Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21359 del 17/04/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 21359 Anno 2015
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 17/04/2015

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di Narisi Tiziana, n. a Forlì (FC) il
13.09.1970, rappresentata e assistita dall’avv. Adolfo Fabiani, di
fiducia, avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna, terza
sezione penale, n. 81/2006, in data 02.07.2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Mario
Maria Stefano Pinelli che ha concluso per l’inammissibilità o, in
subordine, il rigetto del ricorso;
sentita la discussione dell’avv. Adolfo Fabiani che ha chiesto
l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

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1. Con sentenza in data 29.04.2005, il Tribunale di Forlì, in
composizione monocratica, dichiarava Narisi Tiziana responsabile dei
reati di ricettazione (incolpazioni di cui ai capi A) e B) della rubrica: il
primo fatto accertato in data 04.09.2000; il secondo, in data
20.09.2000) e, riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 62
n. 4 cod. pen. e ritenuto il vincolo della continuazione, la condannava

alla pena di anni due di reclusione ed euro 1.000,00 di multa.
1.1. Avverso tale pronuncia, Narisi Tiziana, tramite difensore,
proponeva appello, lamentando:
-la mancata assoluzione per difetto di prova dell’elemento soggettivo
del reato;
-il mancato riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 648,
comma 2 cod. pen.;
– l’eccessività della pena inflitta anche con riferimento alla
continuazione.
2. Con sentenza in data 02.07.2013, la Corte d’appello di Bologna, in
parziale riforma della sentenza di primo grado, riduceva la pena nella
misura di anni uno, mesi sette di reclusione ed euro 850,00 di multa,
con conferma nel resto.
3. Avverso la sentenza d’appello, Narisi Tiziana, tramite difensore,
propone ricorso per cassazione per i seguenti motivi:
-violazione di legge e segnatamente dell’art. 648, comma 2 cod. pen.
(primo motivo);
– mancanza assoluta di motivazione in ordine alla richiesta della difesa
di emettersi sentenza di non doversi procedere per essersi il reato
estinto per prescrizione (secondo motivo);
-violazione di legge con riferimento alla mancata concessione del
beneficio di cui alla L. n. 241 del 31.07.2006 (terzo motivo).
3.1. Con riferimento al primo motivo, la ricorrente lamenta come la
Corte

territoriale,

per

motivare

la

mancata

concessione

dell’attenuante speciale di cui all’art. 648, comma 2 cod. pen., si
limiti ad un generico riferimento all’intensità del dolo, senza null’altro
spiegare né specificare.
3.2. Con riferimento al secondo motivo, la ricorrente lamenta
l’iniquità dell’applicazione della normativa più sfavorevole all’imputato
(prescrizione lunga) solo perché la pronuncia di primo grado è

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intervenuta in epoca (29.04.2005) di poco precedente la data
(05.12.2005) dell’entrata in vigore della nuova normativa sulla
prescrizione, nella specie più favorevole al reo, con conseguente
inapplicabilità del beneficio non essendovi più pendenza del processo
in primo grado (v. Corte cost. sent. n. 393 del 23.11.2006).
3.3. Con riferimento al terzo motivo, la ricorrente lamenta

l’ingiustificata mancata concessione del beneficio dell’indulto.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è, nel suo complesso, inammissibile perché generico,
manifestamente infondato e, in relazione all’ultimo motivo, proposto
in carenza di interesse.
2. Si rileva in premessa come la Corte territoriale, con motivazione
logica e congrua – e quindi immune dai denunciati vizi di legittimità abbia dato conto degli elementi che l’hanno portata ad affermare la
penale responsabilità dell’imputata.
2.1. Va ricordato, in proposito, che il controllo del giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale
della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo
logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le
varie, cfr. Sez. 3, sent. n. 12110 del 19/03/2009 e n. 23528 del
06/06/2006). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità
della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile,
deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile
ictu ocull, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere
limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le
minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni
difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano
spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez.
3, sent. n. 35397 del 20/06/2007; Sez. U, sent. n. 24 del
24/11/1999, Spina, Rv. 214794). Più di recente è stato ribadito come
ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 cod. proc. pen., comma 1,
lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene ne’ alla

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ricostruzione dei fatti ne’ all’apprezzamento del giudice di merito, ma
è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a
due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle
ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b)
l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità
evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento (Sez. 2, sent. n. 21644 del

