Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20798 del 20/04/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 20798 Anno 2016
Presidente: DAVIGO PIERCAMILLO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
1.

PROCURATORE GENERALE presso la Corte di Appello di Napoli, contro la
sentenza pronunciata in data 18/12/2014 dalla Corte di Appello di Napoli
nei confronti di:

1.1. ZAGARIA PASQUALE nato il 05/01/1960;
1.2. ZAGARIA CARMINE nato il 27/05/1968;
1.3. FONTANA MICHELE nato il 23/11/1970;
1.4. FONTANA PASQUALE nato il 31/07/1969;
e da:
2. ZAGARIA PASQUALE nato il 05/01/1960;
3. ZAGARIA CARMINE nato il 27/05/1968;
4. FONTANA MICHELE nato il 23/11/1970;
5. MARTINO FRANCESCO nato il 05/07/1959;
6. FABOZZI VINCENZO nato il 13/02/1954;
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Massimo Galli, che ha concluso chiedendo: il rigetto dei ricorsi di Zagaria
Pasquale, Zagaria Carmine e Fontana Michele; l’inammissibilità dei ricorsi del
Procuratore Generale, di Fabozzi e di Martino;

Data Udienza: 20/04/2016

uditi i difensori, avv.ti Sergio Cola (per Zagaria Pasquale, Zagaria Carmine e
Martino Francesco), Francesco Quaranta (per Zagaria Carmine), Ida Blasi in
sostituzione dell’avv.to A. Diana (per Fabozzi Vincenzo) e dell’avv.to Massimo
Biffa (per Fontana Michele) che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei
rispettivi ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 18/12/2014, la Corte di Appello di Napoli, pur

rideterminando in melius le pene, confermava la sentenza con la quale, in data
15/04/2013, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale della medesima città
aveva ritenuto ZAGARIA Carmine, ZAGARIA Pasquale, FONTANA Michele
FABOZZI Vincenzo e MARTINO Francesco e FONTANA Pasquale colpevoli dei reati
loro rispettivamente ascritti.

2. Contro la suddetta sentenza, il Procuratore Generale ed i soli ZAGARIA
Carmine, ZAGARIA Pasquale, FONTANA Michele FABOZZI Vincenzo e MARTINO
Francesco hanno proposto ricorso per cassazione.

3. Il PROCURATORE GENERALE, presso la Corte di Appello di Napoli, ha
dedotto

la

VIOLAZIONE DELL’ART.

63/4

COD. PENI,

per avere la Corte ridotto

irragionevolmente la pena – escludendo l’aumento di pena comminato dal primo
giudice – sulla base della mera rinuncia ai motivi di impugnazione in grado di
appello, pur in presenza di un quadro probatorio “quanto mai granitico”: il
ricorso è stato proposto nei confronti dei soli imputati ZAGARIA Carmine,
ZAGARIA Pasquale, FONTANA Michele e FONTANA Pasquale.

4. ZAGARIA Pasquale, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto i seguenti
motivi:
4.1.

VIOLAZIONE DELL’ART.

649/2

COD. PROC. PEN.:

il ricorrente è stato ritenuto

colpevole del delitto di cui all’art. 416 bis/1-2-3-4-5-8 cod. pen., per avere fatto
parte, con ruolo apicale, di un’associazione per delinquere di stampo mafioso,
denominata “Clan dei Casalesi” in Capesenna e zone limitrofe “accertato fino ad
aprile 2010”.
La difesa, in punto di fatto, ha premesso che l’imputato, per lo stesso reato,
era già stato condannato, con sentenza definitiva in data 30/11/2007 emessa
nell’ambito del procedimento penale cd. “Normandia”, in cui si faceva
unicamente riferimento alla data di accertamento del reato mediante la dicitura
“accertato fino al luglio 2004”.

2

1.

Secondo la difesa, poiché, nel suddetto processo, non era stata contestata la
data di cessazione della permanenza, l’accertamento dell’appartenenza al
sodalizio criminale (e, quindi, la condanna) doveva intendersi avvenuto fino alla
data della sentenza di primo grado (e, quindi, fino al 30/11/2007), così come
ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità anche a SSUU (nn. 11930/1994;
11021/1998).
Erroneamente, quindi, la Corte territoriale aveva confermato la condanna
dell’imputato per il periodo successivo al luglio 2004 e fino al 30/11/2007 e cioè

