Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21352 del 16/04/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 21352 Anno 2015
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 16/04/2015

SENTENZA
Sui ricorsi rispettivamente proposti nell’interesse di
Torrisi Antonino, n. a Catania il 12.10.1955, rappresentato e assistito
dall’avv. Roberto Pacchioli e dall’avv. Roberta Pomari, di fiducia
Zito Salvatore, n. a Catania il 12.08.1960, rappresentato e assistito
dall’avv. Giorgio Salvatore Antoci, di fiducia
Bonaccorsi Salvatore, n. a Catania il 03.11.1958, rappresentato e
assistito dall’avv. Eugenio Antonello De Luca, di fiducia
Lo Faro Alfio, n. a Catania il 30.04.1063, rappresentato e assistito
dall’avv. Eugenio Antonello De Luca, di fiducia
Giustolisi Gaetano, n. a Catania il 28.03.1958, rappresentato e
assistito dall’avv. Luca Cianferoni, di fiducia
e dallo stesso Giustolisi Gaetano, in proprio,
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, prima sezione
penale, n. 919/2008, in data 13.06.2013;

1

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria dell’Avvocato generale tAUS5 -2 dott. Carmine
Stabile che ha concluso chiedendo:
per Torrisi, la declaratoria di inammissibilità del ricorso;
per Bonaccorsi, Lo Faro, Zito e Giustolisi, il rigetto dei ricorsi;

sentita la discussione dell’avv. Giuseppe Sabato Giuseppe, in
sostituzione dell’avv. Luca Cianferoni, dell’avv. Roberto Pacchioli e
dell’avv. Eugenio Antonello De Luca che hanno chiesto l’accoglimento
dei rispettivi ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 13.06.2013, la Corte d’appello di Milano, in
parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava non doversi
procedere nei confronti di Torrisi Antonino, Bonaccorsi Salvatore,
Giustolisi Gaetano, Zito Salvatore e Lo Faro Alfio per il reato di
ricettazione aggravata in concorso (capo B) per essere lo stesso estinto
per prescrizione e rideterminava la pena nei confronti dei sunnominati
per il reato di rapina aggravata in concorso ai danni di un ufficio postale
(capo A), nei seguenti termini:
– per Bonaccorsi Salvatore, Giustolisi Gaetano, Zito Salvatore e Lo Faro
Mio, in anni otto di reclusione ed euro 1.500,00 di multa ciascuno;
– per Torrisi Antonino, in anni sei di reclusione ed euro 900,00 di multa,
previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio
di equivalenza rispetto alle contestate circostanze aggravanti, con
conferma nel resto della pronuncia di primo grado.
2. Avverso detta pronuncia, i sunnominati imputati, assistiti dai rispettivi
difensori, proponevano ricorso per cassazione (il Giustolisi, sia in proprio
che tramite il proprio difensore).

3. Ricorso di Torrisi Antonino
Il ricorso denuncia:
– violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per inosservanza
dell’art. 125, comma 3 cod. proc. pen.: nullità della sentenza per
mancanza di motivazione sul rigetto del primo motivo di appello (primo

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motivo);
– violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per violazione dell’art.
125, comma 3 , cod. proc. pen.: nullità della sentenza di appello nella
parte in cui si afferma che il giudice di secondo grado può integrare la
motivazione della sentenza di primo grado affetta da mancanze e difetti
motivazionali (secondo motivo);
– violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per inosservanza

dell’art. 429 cod. proc. pen.: nullità del decreto che dispone il giudizio
(terzo motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per inosservanza
dell’art. 125, comma 3 cod. proc. pen.: nullità della sentenza per
mancanza di motivazione sul rigetto del terzo motivo di appello in
relazione all’eccepita nullità della sentenza di primo grado per mancata
decisione sull’inammissibilità del teste Marchese (quarto motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. b) cod. proc. pen. per violazione dell’art.
16 quater comma 1 I. 82/1991 (quinto motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. per contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione in relazione alla qualificazione del
teste Carmelo Marchese come teste non de relato (sesto motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per inosservanza
dell’art. 468, comma 1 cod. proc. pen. in relazione all’inammissibilità
dell’indicazione del testimone Carmelo Marchese (settimo motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. per mancanza,
contraddittorietà

o

manifesta

illogicità

della

motivazione

nell’apprezzamento delle fonti di prova (ottavo motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per violazione degli artt.
192 n. 2 e 546 lett. e) cod. proc. pen.: vizio della sentenza nella parte in
cui ha desunto un fatto da indizi non gravi, precisi e concordanti (nono
motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per violazione degli artt.
125 comma 3, 546 lett. e) e 533, comma 1 cod. proc. pen.: mancanza
di motivazione in relazione al motivo di impugnazione che eccepiva la
violazione dell’art. 533 cod. proc. pen. (decimo motivo);
– violazione dell’art. 606, lett. c) cod. proc. pen. per violazione degli artt.
125 comma 3, 546 lett. e) e 533, comma 1 cod. proc. pen.: mancanza
di motivazione in relazione al motivo di impugnazione che eccepiva
l’assenza di prova in relazione al concorso con particolare riferimento al

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nesso di causalità ed al requisito psicologico (undicesimo motivo);
-violazione dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. per contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione in relazione al mancato
riconoscimento dell’attenuante dì cui all’art. 114 cod. pen. ed alla
contestazione dell’aggravante (dodicesimo motivo).
3.1. In relazione al primo motivo, si evidenzia come la difesa del
ricorrente avesse eccepito la nullità della sentenza di primo grado per

omessa decisione sulle questioni pregiudiziali: motivo che veniva
respinto dalla Corte territoriale senza alcuna motivazione.
3.2. In relazione al secondo motivo, si censura la sentenza impugnata
nella parte in cui, sostenendo che la motivazione mancante del primo
giudice può essere integrata dal giudice di secondo grado, ha
apertamente violato il disposto dell’art. 125, comma 3 cod. proc. pen..
3.3. In relazione al terzo motivo, si censura la sentenza impugnata nella
parte in cui, nel rigettare il secondo motivo di appello, ha violato il
disposto dell’art. 429 lett. c) cod. proc. pen., in presenza di una
contestazione né chiara né precisa in ordine alla condotta e al tipo di
concorso oggetto di contestazione al Torrisi.
3.4. In relazione al quarto motivo, si censura la sentenza impugnata che
ha omesso di pronunciare in ordine all’eccezione di nullità della sentenza
di primo grado per inammissibilità della testimonianza di Marchese
Carmelo.
3.5. In relazione al quinto motivo, si censura la sentenza impugnata
nella parte in cui ha utilizzato ai fini della decisione le dichiarazioni rese
da Marchese Carmelo al di fuori dell’ambito della collaborazione e del
termine di centottanta giorni dall’inizio della stessa.
3.6. In relazione al sesto motivo, si censura la sentenza impugnata nella
parte in cui, in modo illogico e contraddittorio, ha ritenuto la
testimonianza di Marchese Carmelo come diretta piuttosto che de relato.
3.7. In relazione al settimo motivo, si censura la sentenza impugnata
nella parte in cui ha omesso di considerare l’eccepita inammissibilità
della testimonianza indiretta di Marchese Carmelo, introdotta dal
pubblico ministero, con tema di “conoscenza diretta” e con conseguente
violazione del disposto dell’art. 468, comma 1 cod. proc. pen..
3.8. In relazione all’ottavo motivo, si censura la sentenza impugnata in
punto valutazione delle risultanze istruttorie per essere la medesima
affetta dal vizio di travisamento della prova.

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3.9. In relazione al nono motivo, si censura la sentenza impugnata nella
parte in cui è incorsa nel vizio di violazione degli artt. 192, comma 2 . e
546 lett. e) cod. proc. pen. per aver desunto un fatto (ossia, l’asserita
conoscenza da parte del Torrisi degli orari, dei giorni e dei percorsi del
furgone Mondialpol che provvedeva alla consegna del denaro all’ufficio
postale di Massalengo nonché della conformazione interna del suddetto
ufficio) da indizi privi dei caratteri della gravità, della precisione e della

concordanza.
3.10. In relazione al decimo motivo, si censura la sentenza impugnata
nella parte in cui nulla ha detto in merito al dedotto dubbio del mancato
superamento di ogni ragionevole dubbio per pronunciare sentenza di
condanna.
3.11. In relazione all’undicesimo motivo, si censura la sentenza
impugnata nella parte in cui ha omesso di verificare (e qualificare) il
contributo causale di ciascun concorrente nella realizzazione del fatto di
reato.
3.12. In relazione al dodicesimo motivo, si censura la sentenza
impugnata con riferimento all’inopinato mancato riconoscimento della
circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen..