13/02/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542).
2.2. Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative
della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte
circoscritto. Non c’è, in altri termini, la possibilità di andare a
verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali.
E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 cod. proc. pen.,
comma 1, lett. e) come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46. Il
giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione
dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove
acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al
giudice del merito.
2.3. Il vizio della manifesta illogicità della motivazione deve essere
evincibile dal testo del provvedimento impugnato. Com’è stato
rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza
deve essere logica “rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti
processuali citati. In tal senso, la novellata previsione secondo cui il
vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del
provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché
specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti
trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice
della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice
del fatto.
2.4. Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione
anche attraverso gli “atti del processo” costituisce invero il
riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di
legittimità il cosiddetto “travisamento della prova” che è quel vizio in
forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una
(inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove),
prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per
verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato,

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senza travisamenti, all’interno della decisione.
In altri termini, vi sarà stato “travisamento della prova” qualora il
giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che
non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà
non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da
quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non
fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell’imputato). Oppure

inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma – occorrerà
ancora ribadirlo – non spetta comunque a questa Corte Suprema
“rivalutare” il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato
apprezzato dal giudice di merito.
2.5. Per esserci stato “travisamento della prova” occorre, tuttavia,
che sia stata inserita nel processo un’informazione rilevante che
invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una
prova decisiva ai fini della pronunzia.
In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della
motivazione, va indicato specificamente nel ricorso per cassazione
quale sia l’atto che contiene la prova travisata o omessa.
Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre
avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al
giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che,
come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.
3. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come generico e
manifestamente infondato è il primo motivo di doglianza.
Con lo stesso, si denuncia la decisione della Corte territoriale nella
parte in cui ha giustificato il diniego dell’attenuante del danno
patrimoniale di speciale tenuità di cui all’art. 648 cod. pen., comma 2
con un generico riferimento all’intensità del dolo.
3.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, ai fini della
sussistenza della circostanza attenuante del danno patrimoniale di
speciale tenuità di cui all’art. 648 cod. pen., comma 2, non rileva solo
il valore economico della cosa ricettata, ma anche il complesso dei
danni patrimoniali oggettivamente cagionati alla persona offesa dal
reato come conseguenza diretta del fatto illecito e perciò ad esso
riconducibili, la cui consistenza va apprezzata in termini oggettivi e
nella globalità degli effetti (cfr., Sez. U, sent. n. 35535 del

dovrà essere valutato se c’erano altri elementi di prova

12/07/2007).
3.2. Tale principio conferma il costante canone ermeneutico (cfr.,
Sez. 2, sent. n. 51818 del 06/12/2013, dep. 30/12/2013, Brunetti,
Rv. 258118) secondo il quale in tema di ricettazione, il valore del
bene è un elemento concorrente solo in via sussidiaria ai fini della
valutazione dell’attenuante speciale della particolare tenuità del fatto,
nel senso che, se esso non è particolarmente lieve, deve sempre

escludersi la tenuità del fatto, risultando superflua ogni ulteriore
indagine; soltanto se è accertata la lieve consistenza economica del
bene ricettato, può procedersi alla verifica della sussistenza degli
ulteriori elementi, desumibili dall’art. 133 cod. pen., che consentono
di configurare l’attenuante “de qua”, che va, al contrario, esclusa
quando emergano elementi negativi (cfr., Sez. 2, sent. n. 28689 del
09/07/2010; Sez. 1, sent. n. 13600 del 13/03/2012), sia sotto il
profilo strettamente obbiettivo (ad es., l’entità del profitto), sia sotto
il profilo soggettivo (ad es., capacità a delinquere dell’agente).
3.3. Ciò premesso, rileva il Collegio come la Corte territoriale ha
ampiamente motivato in ordine alla ricorrenza di elementi, sia sotto
profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, come tali ostativi al
riconoscimento dell’attenuante, valorizzando numerosi elementi
fattuali, tutti “leggibili” in chiave sfavorevole per la Narisi. E
precisamente:
– il complessivo numero di titoli di credito ricevuti dalla prevenuta;
– la mancanza di prova in ordine allo svolgimento di un’attività da
parte della stessa che potesse in qualche modo giustificare un così
intenso “giro” di assegni;
– la condotta della prevenuta che, nell’arco di pochi giorni, spendeva
ben nove titoli tratti da soli due carnet (ma con diverse firme di
traenza) provenienti da delitto, in condizioni obiettivamente anomale;
– le modalità delle stesse condotte di spendita;
– la presenza di più parti lese;
– l’utilizzazione delle cose oggetto di ricettazione al fine di commettere
altri reati contro il patrimonio.
4. Manifestamente infondato è il secondo motivo di gravame.
Come è noto, con la modifica dell’art. 6 del Trattato UE, la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il
7.12.2000, è entrata a far parte del diritto primario dell’UE medesima

