Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21530 del 08/02/2018


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 21530 Anno 2018
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
SPADA ROBERTO nato il 24/06/1975 a ROMA

avverso l’ordinanza del 22/11/2017 del TRIB. LIBERTA’ di ROMA
sentita la relazione svolta dal Consigliere ANTONIO SETTEMBRE;
sentite le conclusioni del PG LUIGI ORSI, che ha chiesto il rigetto
Udito il difensore, avv. ANGELO STANISCIA, che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso.
RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale del riesame di Roma ha confermato la misura della custodia in
carcere applicata dal Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale a
Spada Roberto perché, in concorso con soggetto non identificato, costringeva
Piervincenzi e Anselmi – che lo stavano intervistando – ad allontanarsi dal posto
con percosse e minacce di più gravi conseguenze (artt. 110 e 610 del cod. pen.
e 7 I. 203/91). Inoltre, perché, per raggiungere il risultato avuto di mira,
procurava a Piervincenzi Daniele la frattura delle ossa nasali, colpendolo con
una testata, e ad Anselmi Edoardo (colpito dal correo con calci e pugni) traumi
vari, giudicati guaribili in sette giorni (artt. 110, 582, 585 in relazione agli artt.
576 e 577 n. 4 del cod. pen. e 7 I. 203/91). Con le aggravanti del nesso
teologico, dei futili motivi e del metodo mafioso.
Non contestata la materialità dei fatti, i giudici di merito hanno motivato la
ricorrenza del metodo mafioso in considerazione della situazione ambientale in

Data Udienza: 08/02/2018

cui si sono svolti i fatti, del sostegno prestato a Spada dal correo, della caratura
criminale del prevenuto (quale rivelata dalla dichiarazioni di alcuni
collaboratori) e della carica di violenza insita nella condotta da lui posta in
essere.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione,
nell’interesse dell’indagato, l’avv. Angelo Staniscia, con tre motivi.
2.1. Col primo lamenta un vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta

l’allontanamento dei giornalisti dal posto è stato illogicamente considerato
l’evento del reato di cui all’at. 610 cod. pen., e come tale addebitato
all’indagato, invece che conseguenza delle lesioni ad essi inferte (pertanto,
assorbito nel delitto di lesioni personali).
2.2. Con altro motivo si duole dell’erronea applicazione, in relazione ad
entrambi i reati contestati, dell’aggravante di cui all’art. 7 I. 203/91, ricollegata,
dal Tribunale, all’esistenza di un “clan Spada” e all’atteggiamento tenuto,
nell’occasione, da persone di passaggio, sebbene Spada Roberto non sia stato
mai condannato o inquisito per associazione mafiosa. Quanto alle condotte dei
“passanti”, denuncia una “contraddizione” della motivazione rispetto alle
“risultanze in atti”, che evidenziano l’assenza di passanti al momento del fatto
(rimanda, a tal fine, alle riprese video in atti, alle dichiarazioni della persona
offesa Anselmi e dei testi Cirielli e Di Silvestro). Infine, contesta che
l’appellativo di Roberto Lo Zingaro, risultante dall’intercettazione riportata a
pag. 20 dell’ordinanza, sia a lui riferibile.
2.3. Col terzo motivo lamenta che sia stata omessa la valutazione di tutte le
circostanze che, nella specie, fanno venir meno la presunzione di adeguatezza
della sola misura custodiale (il riferimento è ai modesti precedenti penali
dell’indagato e all’estemporaneità della condotta da lui posta in essere).

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorsovinfondato.
1. Come messo in evidenza illustrando lo sviluppo della vicenda, l’indagato, nel
mentre veniva intervistato da due giornalisti (dopo aver acconsentito a
rispondere alle loro domande), irritato, ad un certo momento, per le domande
rivoltegli e per l’incapacità, di cui si era reso conto, di volgere l’intervista a
proprio favore, colpì Piervincenzi con una violenta testata 4al volto e con un
attrezzo che aveva in mano, mentre un complice, non identificato, si accanì,
per lo stesso motivo, contro Anselmí. Tanto, al fine di costringere i due a
desistere dall’interrogarlo e ad allontanarsi velocemente dal posto. Tale