processato e condannato essendo stato, appunto, per quei fatti e per quel
periodo, già condannato con la sentenza del 30/11/2007;
4.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 192 COD. PROC. PEN.: la difesa sostiene che,
comunque, per il periodo successivo al 30/11/2007, i riscontri probatori a carico
dell’imputato (decreto applicativo del regime di cui all’art. 41 bis Ord. pen;
dichiarazioni del collaboratore di giustizia Chierchiello Enrico; intercettazione del
27/03/2009 n. 5428) non avrebbero potuto essere ritenuti concludenti, ai sensi
dell’art. 192 cod. proc. pen., in quanto si fondavano su “un pacifico travisamento
della prova” atteso che: a) il decreto applicativo della misura di cui all’art. 41 bis
cit, non era stato emesso dal tribunale di sorveglianza, ma dal Ministro della
Giustizia e alcun valore probatorio, ai fini del reato in esame, poteva essere
attribuito al contenuto delle missive a seguito delle quali, appunto, era stato
disposto il suddetto regime carcerario; b) le dichiarazioni del Chierchiello
avevano un contenuto del tutto neutro in quanto nulla aveva riferito a carico
dell’imputato relativamente agli anni 2009-2010; c) la conversazione del
27/03/2009 era insignificante ai fini della prova della responsabilità dell’imputato
alla partecipazione al sodalizio in epoca successiva al 2007, in quanto aveva ad
oggetto una conversazione fra soggetti che, parlando dello Zagaria, facevano
riferimento ad una sua asserita ed imminente scarcerazione: non poteva, quindi,
essere addebitata all’imputato un’aspettativa di due diversi interlocutori;
4.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 1/1 LETT’. B) BIS N. 1 D.L. 92/2008 COMV IN L.
125/1998, per avere la Corte erroneamente applicato il suddetto regime
sanzionatorio, in luogo di quello previsto dalla L. 251/2005, nonostante non vi
fosse alcuna prova della prosecuzione dell’attività delittuosa successivamente
all’entrata in vigore della L. 125/2008;
4.4. Con memoria depositata il 04/04/2016, la difesa ha chiesto che il
ricorso del Procuratore Generale fosse dichiarato inammissibile ed ha
ulteriormente illustrato di cui al precedente § 4.2. sub a).

5. ZAGARIA Carmine, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto i seguenti
motivi:

3

per un periodo per il quale il medesimo non avrebbe potuto essere nuovamente

5.1. VIOLAZIONE DELL’ART. 649/2 COD. PROC. PEN.: Si tratta della stessa censura
dedotta da Zagaria Pasquale

(supra § 4.1.), con l’unica differenza che la

sentenza che, secondo l’assunto difensivo, avrebbe fatto scattare il divieto del
ne bis in idem risale al 14/06/2007;
5.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 192 COD. PROC. PEN.: si tratta della stessa doglianza
dedotta da Zagaria Pasquale (supra § 4.2.);
5.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 1/1 LETT. 13) BIS N. 1 D.L. 92/2008 COMV IN L.
125/1998: si tratta della stessa doglianza dedotta da Zagaria Pasquale

(supra §

5.4. VIOLAZIONE DELL’ART. 416 BIS/2 COD. PEN. per avere la Corte attribuito
all’imputato il ruolo apicale pur in assenza di elementi probatori che deponevano
in tal senso. Infatti, la motivazione si basa sulle sole dichiarazioni dei
collaboratori Chierchiello e Vargas che non avevano alcuna valore probante e in
relazione alle quali la stessa Corte aveva motivato in modo scarno tanto più che
tutti gli altri collaboratori non avevano mai indicato l’imputato come un capo o
promotore del sodalizio criminoso;
5.5. Con memoria depositata il 04/04/2016, la difesa ha chiesto che il
ricorso del Procuratore Generale fosse dichiarato inammissibile ed ha
ulteriormente illustrato di cui al precedente § 5.4..

6. FONTANA Michele, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto la VIOLAZIONE
DELL’ART. 649/2 COD. PROC. PEN. deducendo gli stessi argomenti dedotti nei ricorsi
di Zagaria Pasquale e Carmine. In particolare, la difesa, in punto di fatto, ha
puntualizzato che: a) nella sentenza del 30/11/2007 pronunciata dal giudice
dell’udienza preliminare del tribunale di Napoli, il Fontana era stato ritenuto
colpevole del delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen., con riferimento al periodo
storico compreso tra il 01/01/2004 ed il mese di aprile del 2010; b) sia la
sentenza del 30/11/2007 che quella per cui è processo, si fondavano sugli stessi
elementi probatori costituiti dalle intercettazioni ambientali presso l’abitazione di
Zagaria Pasquale, compendiate nell’informativa del 07/07/2006. In punto di
diritto, la difesa, ha ribadito che, nel procedimento conclusosi con la sentenza del
30/11/2007, la contestazione (che indicava il reato associativo “accertato fino al
luglio 2004”), aveva natura “chiusa” e, quindi, l’accertamento doveva intendersi
effettuato fino alla decisione di primo grado.

7.

FABOZZI Vincenzo, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto la

VIOLAZIONE DELL’ART. 393 COD. PEN. in quanto entrambi i giudici, erroneamente,
avrebbero qualificato il fatto come estorsione invece che come esercizio
arbitrario delle proprie ragioni. Secondo la difesa, l’imputato, era creditore della

4

4.3.);

persona offesa e, in tale veste, egli si era attivato per recuperare quanto
dovutogli senza usare toni minacciosi o intimidatori.

8. MARTINO Francesco, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto:
8.1. VIOLAZIONE DELL’ART.

129 COD. PROC. PEN.

per non avere la Corte,

nonostante la rinuncia ai motivi di appello, accertato se vi fossero o meno le
condizioni per confermare la condanna per il delitto di cui all’art. 393 cod. pen.,
nonostante la parte offesa non avesse proposto alcuna querela;

ritenuto la sussistenza della suddetta aggravante «senza soffermarsi sulla
effettiva natura e portata della condotta che sarebbe stata tenuta dal prevenuto
e, soprattutto, sull’effetto che la stessa avrebbe sortito sulla presunta persona
offesa;
8.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 62 N. 4 COD. PEN. per non avere la Corte motivato in
relazione all’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento, con riferimento
ai delitti di cui al capo sub c) (tentata estorsione), della suddetta attenuante, in
quanto l’oggetto della pretesa era limitato ad alcune centinaia di euro ed in
particolare legato ad un sovrapprezzo pagato dall’imputato a seguito di una
partita di piantine di ortaggi dalla presunta persona offesa;
8.4. VIOLAZIONE DELL’ART. 62 BIS COD. PEN. per non avere la Corte motivato in
modo logico e congruo in ordine alla mancata concessione delle chieste
attenuanti generiche

