Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 21031 del 25/01/2018


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 21031 Anno 2018
Presidente: DI SALVO EMANUELE
Relatore: NARDIN MAURA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CARBONE MARCO nato il 13/03/1985 a NAPOLI

avverso la sentenza del 27/06/2016 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MAURA NARDIN
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FULVIO BALDI
che ha concluso per
Il P.G. Baldi Fulvio conclude per l’annullamento con rinvio.
Udito il difensore
L’Avvocato Morra Antonio si riporta ai motivi di ricorso.

Data Udienza: 25/01/2018

RITENUTO IN FATTO
1.

Con sentenza del 27 giugno 2016 la Corte di Appello di Napoli ha

parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Napoli, assolvendo Marco
Carbone dal reato di cui agli artt. 74, commi 1^, 2^ e 3^ ed 80, comma 2^
d.p.r. 309/1990, con l’aggravante della’art. 7

d.l. 152/1991 conv. con L.

203/1991 per non avere commesso il fatto, confermando la penale responsabilità
del medesimo per tutti gli altri reati contestati, relativi alla detenzione ed allo
spaccio di sostanza stupefacente del tipo cocaina e rideterminando la pena in

2.

Avverso la decisione propone ricorso per cassazione Marco Carbone, a

mezzo del suo difensore, affidandolo ad un unico articolato motivo, relativo
all’erronea determinazione del trattamento sanzionatorio. Sostiene che la Corte,
abbia fatto riferimento alla legge c.d. Iervolino Vassalli (in vigore dal 1990 al
2006) che prevedeva la pena della reclusione da 8 a 20 anni, mentre la legge c.d
Fini Giovanardi (introdotta nel 2006 e vigente all’epoca dei fatti) dichiarata
incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 32/2014, prevedeva la
pena della reclusione da 6 a 20 anni, trattamento più favorevole Siffatta
normativa, invero, doveva essere applicata secondo la stessa Corte delle Leggi,
non potendo la declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma
comportare conseguenze pregiudizievoli per l’imputato. E ciò proprio tenuto
presente il precetto di cui all’art. 25 della Costituzione ed il disposto dell’art. 7
della CEDU, nonché l’art. 2 del codice penale. Lamenta il vero e proprio vuoto
motivazionale in ordine alla scelta della normativa applicabile, neppure
espressamente indicata, ma desumibile dalla pena base indicata in anni 8 di
reclusione. Sottolinea come l’opposta lettura secondo cui la pena sarebbe stata
determinata in forza della legge più favorevole benché incostituzionale, in misura
non prossima al minimo edittale, si dimostri incompatibile con la logica, perché la
motivazione omette ogni indicazione sui parametri di riferimento di cui all’art 133
cod. pen., indispensabile a giustificare l’allontanamento dal minimo eclittale di
anni 6, e ciò nonostante la concessione delle circostanze attenuanti generiche,
riconosciute nella loro massima estensione, in forza del cambiamento di vita
dell’imputato, all’allontanamento dal territorio di commissione del reato ed
all’impiego in attività lavorativa lecita.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.

Il ricorso è infondato.

2.

La doglianza proposta tratta due aspetti strettamente connessl relativi

la determinazione della pena. Seppur anteponendo gli argomenti relativi alla
normativa applicabile a quelli inerenti l’obbligo motivazionale, la censura
2

anni 5 di reclusione ed C. 18.000,00 di multa

desume, infatti, dall’omessa indicazione dei parametri di cui all’art. 133 cod.
pen., l’applicazione concreta della legge meno favorevole, reviviscente a seguito
della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 73 d.P.R. 309/1990. Ciò perché in
mancanza della doverosa motivazione sulle ragioni del discostamento dal minimo
edittale, la pena base su cui è effettuato i calcolo non può che ritenersi pari al
minimo edittale. E poiché nel caso di specie la pena base è indicata in anni otto
di reclusione, ciò significa che la Corte ha applicato la legge penale meno
favorevole e cioè la disciplina c.d. Iervolino Vassalli.
Si ritiene da parte del ricorrente che l’esatta individuazione del

trattamento sanzionatorio applicato assuma particolare rilievo nel caso di
specie perché la legge ripristinata in conseguenza della pronuncia della Corte
Costituzionale n. 32/2014 è più severa di quella caducata, prevedendo per i
reati di detenzione e spaccio di droghe c.d pesanti (nell’ipotesi di specie
cocaina) la reclusione da otto

a venti anni (oltre la multa), laddove la

disposizione contenuta nella legge Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale
prevedeva la reclusione da sei a venti anni (oltre la multa).
4.