4. Ricorso di Giustolisi Gaetano, a firma avv. Luca Cianferoni.
Il ricorso denuncia:
-violazione di legge penale, nella specie degli artt. 110 e 628 cod. pen. e
motivazione illogica (motivo unico).
4.1. In relazione alla censura dedotta, si evidenzia come a carico del
Giustolisi sia presente in atti unicamente la chiamata, oltretutto

de

relato, di Marchese Carmelo, il cui riscontro è costituito dalla sola
accertata presenza del Giustolisi in Milano con altri odierni coimputati.
Giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che mentre nel caso
in cui il chiamante in correità renda dichiarazioni che concernono una
pluralità di fatti-reato commessi dallo stesso soggetto e ripetuti nel
tempo, l’elemento di riscontro esterno per alcuni di essi fornisce, sul
piano logico, la necessaria integrazione probatoria della chiamata anche
in ordine agli altri, purchè sussistano ragioni idonee a suffragare tale
giudizio e ad imporre una valutazione unitaria delle dichiarazioni
accusatorie, al contrario, dal momento che i riscontri esterni alla
chiamata di correità devono essere individualizzanti, nel senso che

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devono avere ad oggetto direttamente la persona dell’incolpato e
devono possedere idoneità dimostrativa in relazione allo specifico fatto a
questi attribuito, qualora la valutazione della chiamata contenga accuse
nei confronti di più persone, deve avvenire in modo frazionato per
verificare l’esistenza dei riscontri individualizzanti a carico di ciascun
accusato, non potendo estendersi l’affidabilità delle dichiarazioni del

chiamante ad un altro chiamato.

4.1.bis. Secondo ricorso di Giustolisi Gaetano, firmato in proprio.
Nel ricorso, che non articola alcun motivo di censura, il Giustolisi chiede
pronuncia assolutoria per non aver commesso il fatto.

5. Ricorso di Zito Salvatore,
Il ricorso denuncia:
-erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 192,
comma 3, e 125, comma 3

.

proc. pen. nonché in relazione all’art.

111 Cost.; carenza ed illogicità motivazionale risultante dal testo
impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei
motivi di gravame (primo motivo);
-erronea applicazione della legge penale con riferimento alla disciplina di
cui all’art. 81 cod. pen.; carenza ed illogicità motivazionale risultante dal
testo impugnato; richiesta di assegnazione alle Sezioni Unite dalla
Suprema Corte di Cassazione (secondo motivo);
-violazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio
risulta dal testo del provvedimento impugnato (terzo motivo).
5.1. In relazione al primo motivo, si evidenzia come l’intero costrutto
accusatorio si fondi sulle dichiarazioni del collaboratore Marchese
Carmelo che avrebbe appreso alcuni particolari dei presunti eventi
delittuosi direttamente da alcuni degli odierni imputati e, sulla scorta di
tale particolare circostanza, la Corte territoriale ha argomentato in
maniera del tutto illogica, sulla presunta attendibilità, giungendo a
confortare il dictum del Marchese attraverso presunti riscontri esterni
contraddittori e di per sé privi di qualunque valenza individualizzante.
5.2. In relazione al secondo motivo, si contesta l’erronea applicazione
della legge penale con riferimento alla disciplina dell’art. 81 cod. pen.
nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della

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motivazione in ordine al rigetto della richiesta di applicazione della
continuazione con la sentenza n. 4506/1996 emessa dal giudice per
l’udienza preliminare presso il Tribunale di Torino, confermata dalla
Corte d’appello di Torino in data 26.04.2005. Dopo aver premesso che
nessuna critica all’omessa applicazione della disciplina dell’art. 81 cod.
pen. era stata mai mossa al giudice di primo grado, appariva del tutto
pretestuoso l’iter argomentativo posto a fondamento di un’omessa

decisione in merito a tale espressa richiesta, basato esclusivamente sulla
mancata allegazione della sentenza di condanna divenuta irrevocabile,
pur avendo indicato gli estremi della stessa, rimettendo alla Corte
l’onere di acquisizione del predetto provvedimento, ai sensi del disposto
dell’art. 603, comma 3 cod. proc. pen.. L’esistenza di un chiaro
contrasto di giurisprudenza che individua oneri processuali di allegazione
diversi a seconda della fase processuale fomentando ingiustificate
disuguaglianze di discernimenti, rende imprescindibile l’intervento da
parte delle Sezioni unite della Suprema Corte.
5.3. In relazione al terzo motivo, si censura la sentenza impugnata che
non ha adempiuto al proprio obbligo motivazionale limitandosi ad un
laconico argomentare sulla mitigazione della pena senza alcun
riferimento specifico all’espresso riconoscimento delle circostanze
attenuanti di cui all’art. 62 bis cod. pen..

6. Ricorso di Bonaccorsi Salvatore (comune con quello di Lo Faro Alfio)
Il ricorso denuncia, quale motivo unico, la mancanza e l’illogicità della
motivazione.
Più in particolare, si censura il fatto che la sentenza d’appello si limiti ad
aderire alle conclusioni del giudice di primo grado; non consideri che il
Marchese è soggetto tossicodipendente i con motivi di astio e rancore nei
confronti del Bonaccorsi; non esistano riscontri al narrato del
collaboratore dichiarante.
Inoltre si evidenzia come, su quest’ultimo punto, la Corte territoriale ha
omesso di considerare i principi statieiti dalla Suprema Corte, secondo cui
la chiamata in correità o in reità “de relato”, anche se non asseverata
dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico
riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato,
altra o altre chiamate di analogo tenore, purchè siano rispettate le
seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione

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della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità
intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità,
della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i
rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati
sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda
confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che
devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in

relazione a circostanze rilevanti del “thema probandum”; d) vi sia
l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto
di eventuali intese fraudolente; e) sussista l’autonomia genetica delle
chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse.
Infine, si censura l’apparente motivazione in ordine al diniego di
concessione delle circostanze attenuanti generiche e l’omessa
considerazione di alcuni elementi importanti (tra cui, l’assoluta
mancanza di ulteriori denunce ed il buon comportamento processuale
complessivamente tenuto dai ricorrenti) ai fini della graduazione della
pena ex art. 133 cod. pen..

7. Ricorso di Lo Faro Alfio (comune con quello di Bonaccorsi Salvatore),
Si rimanda a quanto esposto nel precedente paragrafo 6.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi di Bonaccorsi Salvatore, Giustolisi Gaetano e Lo Faro Alfio
sono manifestamente infondati e, come tali, risultano inammissibili. I
ricorsi di Torrisi Antonino e Zito Salvatore sono infondati e, pertanto,
va nnO rigettati.
2. Alla luce del tenore delle doglianze sollevate dai ricorrenti, si rende
necessario premettere – con riguardo innanzitutto ai limiti del sindacato
di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per
cassazione, delineati dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.,
come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006
– che, a parere del Collegio, la predetta novella non ha comportato la
possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul
discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria
valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il
giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle

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considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il
suo convincimento. La mancata rispondenza di queste ultime alle
acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo
di ricorso qualora comporti il c.d. «travisamento della prova»
(consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o
nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla
necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere

critica), purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le
prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta
adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere
possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della
Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame
parcellizzato.
2.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art. 606,
comma 1, lett. e), cod. proc. pen., intenda far valere il vizio di
«travisamento della prova» deve, a pena di inammissibilità (Sez. 1,
sent. n. 20344 del 18/05/2006, dep. 14/06/2006, Salaj, Rv. 234115;
Sez. 6, sent. n. 45036 del 02/12/2010, dep. 22/12/2010, Damiano, Rv.
249035):
(a)

identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la

doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto
emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione
svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio
invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale
prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo
del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e
compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della
motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno
dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
2.2. In proposito, può ritenersi ormai consolidato nella giurisprudenza di
legittimità, il principio della c.d. “autosufficienza del ricorso”,
inizialmente elaborato dalle Sezioni civili di questa Corte. Valorizzando
dapprima la formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (a

