Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21069 del 22/03/2018


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 21069 Anno 2018
Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: RANALDI ALESSANDRO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
SARTOR ERIKA nato il 12/02/1980 a VERONA

avverso l’ordinanza del 17/05/2017 della CORTE APPELLO di VENEZIA
sentita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO RANALDI;
lette le conclusioni del PG;

Data Udienza: 22/03/2018

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Venezia, quale giudice della riparazione, con
l’ordinanza impugnata ha respinto la domanda con la quale Erika Sartor ha
chiesto la riparazione per la custodia cautelare subita a seguito di arresto in
flagranza in data 26.4.2001, fino al 24.4.2002, nell’ambito di un procedimento
penale per reati in materia di stupefacenti dal quale è stata definitivamente

2. Avverso la suddetta ordinanza, tramite il difensore di fiducia, propone
ricorso l’interessata, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione in
relazione all’art. 314 cod. proc. pen.
Deduce che erroneamente la Corte di merito ha fondato il rigetto dell’istanza
sul presupposto ostativo della situazione di tossicodipendenza della Sartor,
contestando che tale condizione possa integrare la colpa grave per il rigetto della
domanda di indennizzo. Rileva, infatti, che la Sartor è stata assolta per entrambe
le imputazioni contestate ed è emerso pacificamente che i provvedimenti di
carcerazione erano ingiustificati.

3. Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, ha chiesto che il ricorso
sia dichiarato inammissibile.

4. Si è costituito il Ministero dell’Economia e delle Finanze, concludendo per
l’inammissibilità o il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e va, quindi, rigettato.

2. La Corte territoriale ha correttamente esaminato la questione sottoposta
al suo esame secondo i parametri richiesti dalla disposizione di cui all’art. 314
cod. proc. pen., valutando in maniera congrua e logica, e con l’autonomia che è
propria del giudizio di riparazione, la ricorrenza di una condotta ostativa
determinata da dolo o colpa grave, avente effetto sinergico rispetto alla custodia
cautelare subita dall’interessato.
E’ infatti noto che, in materia di riparazione per ingiusta detenzione, la colpa
che vale ad escludere l’indennizzo è rappresentata dalla violazione di regole, da
una condotta macroscopicamente negligente o imprudente dalla quale può
insorgere, grazie all’efficienza sinergica di un errore dell’Autorità giudiziaria, una

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assolta.

misura restrittiva della libertà personale. Il concetto di colpa che assume rilievo
quale condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo non si identifica con
la “colpa penale”, venendo in rilievo la sola componente oggettiva della stessa,
nel senso di condotta che, secondo il parametro dell’id quod plerumque accidit,
possa aver creato una situazione di prevedibile e doveroso intervento
dell’Autorità giudiziaria. Anche la prevedibilità va intesa in senso oggettivo,
quindi non come giudizio di prevedibilità del singolo soggetto agente, ma come
prevedibilità secondo il parametro dell’id quod plerumque accidit, in relazione

dell’autorità giudiziaria. Pertanto è sufficiente considerare quanto compiuto
dall’interessato sul piano materiale, traendo ciò origine dal fondamento
solidaristico dell’indennizzo, per cui la colpa grave costituisce il punto di
equilibrio tra gli antagonisti interessi in campo.
Va inoltre considerato che il giudice della riparazione, per stabilire se chi ha
patito la detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o
colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di
stabilire, con valutazione “ex ante” – e secondo un iter logico-motivazionale del
tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale
condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che
abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa
apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez. 4, n. 9212 del
13/11/2013 – dep. 2014, Maltese, Rv. 25908201). La valutazione del giudice
della riparazione, insomma, si svolge su un piano diverso, autonomo rispetto a
quello del giudice del processo penale, ed in relazione a tale aspetto della
decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel
processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno
delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che
negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto
alla riparazione (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, Sarnataro ed altri).

3. L’ordinanza impugnata ha fornito un percorso logico motivazionale
intrinsecamente coerente e rispettoso dei principi di diritto dianzi accennati.
La Corte territoriale, valutando autonomamente il materiale probatorio
utilizzato dai giudici di merito, ha fondatamente ritenuto che il comportamento
della Sartor, pur riconosciuto privo di rilevanza penale, ha contribuito
colposamente in maniera decisiva all’emissione e al protrarsi della misura
cautelare. Ciò non in funzione della condizione di tossicodipendenza della
richiedente, come asserito nel ricorso, ma essenzialmente per aver dichiarato
dinanzi al giudice di aver acquistato (assieme alla madre) la droga trovata in suo

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alla possibilità che la condotta possa dare luogo ad un intervento coercitivo

possesso (gr. 20,5 di eroina), con denaro proprio, per le esigenze di tutta la
famiglia, in relazione ad un quantitativo di sostanza stupefacente certamente
idoneo a far dubitare di un’ipotesi di consumo di gruppo, ipotesi peraltro esclusa
dalla circostanza che il denaro utilizzato per l’acquisto, a detta della stessa
ricorrente, era di sua esclusiva pertinenza. Se poi tale confessione non fosse
stata veridica, giustamente è stato affermato che la donna commise, almeno
virtualmente, il delitto di autocalunnia. In tal modo, sostanzialmente, è stato
correttamente ritenuto, con valutazione logica e razionale, che la Sartor adottò

la convinzione della sussistenza dei gravi indizi di reato a suo carico, asseverati
dai reiterati contatti telefonici della stessa con soggetti coinvolti in attività di
traffico di stupefacenti. Infatti, va qui ribadito l’indirizzo giurisprudenziale di
legittimità secondo cui, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione,
costituisce comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento
dell’indennizzo, il possesso in circostanze indizianti di un quantitativo di sostanze
stupefacenti eccedente il valore-soglia previsto dal d.m. 11 aprile 2000, che,
seppur ritenuto in concreto penalmente irrilevante, integra comunque gli estremi
di un illecito amministrativo, idoneo a provocare l’intervento della polizia
giudiziaria (Sez. 4, n. 10653 del 12/07/2012 – dep. 2013, Leka, Rv. 25527601).
Nel caso di specie si tratta di quantitativo che va ben al di là del valore-soglia
previsto dalla normativa dianzi richiamata, per cui è indubbio che la condotta in
esame, pur se ritenuta insufficiente ai fini della dichiarazione di responsabilità, è
stata condivisibilmente ritenuta espressione di macroscopica imprudenza e
negligenza, concretizzando la violazione di norme da cui derivano sanzioni di
carattere amministrativo.

4. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento
delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese di giudizio in favore del
Ministero resistente, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dall’Amministrazione in questo
giudizio di legittimità, liquidate in euro mille.
Così deciso il 22 marzo 2018

un comportamento che contribuì a ingenerare nell’autorità giudiziaria procedente

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