La questione circa l’applicazione concreta del trattamento sanronatorio,

a seguito della declaratoria di incostituzionalità, è stata direttamente affrontata
in sede di giudizio sulla legittimità della legge. La Corte ha sottolineato che “sin
dalla sentenza n. 148 del 1983, si è ritenuto che gli eventuali effetti in malam
partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della
normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva
di legge vigente in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.) di «configurare nuove
norme penali» (sentenza n. 394 del 2006), siano esse incriminatrici o
sanzionatorie (…)” cosicché in relazione agli effetti “sui singoli imputati, è
compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la
dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione
giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel
tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più
favorevole al reo.”. La pronuncia, dunque, non fa che ribadire un principio
fondamentale dell’ordinamento penale, secondo il quale non può essere applicata
una pena non conoscibile al momento della commissione del reato e deve
comunque esser applicata la legge più favorevole, anche se nel frattempo
censurata di incostituzionalità. Si tratta di un parametro cardine della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che all’art. 7, rubricato

Nulla poena

sine lege prevede non solo che “Nessuno può essere condannato per una azione
o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato
secondo il diritto interno o internazionale.”, ma che “non può essere inflitta una
pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato
3

3.

commesso.”, neppure chiarisce ulteriormente la Corte costituzionale, se tale
norma sia stata dichiarata contraria alla Carta fondamentale della Repubblica.
1.

Ed invero il principio è stato ribadito anche dalla giurisprudenza di

legittimità, secondo cui “In tema di stupefacenti, la reviviscenza dell’art. 73
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal
D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21
febbraio 2006, n. 49, successivamente dichiarate incostituzionali dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, comporta la reintroduzione

favorevole per il reo, prevedendo una pena edittale maggiore nel minimo; ne
consegue che per le condotte aventi ad oggetto tali sostanze, che siano state
commesse nel corso della vigenza delle disposizioni attinte dalla censura di
incostituzionalità, le stesse continuano ad applicarsi. (Fattispecie di detenzione
contestuale di droghe sia “pesanti” sia “leggere”, in relazione alla quale la
Corte ha osservato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale non deve
andare a detrimento delle posizioni giuridiche degli imputati, essendo gli effetti
della pronuncia recessivi rispetto al principio poziore della applicazione della
legge penale più favorevole al reo). (Sez. 1, n. 33373 del 23/06/2015 – dep.
28/07/2015, Guzzon, Rv. 26473701).
2.

Deve, dunque, concludersi che in tema di stupefacenti, la reviviscenza

dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nel testo anteriore alle modifiche
introdotte dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni
dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, successivamente dichiarate
incostituzionali dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, non
comporta che il giudice sia vincolato a rimodulare la sanzione rendendola
conforme ai minimi edittali più favorevoli, potendo egli determinarla
discrezionalmente nell’ambito della più lieve cornice edittale, con il solo limite
– nell’ipotesi di appello proposto dal solo imputato – del divieto di reformatio in

peius.
3.

Parimenti va affermato il principio secondo cui spetta al giudice

stabilire quale sia la norma più favorevole al reo al fine di commisurare la pena
avuto riguardo all’unica disciplina concretamente applicabile da rinvenire nella

lex mitior, unico parametro che consente di determinare un trattamento
conforme ai principi indicati dalla Corte Costituzionale, non si pone in
contraddizione con quello secondo il quale “La determinazione della pena tra il
minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di
merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media
e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia
limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono
4

per le droghe cosiddette “pesanti” di un trattamento sanzionatorio meno

impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.

(Sez. 4, n. 21294 del

20/03/2013 – dep. 17/05/2013, Serratore, Rv. 25619701)”.
4.

La conclusione è che, nel rispetto di queste premesse, il giudice di

appello, in sede di definizione della pena, tenuto conto della disciplina più
favorevole applicabile, può commisurarla dal minimo al medio edittale senza
specificare in modo dettagliato le modalità di esercizio del suo potere
discrezionale, essendo il richiamo dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
implicito nella determinazione concreta.

processuali

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così d ciso il 25 gennaio 2018

Il Con igliere estensore

Il Presidente

Maura ardin

Em09uele Di

5. Il ricorso va, pertanto, rigettato con condanna al pagamento delle spese

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