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//

della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a

norma del quale le sentenze pronunziate in grado d’appello o in unico
grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione: «… 5. per
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto
decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio»;
la disposizione stabilisce attualmente, all’esito delle modifiche apportate
dall’art. 54 di. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, che le
sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere

impugnate con ricorso per cassazione «… 5. per omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti»), ed attualmente la formulazione (introdotta dal D. Lgs. n. 40 del
2006) dell’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ. (a norma del quale il
ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità: «… 6.
la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei
contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda»), si è osservato
che il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile, in relazione al
principio dell’autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur
mancando l’esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto
contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di
avere adeguata contezza, senza necessità di utilizzare atti diversi dal
ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle
ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo
esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene
riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che
ad essa vengono rivolte (cfr., Cass. civ. Sez. 2, sent. n. 26234 del
02/12/2005, Rv. 585217; Cass., Sez. lav., sent. n. 14561 del
17/08/2012, Rv. 623618).
2.3. Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al
giudizio di legittimità, questa Suprema Corte ha già ritenuto che

«la

teoria dell’autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba
essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza
che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui
compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è
onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la
completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente
indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in
precedenza), posto che anche in sede penale – in virtù del principio di
autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato – deve

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ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo,
… a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla
stessa articolazione del ricorso» (Sez. 1, sent. n. 16706 del 18/03/2008,
dep. 22/04/2008, Falcone, Rv. 240123; Sez. 1, sent. n. 6112 del
22/01/2009, dep. 12/02/2009, Bouyahia, Rv. 243225; Sez. 5, sent. n.
11910 del 22/01/2010, dep. 26/03/2010, Casucci, Rv. 246552, per la
quale è inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio di

manifesta illogicità della motivazione e, pur richiamando atti
specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o
allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, così da rendere
lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze; Sez. 6,
sent. n. 29263 del 08/07/2010, dep. 26/07/2010, Cavanna e altro, Rv.
248192, per la quale il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di
motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza del
principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche
sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e
non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui
esame diretto è alla stessa precluso; Sez. 2, sent. n. 25315 del
20/03/2012, dep. 27/06/2012, Ndreko e altri, Rv. 253073, per la quale
in tema di ricorso per cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti
l’omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni
effettuate, indicare l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato,
curando che esso sia effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al
giudice di legittimità o anche provvedendo a produrlo in copia nel
giudizio di cassazione).
Sulla base delle considerazioni che precedono, va, pertanto, riaffermato
il principio di diritto secondo cui «in tema di ricorso per cassazione, va
recepita e applicata anche in sede penale la teoria della “autosufficienza
del ricorso”, elaborata in sede civile; ne consegue che, quando i motivi
riguardino specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si
assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente
suffragare la validità del suo assunto mediante l’allegazione o la
completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente
indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la Corte Suprema alla
lettura degli atti indicati, posto che anche in sede penale è precluso al
giudice di legittimità l’esame diretto degli atti del processo».
2.4. La mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione,

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come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore
tale da risultare percepibili ictu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità
al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando
ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le
deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano
spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza

vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere
tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. U,
sent. n. 24 del 24/11/1999, dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794; Sez.
U, sent. n. 12 del 31/05/2000, dep. 23/06/2000, Jakani, Rv. 216260;
Sez. U, sent. n. 47289 del 24/09/2003, dep. 10/12/2003, Petrella, Rv.
226074).
Deve tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di
procedere ad un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed
atomistico i singoli atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed
a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi
(Sez. 6, sent. n. 14624 del 20/03/2006, dep. 27/04/2006, Vecchio, Rv.
233621; Sez. 2, sent. n. 18163 del 22/04/2008, dep. 06/05/2008,
Ferdico, Rv. 239789), e ad una rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o all’autonoma adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. 6, sent. n. 27429
del 04/07/2006, dep. 01/08/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, sent.
n. 25255 del 14/02/2012, dep. 26/06/2012, Minervini, Rv. 253099,
secondo cui, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, lett.
e), cod. proc. pen. dalla I. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel
giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per
la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle
risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito).
2.5. Il giudice di legittimità ha, pertanto, ai sensi del novellato art. 606
cod. proc. pen., il compito di accertare (Sez. 6, sent. n. 35964 del
28/09/2006, dep. 26/10/2006, Foschini e altro, Rv. 234622; Sez. 3,
sent. n. 39729 del 18/06/2009, dep. 12/10/2009, Belluccia e altro, Rv.
244623; Sez. 5, sent. n. 39048 del 25/09/2007, dep. 23/10/2007,
Casavola e altri, Rv. 238215; da ultimo, Sez. 6, sent. n. 5146 del
16/01/2014, dep. 03/02/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra

12

individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere
tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da
determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione);
(c) l’esistenza di una radicale incompatibilità con l’iter motivazionale
seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;
(d)

la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d.

«travisamento del fatto», ma solo qualora la difformità della realtà
storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu °cui/ ed assuma anche
carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi
probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è
sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico e,
quindi, anche contraddittorio).
2.6. Va inoltre evidenziato che non è denunciabile il vizio di motivazione
con riferimento a questioni di diritto. Invero, come più volte chiarito
dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. 2, sent. n. 3706 del
21/01/2009, dep. 27/01/2009, PG in proc. Haggag, Rv. 242634, e Sez.
2, sent. n. 19696 del 20/05/2010, dep. 25/05/2010, Maugeri e altri, Rv.
247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4,
sent. n. 6243 del 07/03/1988, dep. 24/05/1988, Tummarello, Rv.
178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è
solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacché
ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o
contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque
esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza,
mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta,
poco importa se e quali argomenti la sorreggano. E, d’altro canto,
l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione
di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti
posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di
una siffatta questione (Sez. 4, sent. n. 4173 del 22/02/1994, dep.
13/04/1994, Marzola e altri, Rv. 197993). Al riguardo, va quindi ribadito
il principio di diritto secondo cui «nel giudizio di legittimità il vizio di
motivazione non è denunciabile con riferimento alle questioni di diritto
decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia
giuridicamente corretta. D’altro canto, l’interesse all’impugnazione
potrebbe nascere soltanto dall’errata soluzione delle suddette questioni,

13

non dall’indicazione di ragioni errate a sostegno di una soluzione
comunque giuridicamente corretta».
3. Ulteriore doverosa evocazione della giurisprudenza di legittimità
afferisce al ricorso considerato aspecifico, situazione che si verifica
allorquando il medesimo, prospettando vizi di motivazione del
provvedimento impugnato, enunci i motivi in forma perplessa o
alternativa (Sez. 6, sent. n. 32227 del 16/07/2010, dep. 23/08/2010,

T., Rv. 248037: nella fattispecie il . ricorrente aveva lamentato la
“mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione” in ordine
alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari
posti a fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare
personale; Sez. 6, sent. n. 800 del 06/12/2011, dep. 12/01/2012,
Bidognetti ed altri, Rv. 251528). Invero, l’art. 606, comma 1, lett. e),
cod. proc. pen. stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per
«mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione,
quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da
altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame». La
disposizione, se letta in combinazione con l’art. 581, comma 1, lett. c),
cod. proc. pen. (a norma del quale è onere del ricorrente «enunciare i
motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e
degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta»), evidenzia che
non può ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei
motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con
precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla
mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una
pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle
varie parti della motivazione censurata. Il principio è stato accolto anche
da questa sezione, a parere della quale «È inammissibile, per difetto di
specificità, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del
provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma
perplessa o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con
precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla
contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a più di uno tra tali
vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della
motivazione oggetto di gravame»

(Sez. 2, sent. n. 31811 del

08/05/2012, dep. 06/08/2012, Sardo e altro, Rv. 254329). Per tali
ragioni, la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza,

14

contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva
della necessaria specificità, il che rende il ricorso inammissibile.
3.1. Inoltre, secondo altro consolidato ed altrettanto condivisibile
orientamento di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. 4, sent. n. 15497
del 22/02/2002, dep. 24/04/2002, Palma, Rv. 221693; Sez. 6, sent. n.
34521 del 27/06/2013, dep. 08/08/2013, Ninivaggi, Rv. 256133), è
inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga

pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con
l’aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente
assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata)
senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in
virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti. Si è, infatti,
esattamente osservato (Sez. 6, sent. n. 8700 del 21/01/2013, dep.
21/02/2013, Leonardo e altri, Rv. 254584) che «La funzione tipica
dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il
provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza
attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt.
581 e 591 cod. proc. pen.), debbono indicare specificamente le ragioni
di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto
essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto e
indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione
delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso)
con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta)».
3.2. Invero, il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una
“duplice specificità”: «Deve essere sì anch’esso conforme all’art. 581,
lett. c) cod. proc. pen. (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di
diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata
al giudice dell’impugnazione); ma quando “attacca” le ragioni che
sorreggono la decisione deve, altresì, contemporaneamente enucleare in
modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente
sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’art. 606, comma 1, cod. proc.
pen., deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua
decisi vità rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per
giungere alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione
differente» (Sez. 6, n. 8700/2013, cit.). Risulta, pertanto, evidente che,
«se il motivo di ricorso si limita a riprodurre il motivo d’appello, per ciò
solo si destina all’inammissibilità, venendo meno in radice l’unica

