Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21052 del 04/05/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 21052 Anno 2016
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: SGADARI GIUSEPPE

SENTENZA

Sul ricorso proposto nell’interesse di:
BACHMANN BIANCHI CORNELIA, nata a Monaco (Germania) il 18/04/1958,
BIANCHI CARLO FEDERICO, nato a Grado il 30.05.1949,
parti civili nel procedimento a carico di:
TONIETTI LUCIANO, nato a Roncade il 05/04/1955,
TONETTO EGIDE, nata a Mogliano Veneto l’08/02/1921,
avverso la sentenza del 14/05/2014 della Corte di Appello di Venezia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione della causa svolta dal consigliere Giuseppe Sgadari;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto
Procuratore generale Ciro Angelillis, che ha concluso chiedendo il rigetto del
ricorso;
udito il difensore delle parti civili, avv. Luigi Ravagnan, che agisce anche in
sostituzione dell’avv. Andrea Mirabile, che ha concluso riportandosi alla memoria
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Data Udienza: 04/05/2016

e chiedendo l’accoglimento del ricorso, depositando comparsa conclusionale e
nota spese;
uditi i difensori degli imputati:
avv. Antonio Franchini per Luciano Tonietti,
avv. Angelo Alessandro Sannmarco per Egide Tonetto,
che hanno concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

1.Con la sentenza in epigrafe, La Corte di Appello di Venezia, in sede di rinvio
disposto dalla Corte di cassazione, confermava la sentenza del Tribunale di
Treviso che aveva assolto Luciano Tonietti e Egide Tonetto dal reato di calunnia
loro in concorso ascritto con la formula perché il fatto non sussiste.
2. Rilevava la Corte, sullo stesso solco della sentenza di primo grado, che gli
imputati, attraverso la denuncia corredata da uno scritto ad essa allegato di cui è
menzione nell’imputazione, si fossero resi responsabili di una accusa nei
confronti dei ricorrenti costituente una mera istigazione non accolta a
commettere un omicidio; condotta riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 115,
comma 4, cod. pen. (indicata come “quasi reato”) e, come tale, non sussumibile
nella fattispecie legale di cui all’art. 368 cod. pen..
3. Ricorrono per cassazione le parti civili, deducendo:
1) violazione di legge per assoluta mancanza dì motivazione e conseguente
nullità della sentenza impugnata, perché la Corte di Appello avrebbe omesso di
verificare la fondatezza delle censure avverso la sentenza di primo grado
contenute nei motivi di appello, nonostante a ciò necessitata anche in seguito
all’annullamento con rinvio disposto dalla Corte di Cassazione;
2) violazione di legge per avere la Corte adottato la formula assolutoria “perché
il fatto non sussiste”, anziché quella “perché il fatto non è previsto dalla legge
come reato”, che consentirebbe di mantenere integre le pretese dei ricorrenti in
sede civile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è manifestamente infondato.
1.Quanto al primo motivo, la censura dei ricorrenti è del tutto generica, poiché
non tiene conto della motivazione della sentenza impugnata in relazione alla
ragione per la quale la Corte di Appello non riteneva necessario addentrarsi
nell’esaminare le molteplici censure di merito svolte dai ricorrenti avverso la
decisione di primo grado ed afferenti la sussistenza del reato di calunnia.
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RITENUTO IN FATTO

Motivo costituito dal fatto che la Corte, così come il Tribunale, valorizzavano, per
giungere alle loro conclusioni, lo stesso contenuto del capo di imputazione, il
quale, contemplava, in effetti, soltanto una mera istigazione a commettere un
omicidio operata dal Bianchi nei confronti del Pozzebon e non accolta da
quest’ultimo (come anche l’istruttoria dibattimentale avrebbe dimostrato,
secondo l’insindacabile giudizio di merito della Corte di Appello).
Sotto questo profilo, il richiamo dei ricorrenti alla sentenza di annullamento con
rinvio della Corte di cassazione è assolutamente inconferente; dal momento che,

giudizio, in sede di rinvio, proprio all’imputazione contestata, senza estenderlo
ad altri fatti che la Suprema Corte giudicava “nuovi” rispetto all’accusa mossa in
questo processo ed in ordine ai quali occorreva che l’autorità giudiziaria
procedesse autonomamente.
Proprio l’aver rilevato tale originario limite della contestazione accusatoria,
aveva, dunque, orientato la Corte di Appello – e prima di lei il Tribunale – a non
approfondire le doglianze contenute nell’appello dei ricorrenti, solo
genericamente richiamate nel primo motivo di ricorso, attraverso un rinvio
integrale non consentito perché non idoneo a focalizzare quale delle numerose
censure, ancora valutabili in questa sede, sia stata reputata idonea a scalfire il
conforme convincimento dei giudici di merito.
Dovendosi, peraltro, ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte di
cassazione, qui condivisa, è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si
limitino a lamentare l’omessa valutazione, da parte del giudice dell’appello, delle
censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad
esse, senza indicarne il contenuto, al fine di consentire l’autonoma individuazione
delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di
legittimità, dovendo l’atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle
ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3, n.
35964 del 04/11/2014, B., rv. 264879; Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014,
Caruso, rv. 259704).
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Con esso si lamenta, per la prima volta, una violazione di legge consistente
nell’aver adottato una formula assolutoria non appropriata (fatto non sussiste
anziché fatto non previsto dalla legge come reato).
Tale doglianza non aveva formato oggetto dei motivi di appello avverso la
decisione del Tribunale, che analoga formula assolutoria aveva adottato.
In ogni caso, si rileva come, sia il Tribunale che la Corte di Appello, non abbiano
ritenuto sussistente un elemento costitutivo di tipo oggettivo del reato di
calunnia, vale a dire il fatto di aver incolpato qualcuno, con la consapevolezza
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con quella decisione, si disponeva che la Corte di Appello limitasse il proprio

della sua innocenza, di un “reato” e non di un “quasi reato”, così come i giudici di
merito avevano catalogato la condotta degli imputati di mera istigazione non
accolta a commettere un omicidio, riconducendola all’art. 115, comma 4, cod.
pen..
Mancando un elemento oggettivo della fattispecie contestata, correttamente la
Corte territoriale ed il Tribunale adottavano la formula assolutoria “perché il fatto
non sussiste”, secondo quella stessa giurisprudenza di legittimità citata dai
ricorrenti ma dagli stessi non correttamente interpretata.

adottata là dove il fatto non corrisponda ad una fattispecie incriminatrice in
ragione di un’assenza di previsione normativa o di una successiva abrogazione
della norma o di un’intervenuta dichiarazione d’incostituzionalità, permanendo in
tutti tali casi la possibile rilevanza del fatto in sede civile; la formula “perché il
fatto non sussiste”, che esclude ogni possibile rilevanza anche in sede diversa da
quella penale, va invece adottata quando difetti un elemento costitutivo del reato
(Sez. U, n. 37954 del 2011, Orlando; Sez. 3, n. 13810 del 12/02/2008, Diop, rv.
239949).
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro millecinquecento/00
ciascuno alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa
degli stessi ricorrenti nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e ciascuno della somma di euro 1.500,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 04.05.2016.
Il Consigliere estensore
Giuseppe Sgadari

Il Presidente
Mario Gentile

Infatti, la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” va

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