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. VIOLAZIONE DELL’ART. 649/2 COD. PROC. PEN.: la suddetta censura è comune

ai ricorrenti ZAGARIA Pasquale (supra in parte narrativa § 4.1.) a ZAGARIA
Carmine (supra in parte narrativa § 5.1.) e a FONTANA Michele (supra in parte
narrativa motivo unico § 6.).
Tutti e tre i ricorrenti, come si è detto, lamentano sostanzialmente, di essere
stati condannati, con la sentenza impugnata, nuovamente per un fatto
(partecipazione ad associazione per delinquere ex art. 416 bis cod. pen.) per cui,
in realtà, erano già stati condannati con le sentenze pronunciate il 30/11/2007
(Zagaria Pasquale e Fontana Michele) e 14/06/2007 (Zagaria Carmine).
Le censure sono infondate per le ragioni di seguito indicate.

1.1. LE NOZIONI DI CONTESTAZIONE CHIUSA E CONTESTAZIONE APERTA

La questione dedotta dai ricorrenti implica, preliminarmente, fare chiarezza
sulle nozioni di contestazione chiusa e contestazione aperta.

5

8.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 7 L. 203/1991: ad avviso della difesa, la Corte aveva

Con il sintagma “contestazione chiusa” si suole indicare quella contestazione
che, relativamente ai reati permanenti (come, ad es. l’associazione per
delinquere), indichi una durata della permanenza precisamente individuata nel
tempo, quantomeno nel suo momento terminale: il che si verifica nell’ipotesi in
cui il Pubblico Ministero formuli il capo d’imputazione specificando la data finale
dell’attività criminosa contestata. La conseguenza di tale tipo di contestazione è
che, appunto, il fatto resta cristallizzato a quella determinata data finale indicata
espressamente nel capo d’imputazione, e preclude al giudice di tener conto

dell’associazione per delinquere, dell’eventuale partecipazione dell’imputato
all’associazione anche per il periodo successivo a quello contestato) salva,
ovviamente, l’ipotesi in cui il Pubblico Ministero provveda alla contestazione
suppletiva ex art. 516 cod. proc. pen.:

ex plurimis Cass. 49177/2015 riv

265512; Cass. 12456/2009 riv 243743; Cass. 29701/2008 riv 240750; SSUU
11930/1994 riv 199171.
Con il sintagma “contestazione aperta” (detta anche “a consumazione in
atto”), invece, si suole indicare quella contestazione – sempre relativa ai reati
permanenti – in cui il pubblico ministero si limiti ad indicare esclusivamente la
data iniziale (o la data dell’accertamento) e non quella finale: tale tipo di
contestazione, si identifica dalle formule adoperate come ad es. “sino alla data
odierna”, “fino all’attualità”, “con condotta perdurante” et similia.
In tale ipotesi, è stato ritenuto che la permanenza – intesa come dato della
realtà – deve ritenersi compresa nell’imputazione, sicché l’interessato è chiamato
a difendersi nel processo in relazione ad un fatto la cui essenziale connotazione è
data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessità che il protrarsi della
condotta criminosa formi oggetto di contestazioni suppletive da parte del titolare
dell’azione penale. Infatti, la contestazione del reato permanente assume una
sua “vis expansiva” fino alla pronuncia della sentenza (di primo grado), e ciò non
perché in quel momento cessi o si interrompa naturalisticamente o
sostanzialmente la condotta, sibbene solo perché le regole del processo non
ammettono che possa formare oggetto di contestazione, di accertamento
giudiziale e di sanzione una realtà fenomenica successiva alla sentenza, pur se
legata a quella giudicata da un nesso inscindibile per la genesi comune,
l’omogeneità e l’assenza di soluzione di continuità, la quale potrà essere
eventualmente oggetto di nuova contestazione.
Quindi, la conseguenza, sul piano processuale, della contestazione aperta, è
che il giudice, differentemente da quanto avviene nel caso della contestazione
chiusa, può tener conto, senza bisogno della contestazione suppletiva da parte
del Pubblico Ministero, dell’eventuale perdurante condotta criminosa tenuta
dall’imputato fino alla data della pronuncia della sentenza (di primo grado), data

6

dell’eventuale successivo protrarsi dell’attività criminosa (ossia, nel caso

in cui la permanenza si considera processualmente cessata: SSUU 11930/1994,
Polizzi, rv 199169-199170; SSUU 11021/1998 riv 211385; Cass. 6905/2015 riv
262319
La suddetta regola, però, essendo di natura esclusivamente processuale (nel
senso che non occorre, durante il processo di primo grado, che il Pubblico
Ministero, quotidianamente, effettuati la contestazione suppletiva), non ha
conseguenze sul piano sostanziale nel senso che non ricade sull’imputato l’onere
di dimostrare, a fronte di una presunzione contraria, la cessazione dell’illecito