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e, come tale, può essere applicata direttamente dal giudice nazionale,
anche a scapito della legge nazionale eventualmente confliggente.
4.1. L’art. 49, comma 1, terzo periodo, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea sancisce che “Se, successivamente
alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una
pena più lieve, occorre applicare quest’ultima”.
4.2. Come ben si vede, a differenza dell’art. 2 cod. pen., comma 4 –

che concerne tutte le disposizioni che comunque apportino modifiche
in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese
quelle che incidono sulla prescrizione del reato (v., da ultimo, Corte
cost. sent. n. 393/06) – il citato art. 49, comma 3 ha un portato
precettivo riferito alle sole norme incriminatici

stricto iure intese

(espressamente in tal senso v. da ultimo, in motivazione, Corte cost.
n. 236/2011). Già soltanto tale rilievo consente di escludere la
rilevanza, nel caso in esame, del cit. art. 49 e, per l’effetto, la stessa
teorica possibilità di sollevare l’incidente di costituzionalità – nei
termini sollecitati dall’odierna ricorrente – della L. n. 251 del 2005,
art. 10, comma 3, per violazione degli art. 3 Cost. con riferimento,
appunto, all’art. 49, comma 1 cit., nella parte in cui detta disciplina
transitoria non prevede l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione
anche nei processi già pendenti in appello o in cassazione alla data di
entrata in vigore della novella (cfr., Sez. 2, sent. n. 46884 del
01/12/2011, dep. 20/12/2011, D’Amato, Rv. 251451).
È appena il caso di aggiungere che con la sopra ricordata sentenza n.
236/2011 la Corte costituzionale ha negato l’illegittimità
costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, sollevata in
riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 7 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n.
848, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, nella
parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se
più brevi, ai processi già pendenti in grado di appello o innanzi a
questa Suprema Corte. Analoga statuizione sulla stessa norma la
Corte costituzionale aveva in precedenza adottato – con sentenza n.
72 del 15/01/2008 – in riferimento agli artt. 3, 10 comma 2 e art. 11
Cost., di guisa che non residua margine alcuno per accogliere
l’istanza d’un nuovo incidente di costituzionalità avanzata dall’odierna

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ricorrente.
4.3. Risulta pertanto manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale – sollevata in questa sede per violazione
dell’art. 3 Cost. in riferimento all’art. 49, comma primo, della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 – dell’art. 10 della legge n. 251 del 2005 nella parte in
cui non prevede l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione anche

nei processi pendenti in appello o in cassazione successivamente
all’entrata in vigore della predetta legge n. 251 del 2005, in quanto il
succitato art. 49, comma primo, terzo periodo – a differenza dell’art.
2, comma quarto, cod. pen. che concerne tutte le disposizioni che
apportino modifiche “in melius” alla disciplina di una fattispecie
criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del
reato – ha un portato precettivo riferito alle sole norme incriminatrici
“stricto iure” intese.
4.4. Nulla osta, dunque, all’applicazione dell’art. 10, comma 3 cit.:
nel caso di specie i termini di prescrizione sono quelli di cui al
previgente testo dell’art. 157 cod. pen. (atteso che il giudizio
d’appello era già pendente alla data di entrata in vigore della L. n.
251 del 2005), termini, ad oggi non decorsi, pari – per il delitto
previsto e punito dall’art. 648 cod. pen. – ad un massimo,
interruzione compresa, di quindici anni.
5. In relazione al terzo motivo relativo alla mancata concessione
dell’indulto, il ricorso è inammissibile per carenza di interesse.
Va, in proposito, ribadito l’orientamento, tuttora attuale, di questa
Corte Suprema (Sez. 1, sent. n. 7890 del 17/02/1988, dep.
06/07/1988, Rv. 178819), a parere del quale: «Nel caso di omessa
pronuncia da parte del giudice d’appello, in ordine all’applicabilità o
meno del condono, l’imputato non ha interesse a ricorrere per
Cassazione, potendo ottenere l’applicazione del beneficio in sede
esecutiva, a meno che il giudice d’appello non ne abbia negato
l’applicazione»

(nello stesso senso, Sez. 2, sent. n. 710 del

01/10/2013, dep. 10/01/2014, Forin, Rv. 258073).
5.1. Nel caso di specie, la Corte di appello ha del tutto omesso di
valutare la richiesta in oggetto: la mancata esclusione del beneficio
nel giudizio di merito, consente tuttavia la riproposizione della
richiesta in sede esecutiva ove si procederà alla valutazione dei

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presupposti per l’eventuale riconoscimento.
6. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e, per il disposto dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle
spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle
ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti
dal ricorso, si determina equitativamente in euro 1.000,00

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 17.4.2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Dott. Andrea Pellegrino

Dott. Mario Gentile

PQM

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