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sussistenza del delitto di violenza privata, derivante dal fatto che

dinamica è stata spiegata, nell’ordinanza impugnata, con le parole dello stesso
indagato, il quale, subito dopo aver colpito Piervincenzi con la testata, intimò a
quest’ultimo di “non farsi più vedere”, perché “sono due ore che state
qua…annatevene”.
In tale condotta sono stati correttamente ravvisati gli estremi della
violenza privata, giacché, effettivamente, il contesto descritto nell’ordinanza e
le ragioni dell’aggressione, quali sopra esplicitate, rimandano ad un
comportamento rivolto a costringere i due intervistatori a fare qualcosa contro

detta interpretazione sorreggono, peraltro, anche ragioni di ordine logico,
giacché nessun motivo avrebbero avuto i due di inseguire i malcapitati, dopo
aver provocato loro lesioni nella maniera anzidetta, se non di rafforzare il
comando insito nelle intimazioni proferite ed ottenere l’immediato
allontanamento dei giornalisti, oltre che porre uno stop a domande sgradite. La
motivazione con cui sono stati ravvisati i gravi indizi della violenza privata non
merita, pertanto, le critiche del ricorrente, essendo state chiaramente
evidenziate le forme della coercizione attuata dal prevenuto e le conseguenze
sulla sfera psichica della vittima, costretta ad un comportamento che,
altrimenti, non avrebbe tenuto. Né, d’altra parte, questa conclusione di
discosta, nella sostanza, dall’impostazione del ricorrente, una volta depurata
dall’errore in cui questi è caduto: egli pretende, infatti, di distinguere,
arbitrariamente, tra “evento” del reato e “conseguenze” della condotta, non
avvedendosi che le conseguenze della condotta rappresentano, dal punto di
vista giuridico, proprio l’evento del reato, quando si tratti delle conseguenze
prese in considerazione dalla norma incriminatrice e volute dall’agente come
effetto della propria condotta. Non si deve parlare, pertanto, di violenza privata
assorbita dal reato di lesioni, ma di lesioni che sono state inflitte per realizzare
la violenza privata, sicché concorrono con questa (pacificamente, infatti, la
violenza resta assorbita nel reato di cui all’art. 610 cod. pen. fino alle percosse:
ex multis, Cass., n. 17767 del 7/3/2017).

2. Il ricorso è infondato anche nella parte in cui contesta l’aggravante mafiosa e
la spiegazione data, sul punto, dal giudice di merito. Avvalersi del metodo
mafioso, ovvero – secondo la dizione dell’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152,
conv., con modificazioni, dalla legge 203 del 12 luglio 1991 – “delle condizioni
previste dall’art. 416/bis cod. pen.” (è questa la contestazione mossa, nello
specifico, a Spada) significa avvalersi della forza intimidatrice del vincolo
associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.
Tale aggravante è stata inserita nell’ordinamento per contrastare le forme di
criminalità promananti da soggetti in grado di intimidire e coartare le vittime –

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la loro volontà (sgombrare il campo e “non farsi più vedere”). A suffragare la

che sono forzate ad accontentare “spontaneamente” il proprio aggressore – non
tanto per la propria fama criminale, ma, in particolar modo, per quella che
proviene loro dal contesto delinquenziale in cui si muovono, perché idoneo a
suscitare paura di rappresaglie ad opera di complici, affiliati e accoliti. Tanto,
sul presupposto che la capacità di resistenza della vittima scema man mano
che acquisisce la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un soggetto che ha alle
spalle un manipolo di soggetti disposti a sostenerlo, aiutarlo e vendicarlo,
sicché anche l’aiuto che può prestargli lo Stato si appalesa inadeguato rispetto

circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone
necessariamente l’esistenza di un’associazione ex art.416-bis cod.pen., né che
l’agente ne faccia parte, essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il
ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica
dell’agire mafioso (Cass., n. 41772 del 13/6/2017, rv 271103; sez. 2, n. 49090
del 4/12/2015, rv 265515; sez. 1, n. 5881 del 4/11/2011, rv 251830); basta,
cioè, che l’associazione appaia sullo sfondo, perché evocata dall’agente, sicché
la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore – o ad abbandonare
ogni velleità di difesa – per timore di più gravi conseguenze. Come è stato
efficacemente spiegato, “la ratio della disposizione di cui all’art. 7 D.L.
152/1991 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che
commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le
associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più
decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa,
l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si
comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria
una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi, quella particolare
coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni
della specie considerata” (Cass., n. 49090 del 582 del 19/2/1998, rv 210405).
3. L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali criteri allorché ha
evidenziato che Spada si avvalse, nel corso dell’intervista e nella fase cruenta
della stessa, di un soggetto, non identificato, che gli fece da guardaspalla; che
il prevenuto evocò, in più di un’occasione, l’intervento di soggetti estranei in
grado di danneggiare a Piervincenzi l’auto (“guarda che già t’hanno graffiata
all’atra parte”) o, addirittura, di sottrargliela (“mo tocca vedé quanno vai via se
trovi a macchina”); che approfittò del clima di omertà diffuso in loco per
infierire sui due malcapitati, i quali furono dissuasi da ogni tentativo di difesa
proprio dall’ostilità percepita nei loro confronti (gli involontari spettatori si
affrettarono a chiudere le finestre; nessuno si offrì di aiutarli, seppur vedendoli
sanguinare; addirittura, qualcuno manifestò compiacimento per l’accaduto).
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agli scopi della difesa. Come è stato però spiegato da questa Corte, la

Resta dimostrato, quindi, che Spada Roberto si avvalse, nell’occasione, della
forza di intimidazione promanante dall’associazione malavitosa imperante sul
territorio, nota come clan Spada, ben presente alla mente dei giornalisti e ben
nota agli abitanti del luogo, tant’è che alla stessa si fece riferimento,
ripetutamente, nel corso dell’intervista, come soggetto collettivo in grado di
influenzare le decisioni politiche assunte nell’ambito del quartiere (era stato
proprio questo il motivo che aveva indotto i giornalisti a ricercare il contatto col
prevenuto e a interrogarlo sul punto). Poco importa, quindi, che l’esistenza di

indimostrata, allo stato, la partecipazione di Spada Roberto allo stesso (anche
se, come rimarcato nell’ordinanza, l’esistenza del clan suddetto, e la
partecipazione allo stesso del prevenuto, sono state affermate da più di un
collaboratore di giustizia): ciò che conta, infatti, per la sussistenza
dell’aggravante, è, come è stato rimarcato al punto precedente, e come
correttamente ritenuto dal giudicante, che un’associazione malavitosa – avente
la caratteristiche di cui all’art. 416/bis cod. pen. – sia stata evocata nella specie
e che della stessa l’indagato si sia consapevolmente avvalso per la
perpetrazione dei reati che hanno determinato l’applicazione della misura nei
suoi confronti.

3. Infondate sono pure le doglianze in ordine al periculm libertatis. In tema di
custodia cautelare in carcere, la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 L.
n. 203 del 1991 determina una presunzione relativa di concretezza ed attualità
del pericolo di recidiva, superabile solo dalla prova, offerta dall’interessato, di
elementi da cui desumere l’affievolimento o la cessazione di ogni esigenza
cautelare, sicché, in difetto di detta prova, l’onere motivazionale incombente
sul giudice ai sensi dell’art. 274 cod. proc. pen. deve ritenersi rispettato
mediante il semplice riferimento alla mancanza di elementi positivamente
valutabili nel senso di un’attenuazione delle esigenze di prevenzione (Cass., n.
3105 del 22/12/2016, rv 269112). Nella specie, il riferimento alla gravità della
condotta, ai precedenti penali dell’indagato, alla sua inquietante personalità,
quale desunta del contegno tenuto durante e dopo la vicenda che ci occupa,
uniti all’assenza di elementi deponenti per l’insussistenza delle esigenze di
cautela (Spada non ha dato nessun segno di resipiscenza e non ha preso
minimamente le distanze dal contesto delinquenziale di riferimento) rendono
ragione della prognosi sfavorevole su di lui formulata, essendo stato dimostrato
che non è in grado di contenere le pulsioni aggressive che maturano in lui
finanche nelle situazioni di semplice disagio.

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un “clan Spada” non sia stata ancora accertata giudizialmente, né che sia

4. Segue a tanto il rigetto del ricorso, atteso che i motivi proposti, se non
inammissibili, risultano infondati per le ragioni sin qui esposte; ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen. , il ricorrente va condannato alle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti dì cui all’art. 94, comma l/ter, disp.

Così deciso 1’8/2/2018

Att. cod. proc. penale.

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