15

funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica argomentata al
provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il
provvedimento ora formalmente ‘attaccato’, lungi dall’essere
destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato.
Nè tale forma di redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica
del motivo d’appello) potrebbe essere invocata come implicita denuncia
del vizio di omessa motivazione da parte del giudice d’appello in ordine a

quanto devolutogli nell’atto di impugnazione. Infatti, quand’anche
effettivamente il giudice d’appello abbia omesso una risposta, comunque
la mera riproduzione grafica del motivo d’appello condanna il motivo di
ricorso all’inammissibilità. E ciò per almeno due ragioni. È censura di
merito. Ma soprattutto (il che vale anche per l’ipotesi delle censure in
diritto contenute nei motivi d’appello) non è mediata dalla necessaria
specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa motivazione (e
tanto più nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a
differenza della mancanza “grafica”, pretende la dimostrazione della sua
mera “apparenza” rispetto ai temi tempestivamente e specificamente
dedotti); denuncia che, come detto, è pure onerata dell’obbligo di
argomentare la decisività del vizio, tale da imporre diversa conclusione
del caso». Può, pertanto, concludersi che «la riproduzione, totale o
parziale, del motivo d’appello ben può essere presente nel motivo di
ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale
dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo
quando ciò serva a “documentare” il vizio enunciato e dedotto con
autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora
indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso
e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta
dei principi consolidati in materia di “motivazione per relazione” nei
provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei
parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda
sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena
applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione»

(Sez. 6, n.

8700/2013, cit.).
4. Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le
argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono
essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter
motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione

16

effettuata (cfr., per tutte, Sez. 6, sent. n. 1307 del 26/09/2002, dep.
14/01/2003, Delvai, Rv. 223061).
4.1. Inoltre, in presenza di una doppia conforma. affermazione di
responsabilità, va ritenuta l’ammissibilità della motivazione della
sentenza d’appello per relationem a quella della decisione ivi impugnata,
sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non
contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e

disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo
della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata,
non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite
dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il
primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici,
non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le
motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si
integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al
quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità
della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato
le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado
e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi
logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei
due gradi di merito costituiscano una sola entità (Sez. 2, sent. n. 1309
del 22/11/1993, dep. 04/02/1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250; Sez.
3, sent. n. 13926 del 10/12/2011, dep. 12/04/2012, Valerio, Rv.
252615).
5. Per quel che concerne poi il significato da attribuire alla locuzione
«oltre ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato dell’art.
533 cod. proc. pen. quale parametro cui conformare la valutazione
inerente all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno
evidenziare che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto
anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale
della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua
valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale. Si è, in
proposito, osservato che detta espressione ha una funzione meramente
descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il «ragionevole
dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il
proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., sicché
non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione

17

della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito,
ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro
ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata
adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema – per tutte,
Sez. U, sent. n. 30328 del 10/07/2002, dep. 11/09/2002, Franzese, Rv.
222139 – e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’art.
533 cod. proc. pen.), secondo cui la condanna è possibile soltanto

quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità
dell’imputato (Sez. 2, sent. n. 19575 del 21/04/2006, dep. 07/06/2006,
Serino ed altro, Rv. 233785; Sez. 2, sent. n. 16357 del 02/04/2008,
dep. 18/04/2008, Crisiglione, Rv. 239795). In argomento, si è più
recentemente, e conclusivamente, affermato (Sez. 2, sent. n. 7035 del
09/11/2012, dep. 13/02/2013, De Bartolomei e altro, Rv. 254025) che
«La previsione normativa della regola di giudizio dell’ “al di là di ogni
ragionevole dubbio”, che trova fondamento nel principio costituzionale
della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più
restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio
giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi
sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato».
Alla luce degli esposti principi vanno esaminati gli odierni ricorsi.

6. Ricorso di Torrisi Antonino
6.1. Infondato, con riferimento ad entrambi i profili dedotti, è il primo
motivo di doglianza.
Lamenta il ricorrente la mancata decisione sulle questioni pregiudiziali
che erano state oggetto di specifica discussione difensiva ed il difetto di
motivazione con riferimento alle eccezioni di:
– nullità del capo d’imputazione perché incompleto, generico ed ellittico,
soprattutto con riferimento alla natura del concorso contestato al Torrisi,
posto che solo nel corso del dibattimento sarebbe emerso che non gli
era addebitata la materiale partecipazione alla rapina bensì la funzione
di basista;
– inammissibilità ed inutilizzabilità della testimonianza Marchese perchè
lo stesso, citato per essere sentito in merito a fatti di cui era a
conoscenza diretta, era stato invece escusso su circostanze atizZesti
apprese de relato e comunque non riferite entro il termine di cui all’art.
16 quater comma 1 I. n. 82/1991.

18

6.1.1. Con riferimento al primo profilo, la Corte territoriale, con
motivazione ampiamente giustificata e priva di vizi logico-giuridici, ha
ritenuto come l’addebito contestato al Torrisi fosse del tutto chiaro,
essendogli stata imputata la partecipazione alla rapina aggravata
effettuata ai danni dell’ufficio postale di Massalengo in data 13.07.1994
in concorso con Bonaccorsi Salvatore, Giustolisi Gaetano, Zito Salvatore
e Lo Faro Alfio (oltre a Strazzeri Francesco, deceduto). Vi si delinea –

osserva la Corte – ” … una condotta inequivoca, a fronte della quale
l’appellante ha svolto ampia ed esauriente difesa, senza che l’omessa
precisazione del ruolo di basista da egli svolto all’interno dei componenti
della banda abbia pregiudicato alcunché, trattandosi di dettaglio non
necessario ed imprescindibile ai fini della comprensione dell’accusa e del
relativo tema probatorio”.
6.1.2. Medesime conclusioni vanno tratte con riferimento al secondo
profilo.
Come correttamente evidenziato in premessa dalla Corte territoriale, la
sanzione di inutilizzabilità che, ai sensi dell’art. 16-quater, comma nono,
del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella I. 15 marzo 1991, n. 82,
come modificata dall’art. 14 della I. 13 febbraio 2001, n. 45, colpisce le
dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di
centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei
contenuti della collaborazione, trova applicazione solo con riferimento
alle dichiarazioni rese fuori del contraddittorio e non a quelle rese nel
corso del dibattimento (Sez. 6, sent. n. 16939 del 20/12/2011, dep.
07/05/2012, De Filippi e altri, Rv. 252632).
Nel presente giudizio, il collaboratore Marchese risulta aver deposto su
fatti appresi direttamente dagli appellanti Bonaccorsi e Giustolisi e,
dunque – rileva la Corte territoriale – “… non solo la sua testimonianza
non può definirsi de relato, ma è pure riferita, oltre che alla rapina in
contestazione, anche allo specifico contesto criminale in cui detto reato è
inserito, al quale il collaborante ha direttamente preso parte, ovvero
altre condotte illecite cui egli ebbe a partecipare … unitamente alla
“batteria” di rapinatori …”: si è in presenza, quindi, di conoscenze
dirette, apprese dal componente del gruppo in ragione della sua
appartenenza al sodalizio e da questi riferite, costituenti patrimonio
probatorio di significativo rilievo e pienamente utilizzabili (cfr., Sez. 1,
sent. n. 15554 del 13/03/2009, dep. 10/04/2009, Lo Russo e altri, Rv.

