Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21273 del 09/05/2016


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 21273 Anno 2016
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
DI PIERRO MICHELE N. IL 13/12/1967
avverso la sentenza n. 1288/2011 CORTE APPELLO di MILANO, del
19/03/2015
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FERDINANDO
LIGNOLA;

Data Udienza: 09/05/2016

RILEVATO IN FATTO

– che con l’impugnata sentenza, in conferma di quella di primo grado, DI PIERRO
MICHELE fu condannato alla pena di giustizia per il reato di cui all’articolo 483
cod. pen., in relazione alla comunicazione inviata alla polizia stradale di Milano
secondo la quale il cittadino ucraino Polivkan Orest, alla data del 7 maggio 2008,
si trovava alla guida di un’autovettura tg. DE357CG, mentre in realtà era stato

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, avv.
Fulvio Rosari, deducendo violazione di legge, in relazione alla mancata
assunzione di una prova decisiva, rappresentata dalla perizia sulla firma
incriminata e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità,
fondata su elementi indiziari privi dei caratteri di gravità precisione e
concordanza che su argomentazioni contraddittorie manifestamente illogiche;

CONSIDERATO IN DIRITTO

– che il ricorso va dichiarato inammissibile poiché, quanto alla perizia, va
richiamato il costante orientamento espresso da questa Corte secondo il quale la
perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, fatto proprio
dall’art. 606. La norma citata contiene infatti un esplicito riferimento all’art. 495,
comma 2, c.p.p. e, pertanto, si riferisce alle prove a discarico, mentre la perizia
non può essere considerata tale, stante il suo carattere per così dire “neutro”,
sottratto alla disponibilità delle parti e sostanzialmente rimesso alla
discrezionalità del giudice (Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, P.G. in proc. Ligresti,
Rv. 229665). La mancata effettuazione di un accertamento peritale non può
quindi essere dedotta con la censura in esame;
– quanto alla motivazione dell’affermazione di responsabilità, il motivo attiene
alla valutazione delle prove e non a passaggi motivazionali della sentenza, il che
non è ammesso in sede di legittimità, giacchè finisce con il richiedere alla Corte
di legittimità di prendere posizione tra le diverse letture dei fatti; sotto questo
profilo va ribadito che la Corte di cassazione non ha il compito di trarre
valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, e pertanto non si può
addentrare nell’esame del contenuto documentale delle stesse, neppure se
riprodotte nel provvedimento impugnato e, tanto meno, se contenute in un atto

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espulso dal territorio nazionale, allegando false autocertificazioni a sua firma;

di parte, poiché in sede di legittimità è l’argomentazione critica che si fonda sugli
elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato
che è sottoposta al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di
verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e
all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 28703 del 20/04/2012,
Bonavota, Rv. 253227);
– che la motivazione della sentenza non evidenzia alcuna contraddizione o

a rendere la falsa dichiarazione, per evitare conseguenze sanzionatorie a suo
carico; che egli era in possesso dei dati del Polivkan in ragione dei pregressi
rapporti contrattuali con il cittadino ucraino(disponendo peraltro di copia della
patente di guida del medesimo); che Polivkan all’epoca del fatto che era stato
espulso dall’Italia e rimpatriato coattivamente; che costui non aveva alcun
interesse ad autodenunciarsi per il reato di illecito reingresso in Italia solo per
evitare conseguenze amministrative al proprietario dell’automobile; che la tesi
secondo cui Polivkan era rientrato in Italia è una mera ipotesi indimostrata;
– che la ritenuta inammissibilità del ricorso comporta le conseguenze di cui
all’art. 616 cod. proc. pen., ivi compresa, in assenza di elementi che valgano ad
escludere ogni profilo di colpa, anche l’applicazione della prescritta sanzione
pecuniaria, il cui importo stimasi equo fissare in euro 2000;

P. Q. M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di 2000 euro in favore della
cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 9 maggio 2016
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manifesta illogicità, laddove evidenzia che l’imputato aveva un preciso interesse

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