Ne consegue che, qualora dalla data di cessazione della permanenza debba
farsi derivare, anche in sede esecutiva, un qualsiasi effetto giuridico, non è
sufficiente il riferimento alla data della sentenza di primo grado, ma occorre
verificare se il giudice di merito abbia o meno ritenuto, esplicitamente o
implicitamente, provata la permanenza della condotta illecita oltre la data
dell’accertamento e, eventualmente, se tale permanenza risulti effettivamente
accertata fino alla sentenza. Mancando la prova della permanenza fino alla data
della decisione di primo grado, la condanna deve intendersi riferita (ad es. ai fini
della prescrizione) alla data di accertamento.
In altri conclusivi termini, dire che il giudice, a fronte di una contestazione
“aperta”, ha la possibilità di condannare l’imputato per la condotta tenuta fino
alla data della sentenza di condanna (di primo grado) senza alcuna necessità di
un’ulteriore contestazione suppletiva, non significa che la sentenza di condanna
comporti l’automatico accertamento che l’imputato abbia perseverato nella
condotta criminosa fino alla data della pronuncia della sentenza. Infatti, a tale
conclusione, il giudice può pervenire solo se la condotta successiva (come ogni
fatto) sia stata provata dalla pubblica accusa, non spettando all’imputato dare la
prova della propria desistenza: dal che consegue che, in mancanza di prove, la
condanna deve intendersi limitata alla data di accertamento del reato:

ex

plurimis, Cass. 68/2015 riv 261792; Cass. 6905/2015 riv 262319 (in materia di
reato associativo); Cass. 39221/2014 riv 260511; Cass. 25578/2007 riv 237707;
Cass. 774/2005 riv 230727; Cass. 10640/1999 riv 214039.

1.2.

LA QUAESTIO FACTI DEDOTTA DAI RICORRENTI

Fatta chiarezza in ordine ai (consolidati) principi di diritto, la questione
dedotta dai ricorrenti, si riduce ad una mera quaestio facti e cioè verificare se la
contestazione sulla base della quale furono pronunciate le sentenze del
14/06/2007 e del 30/11/2007, aveva natura “chiusa” (come hanno ritenuto
entrambi i giudici di merito) o “aperta” (come sostengono i ricorrenti).
La conseguenza pratica dall’accogliere l’una o l’altra tesi, è intuitiva: nel
primo caso (contestazione chiusa) si giustifica la contestazione (e la condanna)
7

prima della data della condanna di primo grado.

per l’ulteriore periodo di accertamento della partecipazione al sodalizio
criminoso; nel secondo caso (contestazione aperta), al più, secondo l’assunto
difensivo, avrebbe potuto essere contestata la partecipazione al periodo
successivo al 14/06 – 30/11/2007 (data delle sentenze di primo grado).
Le doglianze dedotte dai ricorrenti, non hanno fondamento alcuno.
Infatti, come si è detto e com’è del tutto pacifico, nel processo conclusosi
con le sentenze di primo grado pronunciate in data 14/06/2007 e 30/11/2007, la
partecipazione all’associazione per delinquere di stampo mafioso, era stata

Già sotto un profilo strettamente formale e semantico, la formula adoperata
indica non una permanenza in atto, ma, al contrario, un accertamento che il
Pubblico Ministero intese cristallizzare al luglio 2004, come si desume dall’uso
dell’avverbio “fino a” che indica, appunto, la data finale.
Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dai ricorrenti che, focalizzando la
loro attenzione solo sul participio “accertato” invocano le citate sentenze a SSUU,
deve osservarsi che il suddetto participio ha natura neutra e resta privo di
valenza fino che non sia specificato, perché, da come viene utilizzato, può
indicare una contestazione chiusa (“accertato fino al giugno 2004”, come nel
caso di specie) o aperta (“accertato dal ….” senza indicazione della data finale:
ipotesi questa estranea alla fattispecie in esame).
In secondo luogo, il giudice dell’udienza preliminare, nella sentenza di primo
grado, nel disattendere la medesima doglianza (pag. 53 ss), ha ampiamente
addotto le ragioni per cui, anche in punto di fatto, la suddetta contestazione
doveva ritenersi “chiusa” e non aperta.
Questa la motivazione: «[….] l’evidenziata conoscenza delle intercettazioni
avvenute all’interno dell’abitazione di Zagaria Pasquale, non implica la
consapevolezza, da parte del PM, dell’esistenza ed attuale operatività e vitalità
del clan, condizioni queste necessarie per contestare il reato associativo in
relazione ad un periodo diverso ed ulteriore da quello del 2004. L’accertamento
della perdurante esistenza ed operatività di un’associazione criminale, implica,
infatti, una valutazione complessa che tenga conto di molteplici profili attesa la
struttura del delitto in questione (art. 416 bis c.p.) il cui accertamento necessita
la verifica non solo di uno o più isolati episodi criminosi bensì della sussistenza di
un vincolo stabile tra più soggetti, teso alla consumazione di una molteplicità di
reati fine. Le intercettazioni in esame, per quanto significative, non consentivano
di ritenere dimostrata, all’epoca, in cui le conversazioni sono state captate, con
sufficiente gravità indiziaria, la perdurante operatività del gruppo criminale. Solo
le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, intervenute ad anni di distanza dalla
captazione delle conversazioni in esame, hanno consentito di arricchire il quadro
probatorio a disposizione della Procura, di delineare, con maggtqr precisione, sia
8

contestata, a tutti e tre i ricorrenti, come “accertato fino al luglio 2004”.

