’appello osserva che «la tesi difensiva secondo la quale [egli] era una semplice “testa di legno” – per di più fisicamente assente dal territorio nazionale per risiedere stabilmente in Albania – è stata platealmente smentita dalla testimone, indicata
dalla stessa difesa, Brancasi Sara». È dunque evidente che il ricorso in esame
prospetta una ricostruzione alternativa in punto di fatto, come tale inammissibile
in sede di legittimità.
Quanto alle prime doglianze di Ernesto Guarini, occorre rimarcare che la
Corte d’appello ha individuato ben sette elementi (v. pag. 6-7) dai quali risulta
«ampiamente dimostrata» la preordinazione dell’inadempimento dell’obbligo di
pagamento del prezzo della fornitura che, «unita alla vera e propria simulazione
di circostanze e di condizioni non vere, artificiosamente create per indurre altri in
errori (quali la già menzionata dilazione delle consegne, l’uso di assegni postdatati e le rassicurazioni sulla solvibilità della società e dei singoli titoli), impone la
qualificazione giuridica della condotta ai sensi dell’art. 640 c.p. con esclusione
della configurabilità del meno grave reato di insolvenza fraudolenta». Anche in
questo caso, quindi, la doglianza in esame, solo apparentemente riconducibile al
paradigma di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., si risolve invece
in una quaestio facti inammissibile in sede di legittimità.
3

essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte,

Venendo ai motivi di ricorso comuni ad entrambi gli imputati, si deve rilevare anzitutto che la gravità del danno, rilevante ai fini della configurazione
dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen., è in re ipsa, >fanmontando il valore della fornitura insoluta a ben C 42.042,00; la tesi secondo cui tale danno invece non sarebbe grave costituisce semplicemente un’opinione personale degli imputati quantomeno discutibile e comunque concernente una valutazione di merito sottratta al controllo di questa Corte.
Anche la motivazione relativa al trattamento sanzionatorio si sottrae ad

gravità della condotta e la conseguente adeguatezza della pena inflitta in primo
grado.
Infatti, la determinazione della pena base, l’aumento della pena nel reato
continuato, nonché gli aumenti e le diminuzioni correlati rispettivamente a circostanze aggravanti o attenuanti, rientrano nella discrezionalità del giudice di merito, che esercita il potere di graduazione in aderenza ai principi enunciati dagli
artt. 132 e 133 cod. pen.

(ex plurimis, da ultimo: Sez. 5, n. 29829 del

13/03/2015 – dep. 10/07/2015, Pedercini, Rv. 265141), sicché, in presenza di
adeguata motivazione, è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione,
miri ad una nuova valutazione della congruità della pena.
La corte d’appello ha rimarcato, al momento di quantificare la misura della pena, la spiccata capacità a delinquere degli imputati, l’intensità del dolo, la
protrazione nel tempo della condotta truffaldine e la condotta successiva. L’accentuazione di tali elementi soddisfa le esigenze motivazionali in relazione parametri di cui all’art. 133 cod. pen.
Poi, con particolare riferimento al diniego delle attenuanti generiche, si
deve ribadire che la loro sussistenza è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti
della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico
apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse
dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008 – dep. 14/11/2008, Caridi e altri,
Rv. 242419). In sostanza, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze
attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi
indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011
– dep. 01/02/2011, Sermone e altri, Rv. 249163).
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ogni genere di censura, avendo la corte d’appello ampiamente motivato circa la

Nella specie, il giudice di appello ha evidenziato il difetto di elementi positivi valorizzabili ai sensi dell’art. 62 bis cod. pen., unitamente ai numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio che risultano a carico di entrambi gli
imputati. Tale motivazione, conforme ai principi di diritto testé enunciati, rende
palesemente infondate le censure esposte nei ricorsi.
In conclusione, entrambi i ricorsi devono essere dichiarati entrambi inammissibili.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara

nata al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di € 1.500,00, così equitativamente
stabilita in ragione dei motivi dedotti.
P. Q. M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e ciascuno della somma di € 1.500,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella amera di consiglio del 15 aprile 2016.

inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condan-

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