19

243986, secondo cui hanno rilievo probatorio le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia su fatti e circostanze relative alla vita del
sodalizio criminoso di appartenenza, se sono corroborate da elementi di
verifica in ordine al fatto che le notizie riferite costituiscano oggetto di
patrimonio conoscitivo comune, derivante da un flusso circolare di
informazioni attinenti a fatti di interesse comune per gli associati, e ciò
in aggiunta ai normali riscontri richiesti per le propalazioni dei

collaboratori di giustizia).
6.2. Manifestamente infondato è il secondo motivo di censura.
Lamenta il ricorrente l’avvenuta – e, a suo dire, non consentita integrazione della sentenza di primo grado da parte del giudice
d’appello.
6.2.1. La censura, in presenza – come nella fattispecie – di una cd.
“doppia conforme” di responsabilità, è completamente destituita di
fondamento alla luce del consolidato opposto orientamento della
giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in situazioni del genere, la
sentenza della Corte territoriale non può essere valutata isolatamente
ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la
sentenza di primo grado, sviluppandosi entrambe secondo linee logiche
e giuridiche pienamente concordanti, di talché deve ritenersi che la
motivazione della prima si saldi con quella della seconda fino a formare
un solo complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e inscindibile
(cfr., Sez. U, 04/02/1992, Ballan ed altri; Cass., Sez. 1, 21/03/1997,
Greco ed altri; Sez. 1, 04/04/1997, Proietti ed altri).
6.2.2. Si è affermato che, in tema di impugnazione, il giudice di appello
che, investito di pieni poteri cognitivi e decisori, procede ad integrare la
motivazione mancante della sentenza di primo grado, non viola il
principio del doppio grado di giurisdizione di cui agli artt. 6 CEDU, 2 del
Protocollo addizionale n. 7 CEDU e 14 del Patto internazionale sui diritti
civili e politici, che può considerarsi soddisfatto con la previsione del
ricorso per cassazione, in quanto le modalità di esplicazione del diritto al
riesame delle decisioni di condanna possono essere limitate alla
proposizione delle questioni di diritto (Sez. 6, sent. n. 30059 del
05/06/2014, dep. 09/07/2014, PG in proc. Bertucca e altri, Rv.
262397).
6.2.3. Invero, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione,
la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di

20

primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo,
allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte
dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed
operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima
sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di
prova posti a fondamento della decisione (cfr., ex multis, Sez. 3, sent.
n. 44418 del 16/07/2013, dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595).

6.3. Infondato è il terzo motivo di censura che reitera il primo. Sullo
stesso, si rimanda alle considerazioni svolte al precedente paragrafo
6.1.1.
6.3.1. E’ solo il caso di aggiungere che non sussiste alcuna incertezza
sull’imputazione, quando il fatto sia contestato nei suoi elementi
strutturali e sostanziali in modo da consentire un completo
contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa; la contestazione,
inoltre, non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto,
ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale,
pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito
(Sez. 5, sent. n. 51248 del 05/11/2014, dep. 10/12/2014, Cutrera, Rv.
261741).
In tal senso, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, non
vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa – come
nella fattispecie – contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali
del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di
difendersi, mentre non è necessaria un’indicazione assolutamente
dettagliata dell’oggetto della contestazione (ex multis, Sez. 5, sent. n.
6335 del 18/10/2013, dep. 10/02/2014, Morante, Rv. 258948; Sez. 2,
sent. n. 16817 del 27/03/2008, dep. 23/04/2008, Muro e altri, Rv.
239758).
6.4. Infondato è il quarto motivo di censura che reitera il primo. Sullo
stesso, si rimanda alle considerazioni svolte al precedente paragrafo
6.1.2.
6.5. Infondato è il quinto motivo di censura che reitera il primo. Anche
sullo stesso, si rimanda alle considerazioni svolte al precedente
paragrafo 6.1.2.
6.6. Infondato è il sesto motivo di censura che reitera il primo e, in
parte, il quarto. Anche sullo stesso, si rimanda alle considerazioni svolte
al precedente paragrafo 6.1.2.

21

6.7. Infondato è il settimo motivo di censura che reitera il primo e, in
parte, il quarto. Anche sullo stesso, si rimanda alle considerazioni svolte
al precedente paragrafo 6.1.2.
6.8. Manifestamente infondato è l’ottavo motivo di censura.
Ipotizza il ricorrente un vizio di travisamento della prova.
6.8.1. Va innanzitutto premesso che, secondo la consolidata
giurisprudenza di legittimità, in tema di motivi di ricorso per cassazione,

il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del
provvedimento impugnato o da altri atti del processo purché
specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se
l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento
probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza
dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del
“devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità
della valutazione nel merito del risultato probatorio (cfr., ex multis, Sez.
6, sent. n. 5146 del 16/01/2014, dep. 03/02/2014, Del Gaudio e altri,
Rv. 258774).
6.8.2. In ogni caso, va evidenziato come non spetti alla Suprema Corte
rivalutare il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato
apprezzato dal giudice di merito, giacché, attraverso la verifica del
travisamento della prova, il giudice di legittimità può e deve limitarsi a
controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione
esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e
ingiustamente trascurati o fraintesi.
Per questo motivo, non può esservi spazio alcuno ad una rinnovata
considerazione della valenza attribuita ad una determinata deposizione
testimoniale, mentre potrebbe – in ipotesi – farsi valere la mancata
considerazione di altra deposizione testimoniale di segno opposto
esistente in atti, ma non considerata dal giudice, ovvero la valenza
ingiustamente attribuita ad una deposizione testimoniale inesistente o
che presenti un contenuto diametralmente opposto a quello percepito
dal giudicante e da lui riversato nella motivazione (cfr., Sez. 2, sent. n.
6078 del 09/01/2009, dep. 11/02/2009, Tripodi, Rv. 243448).
6.8.3. Nella fattispecie, peraltro, il ricorrente non deduce l’inesistenza
della prova posta a fondamento della decisione ma propone una diversa
valutazione degli elementi di prova, deducendo quindi un vizio
riconducibile al c.d. travisamento del fatto.

22

6.8.4. La Suprema Corte non può però optare per la soluzione che
ritiene più adeguata sulla ricostruzione dei fatti valutando l’attendibilità
dei testi (e, ove esistenti, le conclusioni di periti e consulenti tecnici)
esclusa dai giudici di merito: può soltanto verificare se un mezzo di
prova esista e se il risultato della prova sia quello indicato dal giudice di
merito e sempre che questa verifica non si risolva in una valutazione
della prova. Invero, come accennato in premessa, infatti, il giudice di

legittimità non ha giSRD il potere di rivalutare gli elementi di prova al
fine di pervenire ad una diversa ricostruzione del fatto essendo questo
compito esclusivo del giudice di merito; il travisamento del fatto – inteso
nel senso indicato – non può pertanto costituire motivo di ricorso in
cassazione se inteso nel senso di una complessiva rivalutazione degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione e senza che venga
indicata alcuna (manifesta) illogicità in cui sia incorso il giudice di merito
in questa ricostruzione. E sempre che – come è avvenuto nel caso di
specie – il giudice di appello abbia fornito non illogica risposta alle
argomentazioni in fatto contenute nei motivi di appello (cfr., Sez. 4,
sent. n. 36769 del 09/06/2004, dep. 17/09/2004, Cricchi ed altri, Rv.
229690).
6.8.5. Afferma la Corte territoriale: “… il Tribunale ha compiutamente
esaminato la posizione dell’appellante ed ha esposto in modo esauriente
la ragione dell’attendibilità delle dithiarazioni accusatorie del Marchese
verso Torrisi, prima fra tutte l’evidente monitoraggio dall’interno della
rapina e la piena compatibilità del ruolo di basista in capo al Torrisi che,
a prescindere dalle mansioni in concreto svolte presso le Poste Italiane
in altro ufficio e dunque dagli irrilevanti aspetti evidenziati dalle
cosiddette prove a discarico, senza dubbio conosceva bene i luoghi,
perché vi abitava ed aveva quindi modo di frequentarli e quale
dipendente postale, era in grado di acquisire senza destare sospetti, le
informazioni necessarie all’ottimizzazione del risultato ed in particolare
quelle relative alla localizzazione della cassaforte ed all’orario preciso
della consegna del denaro da parte della Mondialpol, circostanze
entrambe all’evidenza note ai rapinatori …; … la rapina … era stata
preparata utilizzando informazioni provenienti dall’interno, come messo
in luce nel corso del suo svolgimento dalla stesse mosse dei rapinatori,
che dimostrarono di conoscere bene il luogo pur non essendo noti ai
dipendenti, di essere informati sia del luogo ove si trovava la cassaforte,