la permanenza del vincolo associativo sia l’apporto contributivo fornito da
ciascuno degli adepti, i ruoli ed i compiti di ciascuno, consentendo al PM il
delicato compito di accertare la perdurante operatività del gruppo Zagaria. Al
riguardo è sufficiente osservare che (tra gli altri) Di Caterino Emilio ha reso
dichiarazioni circa la perdurante esistenza del clan solo a far data dal 2008 (cfr.
verbali del 23.12.2008: 21.03.009, 30.03.2009), Froncillo Michele ha iniziato a
collaborare ed a fornire elementi conoscitivi in tale direzione solo a partire dal
2008 (cfr. verbali de131.01.2008), come pure Graziano Felice e Spagnuolo

2008. Addirittura solo nell’anno 2009 la Procura ha potuto fruire degli apporti
conoscitivi forniti dai collaboratori Fasano Salvatore, Piccolo Francesco, Diana
Francesco, Guida Luigi, Ruffo Ciro ed ulteriormente successive sono state le
scelte collaborative di Farina Antonio, di Laiso Salvatore, Di Raimondo Paolo, di
Chierchiello Enrico, di Di Domenco Marcello, di Vargas Roberto, di Cangiano
Nicola. Appare allora evidente che solo in un’epoca ben distante da quella in cui
le conversazioni sono state intercettate, la Pubblica accusa ha potuto ricostruire
un significativo quadro probatorio che consentisse di esercitare fondatamente e
consapevolmente l’azione penale nei confronti degli odierni imputati […]».
In altri termini, il giudice dell’udienza preliminare, con la suddetta
motivazione, entrando nel merito del processo, ha chiarito che la precedente
sentenza aveva accertato la colpevolezza degli imputati proprio fino “al luglio
2004” in quanto «le intercettazioni in esame, per quanto significative, non
consentivano di ritenere dimostrata, all’epoca, in cui le conversazioni sono state
captate, con sufficiente gravità indiziaria, la perdurante operatività del gruppo
criminale. Solo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, intervenute ad anni
di distanza dalla captazione delle conversazioni in esame, hanno consentito di
arricchire il quadro probatorio a disposizione della Procura» sul quale, quindi,
imbastire il successivo processo (ossia quello odierno).
La suddetta motivazione è stata ribadita anche dalla Corte territoriale (pag.
10), sicchè, a fronte di una doppia conforme, le censure, dedotte, vanno
disattese sotto un duplice profilo:
a) in punto di diritto, perché la contestazione sulla base della quale furono
pronunciate le sentenze del 16/06/2007 e 30/11/2007, va ritenuta avente
natura “chiusa”;
b) in punto di fatto, perché, come hanno ampiamente argomentato entrambi
i giudici di merito, le suddette sentenze ebbero ad oggetto l’accertamento della
partecipazione dei ricorrenti al sodalizio criminoso fino al luglio 2004, mentre il
presente processo, ha ad oggetto la partecipazione dei ricorrenti all’associazione
per delinquere in epoca successiva ed esattamente fino all’aprile 2010.

9

Oreste che hanno inaugurato la propria collaborazione solo alla fine dell’anno

2.

LA CONTESTAZIONE SUCCESSIVA

Il presente processo, come si è detto, ha oggetto la partecipazione al
sodalizio criminoso di ZAGARIA Pasquale, ZAGARIA Carmine e FONTANA Michele
successiva alle predette sentenze del 2007, ed esattamente dal luglio 2004
all’aprile 2010.

2.1.

L’OPERATIVITÀ DEL CLAN SUCCESSIVAMENTE AL LUGLIO

2004

In relazione all’operatività del clan camorristico (di cui gli attuali ricorrenti

parte in posizione apicale), il giudice di primo grado (la cui decisione sul punto è
stata confermata, come si è detto, dalla Corte), ha individuato le fonti di prova
nei seguenti fatti:
a)

intercettazione ambientale del 06/03/2006 (n. 273/06) fra Zagaria

Pasquale e Zagaria Carmine, nel corso della quale i due parlano di affari
(chiaramente illeciti) per i quali le imprese aggiudicatarie avrebbero dovuto
versare il 15%: pag. 58;
b)

intercettazione del 13/04/2006 (n. 284-285), fra Zagaria Pasquale,

Zagaria Carmine e Fontana Pasquale, relativamente alla quale il giudice scrive
che si tratta di «un vero incontro al vertice del gruppo il cui contenuto vede sui
conteggi delle entrate a copertura degli stipendi degli affiliati»: pag. 83 ss;
c)

intercettazione telefonica del novembre 2006, fra Linetti Francesca e

Errante Anna (moglie e suocera di Zagaria Pasquale) nel corso della quale la
prima, riferendo alla madre Errante di essere rimasta infastidita dal
comportamento dei famigliari del marito Zagaria Pasquale, «si autodefinisce
l’anello debole che può provocare la rottura nella catena. Chiare sono le allusioni
alle attività economiche illecite della famiglia»: pag. 94 ss;
d) dichiarazioni dei collaboratori: Frongillo Michele (pag. 98), Di Caterino
Emilio (pag. 99), Fasano e Piccolo Francesco (pag. 103 ss), Ruffo Ciro (pag.
110), Russo Domenico (pag. 112), Laiso Salvatore (pag. 113), Chierchiello
Enrico (pag. 114 ss), Di Domenico Marcello (pag. 116), Vargas Roberto (pag.
117), Cangiano Nicola (pag. 117 ss); in relazione alle suddette dichiarazioni il
giudice così chiosa (pag. 119): «le numerosissime dichiarazioni raccolte, alcune
recentissime, non lasciano dubbi in merito al fatto che i procedimenti penali
celebrati a carico dei componenti del gruppo Zagaria, ed in particolare degli
indagati Zagaria Pasquale, Zagaria Carmine […] Fontana Michele o’ sceriffo, non
abbiano esplicato un effetto deterrente rispetto alla prosecuzione delle condotte
associative. Nonostante i periodi di detenzione che si sono succeduti, gli indagati
non hanno mai preso le distanze dalla “affari” del clan, che hanno curato
avvalendosi della collaborazione dei familiari ammessi ai colloqui e degli associati
con cui condividevano lo stato di detenzione [….]».

10

Zagaria Pasquale, Zagaria Carmine e Fontana Michele, sono stati ritenuti farne

A pag. 120 SS, il giudice, poi, ritorna sulle posizioni dei singoli imputati
(Zagaria Pasquale: da pag. 120 a pag. 125; Zagaria Carmine, da pag. 125 a
pag. 128; Fontana Michele, da pag. 128 a pag. 137) e, nel riesaminare e
valutare unitariamente tutti i singoli indizi (quelli di cui si è appena detto, oltre
ad altri relativi a ciascuno dei singoli imputati), chiarisce, ancora una volta, le
ragioni per le quali i suddetti imputati dovevano essere ritenuti responsabili di
aver fatto parte dell’associazione per delinquere anche successivamente al luglio
2004 e fino alla data della nuova contestazione (aprile 2010).

che ha disatteso, quindi, il motivo con il quale Zagaria Pasquale e Carmine
avevano sostenuto che la loro partecipazione al sodalizio criminoso era cessato
nel 2007 (pag. 11 sentenza impugnata).
In questa sede, sia Zagaria Pasquale (pag. 13 ss del ricorso) che Zagaria
Carmine (pag. 14 ss del ricorso) hanno contestato la decisione dei giudici di
merito, focalizzando le loro critiche su tre degli elementi indicati come riscontro
alla tesi accusatoria ossia: a) il provvedimento applicativo dell’art. 41 bis
ord.pen. a carico di Zagaria Pasquale; b) le dichiarazioni del collaboratore di
giustizia Chierchiello Enrico; c) l’intercettazione n° 5428 del 27/03/2009 (cfr
pag. 15 ss di entrambi i ricorsi in cui sono dedotti argomenti perfettamente
identici).
Al che deve replicarsi, innanzitutto, che, come si è visto, il compendio
probatorio indicato dal primo giudice, non è costituito da questi soli tre elementi,
ma da una messe di riscontri davvero imponente ed univoca che forma un
quadro accusatorio grave, preciso e concordante ex art. 192 cod. proc. pen.
In particolare, quanto al provvedimento applicativo dell’art. 41 bis ord.pen.
a carico di Zagaria Pasquale, su cui la difesa, in questo grado, tanto si è spesa,
va osservato che si tratta di uno dei numerosi elementi di prova che hanno
contribuito a formare il quadro probatorio e che, di certo, non può essere tenuto
in non cale solo perchè proveniente dal Ministro di Giustizia, perché si basa su
dati oggettivi entrati a far parte della dialettica processuale e sui quali la difesa
ha avuto modo di difendersi.
Pertanto, le censure riproposte con il presente ricorso, vanno ritenute
null’altro che un modo surrettizio di introdurre, in questa sede di legittimità, una
nuova valutazione di quegli elementi fattuali già ampiamente presi in esame da
entrambi i giudici di merito i quali, concordemente, con motivazione logica, priva
di aporie e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, hanno
puntualmente disatteso la tesi difensiva.
Di conseguenza, non essendo evidenziabile alcuna delle pretese incongruità,
carenze o contraddittorietà motivazionali dedotte dai ricorrenti, la censura,

11

Tale impianto accusatorio è stato confermato in toto dalla Corte territoriale

essendo incentrata tutta su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e,
quindi, di mero merito, va dichiarata infondata.
In altri termini, le censure devono ritenersi infondate in quanto la
ricostruzione effettuata dalla Corte e la decisione alla quale è pervenuta deve
ritenersi compatibile con il senso comune e con

«i limiti di una plausibile

opinabilità di apprezzamento»: infatti, nel momento del controllo di legittimità, la
Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga
effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la

compatibile con il senso comune Cass. n. 47891/2004 rv 230568; Cass.
1004/1999 rv 215745; Cass. 2436/1993 rv 196955.

2.2. IL REGIME SANZIONATORIO
Con i motivi sub 4.3. e 5.3. di cui alla presente parte narrativa, il difensore
di Zagaria Pasquale e Zagaria Carmine, ha dedotto la violazione dell’art. 1/1 lett.
b) bis n. 1 D.L. 92/2008 comv in L. 125/1998, per avere la Corte erroneamente
applicato il suddetto regime sanzionatorio, in luogo di quello previsto dalla L.
251/2005, nonostante non vi fosse alcuna prova della prosecuzione dell’attività
delittuosa successivamente all’entrata in vigore della L. 125/2008.
La suddetta doglianza va ritenuta infondata alla stregua di quanto si è
illustrato nei precedenti paragrafi.
L’assunto difensivo si basa sul presupposto che non vi sarebbe la prova della
prosecuzione dell’attività delittuosa sotto il nuovo e più severo regime di cui al
cit. D.L.
Al che deve ribadirsi che entrambi i giudici di merito hanno espressamente
confutato la suddetta tesi: in particolare la Corte territoriale, richiamando e
confermando la decisione di primo grado, ha scritto che «nel provvedimento
impugnato viene dato diffusamente conto degli elementi derivanti dalle
intercettazioni ambientali e telefoniche e dalle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia che provano la perdurante operatività del gruppo anche negli anni
2009-2010, non avendo lo stato detentivo degli imputati precluso i contatti con il
clan. All’uopo si richiamano le approfondite motivazioni contenute nella sentenza
gravata (in particolare alle pagg. 120 e segg) [….]» riportate supra al precedente
paragrafo.