23

sia del momento in cui sarebbe arrivato il denaro, tanto è vero che
entrarono in azione poco dopo che il furgone della Mondialpol effettuò la
consegna, circostanza questa che mette in evidenza il fatto che il
blindato fosse atteso e che l’orario di arrivo fosse di conseguenza
conosciuto. Ciò consente di ritenere che la banda si sia servita di un
basista, pratico del settore e che conseguentemente l’informazione del
Marchese, che ha attribuito tale ruolo al Torrisi, debba ritenersi

attendibile. Né in proposito hanno rilievo le mansioni in concreto svolte
all’epoca dall’appellante, poiché quale dipendente postale aveva modo di
acquisire le informazioni che gli erano necessarie, non tanto per il giorno
di pagamento delle pensioni, quanto per l’orario esatto di consegna del
denaro all’Ufficio Postale, informazione che diede modo alla banda di
essere pronta ad agire, subito dopo aver avvistato il furgone della
Mondialpol. Ciò consentì ai malviventi di rapinare il maggior importo
possibile e di ridurre al massimo i tempi dell’attesa e dunque del rischio
connesso all’esecuzione di tale reato …”.
Trattasi, all’evidenza, di un articolato costrutto di responsabilità, adesivo
alle statuizioni del primo giudice, avverso il quale il ricorso – come detto
– finisce con il proporre una sua alternativa, per lui preferibile, ma non
consentita, rivalutazione sia delle singole emergenze processuali, sia del
complesso dei dati probatori, quali invece ragionevolmente correlati ed
interpretati dai giudici di merito, che hanno espresso il loro
convincimento con una motivazione persuasiva, priva di illogicità od
incoerenze, apprezzabili ex art. 606 cod. proc. pen., nonchè indenne da
travisamenti dei fatti oppure delle prove acquisite.
6.9. Manifestamente infondato è il nono motivo di censura.
Ampia motivazione, del tutto priva di vizi logico-giuridici ovvero di non
consentiti “salti” giustificativi finalizzati a dimostrare fittiziamente
elementi probatori inesistenti, viene resa in punto indicazione dei
riscontri al narrato del Marchese.
6.9.1. Si afferma, infatti, al riguardo, come il racconto dello stesso sia
sufficientemente indicativo circa la località del lodigiano ove fu
perpetrata la rapina … che egli ha riferito come organizzata dal
Bonaccorsi su segnalazione del cognato Torrisi, che abitava in loco
ovvero in Massalengo, preciso in ordine alla dislocazione dell’ufficio
all’interno del palazzo comunale, corrispondente nella dinamica e nel
numero dei componenti, che vi parteciparono e rispecchia esattamente

24

lo svolgimento del fatto, così come riferito dai testi che vi assistettero e
le leggere imprecisioni, e non certo contraddizioni del dichiarante,
trovano la loro più che plausibile spiegazione, sia nel decorso del tempo
… sia nel fatto che si tratta comunque di circostanze che il collaboratore
apprese a suo tempo da due dei rapinatori, ovvero Bonaccorsi e
Giustolisi, ed a questo proposito, a mo’ di esempio ritiene la Corte più
che significativa la circostanza riferita dal Marchese, circa la presa in

ostaggio da parte di uno dei banditi del vigile De Cesare, né la valenza di
tale dato può ritenersi sminuita per il solo fatto che il collaboratore non
abbia rammentato il sesso di costei, perché potrebbe per l’appunto non
essergli stato riferito, come pure è ben possibile che non sia stato messo
a conoscenza della perquisizione subìta dalla banda il giorno successivo,
come anche delle esatte generalità di Torrisi, da egli conosciuto come
Nino …”.
6.10. Manifestamente infondato, per genericità, è il decimo motivo di
censura.
Ferme le considerazioni operate in premessa, rileva il Collegio come la
regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole
dubbio”, imponga di pronunciare condanna a condizione che – come
nella fattispecie – il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto
eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come
possibili

“in rerum natura” ma la

cui effettiva realizzazione, nella

fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle
emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle
cose e della normale razionalità umana (cfr., da ultimo, Sez. 2, sent. n.
2548 del 19/12/2014, dep. 21/01/2015, PG in proc. Segura, Rv.
262280).
6.10.1. Ampiamente valutati dai giudici di merito sono stati gli elementi
asseritamente a discarico, peraltro ritenuti inidonei a scalfire il
robustissimo quadro indiziario esistente. In particolare, la Corte
territoriale riconosce come “l’osservazione secondo cui le perquisizioni
ebbero esito negativo, giacchè non furono rinvenuti né le armi utilizzate
per la rapina né il denaro, né tanto meno furono trovate tracce
sull’autovettura utilizzata per la rapina, non tiene conto che
nell’appartamento mancavano all’appello alcuni dei componenti, che
avrebbero potuto detenere armi e denaro, come pure che fosse ben
plausibile la banda avesse già provveduto al loro imbosco in luogo

25

più sicuro, così come certo provvide a non lasciare tracce
sull’autovettura abbandonata dopo il delitto; il rilievo del mancato
riconoscimento degli imputati dai testi presenti alla rapina & è da ritenersi
elemento neutro, perché ragionevolmente da imputarsi all’eccessivo
lasso di tempo trascorso dal fatto …”.
6.11. Manifestamente infondato per carenza di interesse è l’undicesimo
motivo di doglianza.

Pacifico, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, è il ruolo assunto
dal Torrisi nella vicenda. Ma altrettanto incontestabili sono i contributi
causali alla realizzazione dei fatto da parte degli altri concorrenti.
Peraltro, quand’anche si volesse sostenere l’equivocità di taluno dei
contributi causali posti in essere dai concorrenti in presenza di
ipotizzabili alternative prospettazioni in fatto (per esempio, per ruolo
diverso ovvero meno coinvolgente), nondimeno, ferma la prova del
concorso di persone nel reato, la censura dovrebbe essere fatta valere
dal singolo interessato e non da chi, come il Torrisi, finisce con
l’assumere una “veste” del tutto neutra rispetto al tema.
6.12. Infondato è il dodicesimo motivo di censura.
Afferma la costante giurisprudenza di legittimità che, in tema di
concorso di persone nel reato, ai fini dell’integrazione della circostanza
attenuante della minima partecipazione (art. 114 cod. pen.), non è
sufficiente una minore efficacia causale dell’attività prestata da un
correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che
il contributo dato si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di
rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto
all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter
criminoso. Ne deriva che, ai fini dell’applicabilità dell’attenuante in
questione, non è sufficiente procedere a una mera comparazione tra le
condotte dei vari soggetti concorrenti, ma occorre accertare – attraverso
una valutazione della tipologia del fatto criminoso perpetrato in concreto
con tutte le sue componenti soggettive, oggettive e ambientali – il grado
di efficienza causale, sia materiale, sia psicologica, dei singoli
comportamenti, rispetto alla produzione dell’evento, configurandosi la
minima partecipazione, di cui all’art. 114 cod. pen., solo quando la
condotta del correo abbia inciso sul risultato finale dell’impresa
criminosa in maniera del tutto marginale, cioè tale da poter essere
avulsa, senza apprezzabili conseguenze pratiche, dalla serie causale

26

produttiva dell’evento (Sez. 5, sent. n. 21082 del 13/04/2004, dep.
05/05/2004, Terreno, Rv. 229201).
6.12.1. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come il contributo
informativo offerto dal Torrisi (v. paragrafo 6.8.5.), lungi dal
rappresentare un apporto di minima o di marginale importanza, ha
comportato l’elezione o, quantomeno, il rafforzamento del proposito
criminoso spiegando un’efficacia causale determinante di per sé ostativq

al riconoscimento dell’attenuante de qua.

7. Primo ricorso di Giustolisi Gaetano, a firma avv. Luca Cianferoni
7.1. Manifestamente infondata è la doglianza proposta dal ricorrente.
Il tema delle chiamate in reità o correità da parte di coimputati e
imputati dì reato connesso ha costituito oggetto di grande attenzione da
parte del legislatore e della giurisprudenza.
7.1.1. Questa Corte ha più volte affermato che, ex art. 192 cod. proc.
pen., comma 3, i riscontri esterni alle chiamate possono essere costituiti
anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie, le quali devono tuttavia
caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine ai fatto materiale
oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza – intesa come
mancanza di pregresse intese fraudolente – da suggestioni o
condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c)
per la loro specificità, nel senso che la cd. “convergenza del molteplice”
deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la
persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando
che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi
d’accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l’aspetto sostanziale
della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione
fattuale da decidere (v., per tutte, Sez. 2, sent. n. 13473/2008, Rv.
239744, Lucchese).
7.1.2. È stato anche reiteratamente precisato che ove le dichiarazioni
accusatorie siano plurime e convergenti, ma sussista il dubbio di
artificiose consonanze, il giudice ha l’obbligo di verificare non soltanto se
la convergenza non sia l’esito di collusione o concerto calunnioso, ma
anche se non sia il frutto di condizionamenti o reciproche influenze, pur
senza alcuna preordinata malafede, dovendo pertanto procedere con
particolare severità e scrupolo al giudizio di attendibilità (Sez. 6, sent. n.
6221 del 20/04/2005, Aglieri, Rv. 233084).