3. VIOLAZIONE DELL’ART. 416 BI5/2 COD. PEN.
Il suddetto motivo di ricorso proposto dal solo Zagaria Carmine

(supra in

parte narrativa sub § 5.4.), attiene alla pretesa carenza motivazionale in ordine
al ruolo di promotore.
La censura è infondata.

12

giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia

Sul punto la Corte territoriale ha espressamente disatteso la medesima
doglianza adducendo come elementi di riscontro probatorio le dichiarazioni
Chierchiello e Vargas «riscontrate dalle conversazioni intercettate» dalle quali si
desumeva che l’imputato, con il fratello Pasquale concertava «decisioni
nevralgiche e fondamentali per l’esistenza del gruppo, dimostrando
un’autonomia gestionale e decisionale in posizione di sovra ordinazione rispetto
agli altri affiliati al clan [….] in particolare provvedeva a contabilizzare le entrate
estorsive provenienti dalla zona da loro controllata e a provvedere alla

in cui gli elementi probatori a carico del ricorrente sono ampiamente riportati,
analizzati e valutati dal giudice dell’udienza preliminare che, fondandosi su di
essi, confuta la tesi difensiva).
Pertanto, la doglianza (pag. 24 ss del presente ricorso), va disattesa in
quanto null’altro è che una mera riproposizione della stessa tesi difensiva
dedotta in entrambi i gradi del giudizio di merito ed ampiamente disattesa, in
modo conforme, da entrambi i giudici di merito con motivazione nella quale non
sono ravvisabili né vizi motivazionali (essendo fondata su precisi dati fattuali) né
violazioni di legge.

4.

RICORSO FABOZZI

La censura (supra in parte narrativa § 7), è manifestamente infondata per la
semplice ed assorbente ragione che, come emerge dalla sentenza impugnata,
l’imputato tentò di estorcere (in concorso con il Nobis ed il Martino) alla parte
offesa Terribile Alvino «una somma ulteriore rispetto al credito originario» (pag.
12 sentenza impugnata; pag. 190 ss della sentenza di primo grado in cui la
vicenda è ampiamente illustrata alla stregua dell’univoco compendio probatorio
costituito da intercettazioni telefoniche e dalle stesse dichiarazioni contraddittorie
rese dagli imputati, dalle quali si evince, appunto, che la soma richiesta al
Terribile, era stata di gran lunga superiore a quella di cui il medesimo era
debitore, come scrive il giudice a pag. 210 ss).
Pertanto, il ricorso, fondato, in parte, sulla mera illustrazione di notori
principi di diritti e, in parte, sulla mera riproposizione, in punto di fatto, della tesi
difensiva, va ritenuto manifestamente infondato essendo generico ed aspecifico.

5. RICORSO MARTINO

5.1.

VIOLAZIONE DELL’ART.

129

COD. PROC. PEN.

per non avere la Corte,

nonostante la rinuncia ai motivi di appello, accertato se vi fossero o meno le
condizioni per confermare la condanna per il delitto di cui all’art. 393 cod. pen.
(capo sub d), nonostante la parte offesa non avesse proposto alcuna querela.

13

redistribuzione dei redditi» (pag. 11; pag. 126 ss della sentenza di primo grado

La doglianza è manifestamente infondata alla stregua del seguente
consolidato principio di diritto che, in questa sede, va ribadito, secondo il quale:
«è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione del giudice di
appello che, rilevata la rinuncia dell’imputato ai motivi di appello dichiari
l’inammissibilità sopravvenuta dei motivi oggetto di rinuncia, omettendone
l’esame ai fini dell’applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen., considerato che la
rinuncia ha effetti preclusivi sull’intero svolgimento processuale, ivi compreso il
giudizio di legittimità. Pertanto, poiché ex art. 597, comma primo, cod. proc.

del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti,
una volta che essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello
prenderli in considerazione, né può farlo il giudice di legittimità sulla base di
un’ipotetica implicita revoca di tale rinuncia, stante l’irrevocabilità di tutti i negozi
processuali, ancorché unilaterali»: Cass. 2791/2015 Rv. 262682; Cass.
3593/2011 Rv. 249269.

5.2.

VIOLAZIONE DELL’ART.

7

L.