27

Per quanto concerne le dichiarazioni de relato rese dal coimputato del
medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a
norma dell’art. 12 cod. proc. pen. e non confermate dal soggetto
indicato come fonte di informazione, è stato affermato che esse possono
costituire elemento indiziario idoneo a fondare la dichiarazione di
colpevolezza soltanto se confortate, ai sensi dell’art. 192 cod. proc.
pen., comma 3 da riscontri estrinseci certi, univoci, specifici,

individualizzanti, tali da consentire un collegamento diretto ed obiettivo
con i fatti contestati e con la persona imputata (Sez. 6, sent. n.
1639/2003, Dolcetti, Rv. 223279). Plurime chiamate

de relato,

sottoposte alla verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca e
confortate da riscontri esterni aventi le caratteristiche sopra indicate,
ben possono ritenersi reciprocamente corroborate e idonee a fondare il
giudizio di colpevolezza. Va invece escluso che il riscontro ad una
chiamata in reità o correità de relato possa essere integrato da altra
semplice chiamata

de relato,

non confortata dai predetti riscontri.

Se l’ordinamento processuale ha imposto particolari e rigorose regole di
giudizio (art. 192, cod. proc. pen., commi 3 e 4) per la chiamata in reità
o correità “diretta”, ossia per le dichiarazioni di cui il coimputato o
l’imputato di reato connesso afferma la diretta conoscenza
(assumendone la relativa responsabilità), deve escludersi che, in
mancanza di altri elementi di riscontro aventi le caratteristiche sopra
indicate, due o più chiamate de relato possano reciprocamente ritenersi
riscontrate, così da essere poste a base del giudizio di responsabilità
penale.
7.1.3. Il legislatore ha apprestato, a richiesta di parte e a sua garanzia,
un obbligatorio specifico meccanismo di controllo anche per la
testimonianza indiretta, cioè per la dichiarazione del testimone che “si
riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone” (art. 195 cod.
proc. pen.). Come è stato esattamente osservato, l’obbligo (o il potere),
previsto dall’art. 195 cod. proc. pen., di disporre l’esame delle persone
che hanno fornito l’informazione è finalizzato alla ricerca di una
convalida e all’ottenimento di un controllo a quanto riferito, posto che, in
tali casi, è oscura e incerta l’origine della conoscenza e notevolmente
ridotta la possibilità di contestazione e di controesame.
Questo meccanismo di garanzia, espressamente dettato per la
testimonianza indiretta, in ipotesi proveniente da soggetto terzo e del

28

tutto disinteressato, costituisce un’indicazione generale, da tener
presente, a maggior ragione, per dichiarazioni

de relato

rese da

coimputati o imputati di reato connesso, giacché in quest’ultimo caso
alla debolezza dell’elemento probatorio derivante dal riferimento ad una
ulteriore fonte, si aggiunge il sospetto intrinseco a ogni dichiarazione del
coimputato o imputato di reato, normalmente interessato a una
determinata versione o ricostruzione dei fatti da accertare.

Quando, non si può escutere la persona come fonte originaria della
dichiarazione, per essere l’imputato accusato da quella dichiarazione e,
perciò, interessato a smentirla, devono applicarsi le regole e i principi
stabiliti in tema di chiamata in correità dall’art. 192 cod. proc. pen.,
comma 3, compresa la necessità di riscontri esterni oggettivi, con le
caratteristiche sopra indicate.
In tal senso, si è già espressa la giurisprudenza di questa Suprema
Corte, ritenendo che la ricerca di riscontri, a conferma di dichiarazioni
caratterizzate da credibilità congenitamente carente, affine a quella della
testimonianza indiretta, deve essere particolarmente rigorosa e può
costituire prova solo se sorretta da riscontri estrinseci, obiettivi ed
individualizzanti, tra i quali non sono ricomprese altre dichiarazioni
indirette (Sez. 5, sent. n. 37239 del 09/07/2010, PG in proc. Canale, Rv.
248648; sent. n. 43464 del 09/05/2002, PM in proc. Pinto, Rv. 223544).
7.1.4. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come la valutazione dei
giudici di merito sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia
Marchese Carmelo risulta esauriente e completa rispetto alle censure
rivolte con gli atti d’appello, indenne da manifesta ’11,logicità e
contraddittorietà e conforme ai principi che, in tema di applicazione
dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3 e 4, sono stati affermati
reiteratamente da questa Corte sulla verifica di attendibilità estrinseca
ed intrinseca e sulla necessità di riscontri esterni individualizzanti.
La Corte di secondo grado, infatti, non ha omesso di riesaminare alcuno
degli elementi sottoposti alla sua attenzione con l’atto di gravame.
Invero, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, il giudice di merito
ha assolto all’onere motivazionale su esso gravante con esaustivi rilievi
fattuali e corrette argomentazioni in diritto, in sintonia con i criteri
metodologici più sopra richiamati.
Nel procedere alla valutazione della chiamata in correità del Marchese
secondo la metodologia “a tre tempi” indicata da Sez. U, sent. n. 1653

29

del 21/10/1992, dep. 22/02/1993, Marino, Rv. 192465 (ossia, secondo i
criteri: della credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità,
dalle sue condizioni socio-economiche e familiari, dal suo passato, dai
rapporti col chiamato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che
lo hanno indotto all’accusa nei confronti del chiamato; dell’attendibilità
intrinseca della chiamata, in base ai criteri della precisione, della
coerenza, della costanza, della spontaneità; della verifica esterna

dell’attendibilità della dichiarazione, attraverso l’esame di elementi
estrinseci di riscontro alla stessa), il Collegio ha correttamente tenuto
conto della successiva evoluzione giurisprudenziale di questa Corte (Sez.
U, sent. n. 20804 del 29/11/2012, dep. 14/05/2013, Aquilina e altri, Rv.
255145), che ha precisato come il percorso valutativo dei vari passaggi
non debba muoversi lungo linee rigidamente separate, ma debba
svilupparsi nell’ottica di una considerazione unitaria della credibilità
soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità oggettiva del suo racconto,
caratterizzata dalla influenza reciproca dei due profili, al pari di quanto
accade per ogni altra prova dichiarativa, “discendendo ciò dai generali
criteri epistemologici e non indicando l’art. 192 cod. proc. pen., comma
3, sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria” (Sez. 1, sent. n.
19759 del 17/05/2011, Misseri, non massimata sul punto; Sez. 6, sent.
n. 11599 del 13/03/2007, Pelaggi, Rv. 236151; da ultimo, Sez. 1, sent.
n. 22633 del 05/02/2014, dep. 30/05/2014, Pagnozzi, Rv. 262348).
Da qui l’inammissibilità del ricorso.
7 bis. Secondo ricorso di Giustolisi Gaetano, firmato in proprio
7.1.bis. Inammissibile per genericità e manifesta infondatezza è la
doglianza proposta dal ricorrente.
Tra i requisiti del ricorso per cassazione vi è anche quello, sancito a pena
di inammissibilità, della specificità dei motivi: il ricorrente ha non
soltanto l’onere di dedurre le censure su uno o più punti determin
della decisione impugnata, ma anche quello di indicare gli elementi che
sono alla base delle sue lagnanze.
Nel caso di specie, il ricorso si profila inammissibile perché privo dei
requisiti prescritti dall’art. 581, comma 1 lett. c) cod. proc. pen. in
quanto, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata ampia e
logicamente corretta, non indica gli elementi che sono alla base della
censura formulata, non consentendo al giudice dell’impugnazione di

30

individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (cfr.,

ex

multis, Sez. 2, sent. n. 19951 del 15/05/2008, dep. 19/05/2008, Lo
Piccolo, Rv. 240109).

8. Ricorso di Zito Salvatore
8.1. Manifestamente infondato è il primo motivo di censura.
La censura reitera sostanzialmente quella proposta nell’unico motivo di

gravame del ricorso proposto nell’interesse di Giustolisi Gaetano. Si
rimanda al riguardo alle considerazioni espresse ed alle valutazioni
operate nei precedenti paragrafi 7.1., 7.1.1., 7.1.2., 7.1.3. e 7.1.4. che
precedono.
8.2. Infondato è il secondo motivo di censura.
Come è stato ripetutamente affermato – con un orientamento
maggioritario – dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di
continuazione, l’identità del disegno criminoso non può presumersi e,
pertanto, l’interessato ha un onere di allegazione che non viene assolto
con la mera indicazione e produzione di sentenze, occorrendo anche
l’indicazione di concreti elementi dai quali possa desumersi, attraverso
un ragionamento condotto alla stregua di rigorosi criteri di ordine logico,
la sussistenza delle condizioni cui l’art. 81 cod. pen. subordina
l’applicazione della disciplina della continuazione (Sez. 6, sent. n. 43441
del 24/11/2010; Sez. 1, sent. n. 1721 del 22/04/2002; Sez. 1, sent. n.
898 del 03/03/1993; Sez. 5, sent. n. 18586 del 04/03/2004).
8.2.1. In applicazione di tale principio, pertanto, legittimamente la Corte
di appello ha rigettato la richiesta di applicazione della disciplina della
continuazione tra i reati oggetto del presente procedimento e quelli
giudicati con precedente sentenza del giudice per l’udienza preliminare
presso il Tribunale di Torino (sent. n. 4506/1996), avendo dato atto che
l’appellante non aveva fornito alcuna prova della sussistenza di un unico
programma delittuoso, deliberato sin dall’inizio nelle sue linee essenziali.
8.2.2. Invero, il Collegio, pur consapevole della presenza, nella
giurisprudenza di legittimità, di un diverso – ma minoritario – indirizzo
(Sez. 5, n. 37337 del 29/04/2011 – dep. 14/10/2011, Castellano, Rv.
250929), ritiene di dover aderire all’orientamento in forza del quale
l’imputato che intenda richiedere nel giudizio di cognizione il
riconoscimento della continuazione tra il reato giudicando e reati già
giudicati deve produrre copia delle sentenze a tal fine rilevanti, non

31


,

tril

potendo limitarsi ad indicarne gli estremi (Sez. 2, sent. n. 35600 del
12/06/2012, dep. 18/09/2012, Silvestrini e altro, Rv. 253895; conf.,
Sez. 5, sent. n. 12789 del 19/02/2010, dep. 01/04/2010, Cicchitti, Rv.
246900).
Come è stato rilevato, infatti, non solo «deve ritenersi condivisibile
l’assunto secondo il quale la peculiare disciplina dettata per la
applicazione della continuazione in executivis dall’art. 186 disp. att. cod.

ma, anzi, è proprio la positiva previsione di tale disposizione derogatoria
— che si giustifica, come puntualizzano le

Osservazioni al Progetto

preliminare delle norme di attuazione, in funzione degli ampi poteri
officiosi riservati; al giudice della esecuzione a norma dell’art. 185 delle

i
v.-

stesse disposizioni di attuazione – esclude che in sede di cognizione
l’imputato sia esentato dalla ordinaria regola per la quale richieste
fondate su elementi non presenti agli atti del processo possano essere
delibate in assenza del relativo onere di allegazione; giacchè, ove così
non fosse, si finirebbe per devolvere al giudice un compito “istruttorio”
non previsto dalla legge e con correlativo vulnus per la celerità del rito»
(Sez. 2, sent. n. 9275 del 14/02/2014, dep. 26/02/2014, Tassone, Rv.
259069).
Deve, pertanto, essere disattesa la tesi del ricorrente secondo cui la
Corte di appello avrebbe dovuto acquisire la sentenza rispetto alla quale
veniva invocata la continuazione.
8.2.3. Con l’interpretazione seguita dal Collegio, anche il denunciato
contrasto giurisprudenziale finisce di fatto per essere superato, ben
potendo la pretesa “diversità di regime” tra fase di cognizione e fase di
esecuzione trovare ampia e giustificata motivazione.
8.3. Manifestamente infondato è il terzo motivo di censura.
Trattasi di censura non consentita in sede di legittimità in presenza di
motivazione congrua e giustificata al riguardo.
8.3.1. La Corte territoriale infatti ha affermato che “… per gli imputati
Bonaccorsi, Giustolisi, Lo Faro e Zito, lo spessore criminale ed il nutrito
numero di precedenti, anche specifici, non lascia spazio ad alcun
intervento di clemenza sulla pena, che correttamente graduata dal
Tribunale in ragione della estrema pericolosità dell’attuazione della
rapina, perpetrata a mano armata e con la presa di un ostaggio, resta
pertanto determinata in anni otto di reclusione ed euro 1.500,00 di

32

proc. pen. non è estensibile in via analogica nel processo di cognizione,

multa …”.
8.3.2. Nessuna censura può essere poi mossa con riferimento al
mancate riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (giudizio
di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice: cfr., Sez. 6, sent. n.
36382 del 04/07/2003, Dell’Anna e altri, Rv. 227142) il cui diniego può
avvenire anche con motivazione implicita in presenza – come nella
fattispecie – di adeguata motivazione circa la richiesta della

attenuazione del regime sanzionatorio, basata su analogo ordine di
motivi (Sez. 4, sent. n. 2840 del 21/02/1997, La Legname e altro, Rv.
207668).

9. Ricorso di Bonaccorsi Salvatore (comune con quello di Lo Faro Alfio)
9.1. Manifestamente infondata è la doglianza proposta dal ricorrente.
Invero, rileva il Collegio che la linea argomentativa sviluppata dal
giudice di merito risulta immune da qualsiasi caduta di consequenzialità
logica, evidenziabile dal testo del provvedimento, mentre il tentativo del
ricorrente di prospettare una diversa ricostruzione del fatto si risolve,
per l’appunto, nella prospettazione di una lettura soggettivamente
orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta
motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare
quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o all’autonoma adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che invece gli
sono precluse ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen..
9.1.1. Fermo quanto precede e richiamate in proposito le osservazioni
riportate nel precedente paragrafo 6.8.5., rileva il Collegio come la Corte
ceteu.,
territoriale abbia riconosciuto cce52 la credibilità delle accuse del
Marchese non possa “ritenersi inficiata né dalla sua pregressa
tossicodipendenza, perché in proposito argomento irrilevante, né
dall’affermata astiosità del collaborante verso l’imputato Bonaccorsi e ciò
per tre ragioni, in primo luogo perché Marchese non ha nascosto i suoi
precedenti contrasti con il suocero, riferendoli peraltro al suo passato
familiare, in secondo luogo perché tale supposto intento ritorsivo
colpirebbe anche tutti gli altri partecipi alla rapina di Massalengo, verso i
quali non vi sarebbe ragione ritorsiva alcuna / ed in terzo ed ultimo
imprescindibile luogo, perché il racconto della rapina … è supportato da
plurimi e puntuali riscontri esterni, che consentono in tutta serenità di

33

a

W

escludere l’origine calunniosa delle accuse …”.
9.1.2. Con riferimento al tema della chiamata in correità o in reità, si
rimanda ai contenuti dei paragrafi 7.1., 7.1.1., 7.1.2., 7.1.3. e 7.1.4.
che precedono.

10. Ricorso di Lo Faro Alfio (comune con quello di Bonaccorsi Salvatore)
10.1. Manifestamente infondata è la doglianza proposta dal ricorrente.

Salvatore, si richiamano al riguardo le considerazioni espresse ed le
valutazioni operate nei precedenti paragrafi 9.1., 9.1.1. e 9.1.2. che
precedono.
11. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen.,
la condanna di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali
nonché la condanna dei ricorrenti Bonaccorsi Salvatore, Giustolisi
Gaetano e Lo Faro Alfio, i cui ricorsi sono stati dichiarati inammissibili,
anche al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una
somma che, considerati i profili di colpa emergenti dai rispettivi ricorsi,
si determina equitativamente in euro 1.000,00 per ciascuno

PQM

Dichiara inammissibili i ricorsi di Bonaccorsi Salvatore, Giustolisi
Gaetano e Lo Faro Alfio; rigetta i ricorsi di Torrisi Antonino e Zito
Salvatore; condanna tutti i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e Bonaccorsi Salvatore, Giustolisi Gaetano e Lo Faro Alfio
anche al versamento della somma di Euro 1.000,00 ciascuno alla Cassa
delle ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 16.4.2015

Il Consigliere estensore

i

Dotyridrea Peli
/grino
i

Il Presidente
Dott.ssa Matilde Cammino

Preso atto dell’identità dei motivi proposti nell’interesse di Bonaccorsi

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