203/1991: ad avviso della difesa, la Corte aveva

ritenuto la sussistenza della suddetta aggravante «senza soffermarsi sulla
effettiva natura e portata della condotta che sarebbe stata tenuta dal prevenuto
e, soprattutto, sull’effetto che la stessa avrebbe sortito sulla presunta persona
offesa».
L’aggravante in questione è stata contestata e ritenuta relativamente al
reato di tentata estorsione a danno di Capotosto Giovanni, di cui al capo sub c)
dell’imputazione.
La vicenda, nei suoi particolari fattuali, si legge a pag. 172 ss della sentenza
di primo grado in cui il giudice, alla stregua di precisi riscontri probatori
(intercettazioni telefoniche; dichiarazioni della parte offesa che, benché avesse
tentato di ridimensionare il fatto, aveva dichiarato di “ben conoscere i soggetti”
che gli avevano fatto la richiesta estorsiva «precisando di avere saputo da altri
suoi clienti che il Nobis ed il Martino, tra loro cognati, “sono legati alla criminalità
organizzata”»: pag. 187) ritenne la sussistenza della suddetta aggravante
perché il ricorrente (insieme al Nobis) formulò la richiesta estorsiva “quale
referente di un più vasto gruppo criminale operante nella zona” (pag. 189 190), sicchè vi era stato l’utilizzo della forza d’intimidazione promanante dal clan
territoriale di cui il Capostosti era bene consapevole.
La suddetta motivazione è stata confermata in pieno dalla Corte territoriale
(pag. 12) che, quindi, ha disatteso il motivo di appello con il quale la difesa
aveva dedotto l’insussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 7 legge
cit.

14

/

pen., l’effetto devolutivo dell’impugnazione circoscrive la cognizione del giudice

In questa sede, la difesa non ha fatto altro che riproporre la medesima
doglianza ma in modo del tutto generico ed aspecifico, sicchè la medesima non
può che essere ritenuta inammissibile basandosi, da una parte, su notorie
massime giurisprudenziali, e dall’altra, su una versione alternativa della vicenda
processuale tendente a sminuire la valenza delle prove addotte da entrambi i
giudici di merito.

5.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 62 N. 4 COD. PEN. per non avere la Corte motivato in

al delitto di cui al capo sub c) (tentata estorsione), della suddetta attenuante, in
quanto l’oggetto della pretesa era limitato ad alcune centinaia di euro ed in
particolare legato ad un sovrapprezzo pagato dall’imputato a seguito di una
partita di piantine di ortaggi dalla presunta persona offesa.
La doglianza è manifestamente infondata perché, come risulta dalla
sentenza impugnata, l’imputato aveva rinunciato «a tutti i motivi di gravame ad
eccezione di quelli relativi alla determinazione della pena ed al riconoscimento
dell’aggravante di cui all’art. 7 L. 203/91».
Da un controllo dell’atto di appello, è risultato che l’imputato aveva dedotto
sette motivi di appello di cui il quinto, relativo, appunto, al riconoscimento
dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen.
Alla riduzione della pena “entro i minimi edittali”, la difesa aveva dedicato il
settimo motivo unitamente alla richiesta delle attenuanti generiche.
Avendo, pertanto, l’imputato rinunciato «a tutti i motivi di gravame ad
eccezione di quelli relativi alla determinazione della pena» ne consegue, che
correttamente, la Corte non si è pronunciata sulla richiesta dell’attenuante di cui
all’art. 62 n. 4 cod. pen. in quanto implicante necessariamente anche un giudizio
di merito ed una valutazione sull’estorsione di cui al capo sub c) relativamente
alla quale l’imputato aveva rinunciato al motivo di appello (motivo sub 1) con il
quale aveva chiesto di essere prosciolto.

5.4. VIOLAZIONE DELL’ART. 62 BIS COD. PEN. per non avere la Corte motivato in
modo logico e congruo in ordine alla mancata concessione delle chieste
attenuanti generiche.
La doglianza è manifestamente infondata in quanto la Corte, nel negarle, ha
fondato il proprio giudizio sulla «natura oggettivamente grave e allarmante della
condotta posta in essere, unitamente all’assenza di elementi positivi di
valutazione»: tanto basta per ritenere la motivazione esente da manifesta
illogicità, e, pertanto, insindacabile in cassazione (Cass., Sez. 6, n. 42688 del
24/9/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio affermato da questa
Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il

15

relazione all’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento, con riferimento

diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione
tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti,
ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque
rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2,
n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010,
Giovane, Rv. 248244).

6. RICORSO DEL PROCURATORE GENERALE

Infatti, la motivazione addotta dalla Corte territoriale in ordine all’esclusione
dell’applicazione dell’art. 63/4 cod. pen., si basa su precisi elementi fattuali
(asprezza della pena; corretto comportamento processuale) di puro merito,
rientranti nella valutazione di cui all’art. 133 cod. pen. e che, in quanto
espressione del potere discrezionale del giudice – correttamente e
motivatamente esercitata – non è censurabile in sede di legittimità non potendosi
ravvisare il vizio dedotto dal ricorrente.

7. In conclusione, le impugnazioni di Zagaria Pasquale, Zagaria Carmine e
Fontana Michele devono rigettarsi, nel mentre vanno ritenute inammissibili
quelle di Fabozzi Vincenzo, Martino Francesco e del Procuratore Generale per
manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto
dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese
processuali, nonché dei soli Fabozzi e Martino al versamento in favore della
Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa
emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in C 1.500,00 ciascuno.
P.Q.M.
DICHIARA
inammissibili i ricorsi di Martino Francesco, Fabozzi Vincenzo e del Procuratore
Generale presso la Corte di Appello di Napoli
RIGETTA
i ricorsi di Zagaria Pasquale, Zagaria Carmine e Fontana Michele
CONDANNA
Martino Francesco, Fabozzi Vincenzo, Zagaria Pasquale, Zagaria Carmine e
Fontana Michele al pagamento delle spese processuali ed i soli Martino
Francesco, Fabozzi Vincenzo anche al pagamento della somma di C 1.500,00 in
favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 20/04/2016

Il ricorso è inammissibile.

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