Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20795 del 15/04/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 20795 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 15/04/2016

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Scaccioni Sauro, n. a Prato il 03.02.1958,
rappresentato e assistito dall’avv. Luigi De Rosa, d’ufficio, avverso la
sentenza della Corte d’appello di Firenze, prima sezione penale, n.
1446/2014, in data 24.11.2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
preso atto della ritualità delle notifiche e degli avvisi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Enrico
Delehaye che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
sentita la discussione del difensore, avv. Luigi De Rosa, che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1

1. Con sentenza in data 25.10.2013, il giudice per l’udienza
preliminare presso il Tribunale di Firenze, in esito a giudizio
abbreviato, dichiarava Anania Salvatore e Scaccioni Sauro
responsabili dei reati di associazione a delinquere finalizzata alla
commissione di furti e rapine (capo A), tre tentate rapine aggravate
in concorso (capi E, F, H), un porto di trincetti (capo G), due tentati

furti aggravati (capi I, L), una ricettazione (capo M) nonché, il solo
Anania, di un’ulteriore rapina aggravata in concorso (capo D) e, per
l’effetto, li condannava alle seguenti pene:
– l’Anania, ad anni cinque di reclusione ed euro 4.000,00 di multa, con
interdizione perpetua dai pubblici uffici;
-lo Scaccioni, ad anni tre di reclusione ed euro 2.000,00 di multa, con
interdizione temporanea dai pubblici uffici.
2. A seguito di proposta impugnazione, la Corte d’appello di Firenze,
con sentenza in data 24.11.2014, in parziale riforma della pronuncia
di primo grado, assolveva gli imputati dal reato di cui al capo A) per
insussistenza del fatto e rideterminava le pene nei confronti dei due
sunnominati imputati nelle seguenti misure:
-anni quattro, mesi sei di reclusione ed euro 3.800,00 di multa per
Anania;
– anni due, mesi sei di reclusione ed euro 1.800,00 di multa per
Scaccioni.
3. Avverso la sentenza di secondo grado, nell’interesse di Anania
Salvatore e di Scaccioni Sauro, vengono proposti distinti ricorsi per
cassazione.
All’odierna udienza pubblica veniva separata la posizione dell’Anania
per difetto di notifica al difensore.
4. Ricorso nell’interesse di Scaccioni Sauro.
Lamenta il ricorrente:
-violazione di legge e vizio di motivazione in ordine ai reati ascritti ai
capi E) ed F) della rubrica (primo motivo);
– violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al diniego di
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (secondo
motivo).
4.1. In relazione al primo motivo, assume il ricorrente come non
possa ritenersi raggiunta, con riferimento ai reati di cui ai capi E) ed

2

F) della rubrica, la prova del requisito dell’univocità degli atti a
compiere delle rapine sulla base dei ritenuti atti preparatori, non
rivelando gli stessi, in modo inequivoco, che il ricorrente (ed i
coimputati) intendessero perseguire tale scopo. Invero, l’utilizzo nei
dialoghi intercettati del verbo fare, l’uso di un travisamento ovvero la
circostanza che il coimputato Gravina avesse con sé un trincetto e dei
guanti non pare conferire carattere univoco a tali atti, residuando il

ragionevole dubbio in ordine alla finalità perlustrativa degli accessi
eseguiti in occasione degli episodi oggetto di contestazione. D’altra
parte, la lettura data dalla Corte di tali episodi pare in rapporto
distonico con il contenuto delle conversazioni intercettate, così da
inficiare la motivazione della sentenza anche sotto il profilo della sua
logicità.
4.2. In relazione al secondo motivo, si censura la sentenza impugnata
che ha omesso ogni apprezzamento sulla sussistenza e rilevanza dei
fattori attenuanti indicati nei motivi d’impugnazione e documentati
nella memoria difensiva depositata nel corso dell’udienza del
25.10.2013, in tal modo eludendo sostanzialmente il motivo di
gravame proposto dall’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato oltre che evocativo di
censure in fatto non consentite in sede di legittimità e, come tale,
risulta inammissibile.
2. Va preliminarmente evidenziato come, secondo la giurisprudenza
della Suprema Corte (cfr., Sez. 6, sent. n. 10951 del 15/03/2006,
dep. 29/03/2006, Casula, Rv. 233708), anche alla luce della nuova
formulazione dell’art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen.,
dettata dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di
legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato
deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”,
ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante
ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente
illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni
non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della
logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da

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insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da
inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non
logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una
autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro
rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal
giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da
vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione

che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può
limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti del processo” non
esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non
correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare,
con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale
o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta
incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento
impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati,
nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione,
indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo
decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).
2.1. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal
ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari
accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione
complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano
astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di
quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di
segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che
– per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e
convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del
giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e
comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del
provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo
richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o
dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di
disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al

(nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente,

suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere
manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice
di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla
persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente
illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del
ricorrente concernenti “atti del processo”.
2.2. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una

valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla
reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della
“resistenza” logica del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo
sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a
quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente
plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste
operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice
del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione
assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la
motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le
parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre
uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art.
606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del
2006, art. 8, “mentre non è consentito dedurre il travisamento del
fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità si sovrapporre
la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta
nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di
travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di
merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non
esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello
reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli
elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione,
ma di verificare se detti elementi sussistano” (Sez. 5, sent. n. 39048
del 25/09/2007, dep. 23/10/2007, Casavola e altri, Rv. 238215).
2.3. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la

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revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica
del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla
valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla
competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema
Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una
diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa.
Né, infine, la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle

prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento
impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli
elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento
impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di
legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole
della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza
espositiva (Sez. 6, sent. n. 40609 del 01/10/2008, dep. 30/10/2008,
Ciavarella, Rv. 241214).
3. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.
3.1. Questa Corte Suprema, al riguardo, ha già avuto modo
reiteratamente di chiarire che “ai fini della punibilità del tentativo,
rileva l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento
dell’obiettivo delittuoso nonché la univocità della loro destinazione, da
apprezzarsi con valutazione “ex ante” in rapporto alle circostanze di
fatto ed alle modalità della condotta, al di là del tradizionale e
generico “discrimen” tra atti preparatori e atti esecutivi” (Sez. 5,
sent. n. 7341 del 21/01/2015, dep. 18/02/2015, Sciuto, Rv. 262768)
e, ancora, che “per la configurabilità del tentativo rilevano non solo
gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur
classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che
l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni
dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l’azione abbia la significativa
probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà
commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti
dalla volontà del reo” (Sez. 2, sent. n. 46776 del 20/11/2012, dep.
04/12/2012, D’Angelo e altri, Rv. 254106; v. anche, Sez. 2, sent. n.
40912 del 24/09/2015, dep. 12/10/2015, Amatista, Rv. 264589).
Infatti, anche un cd. “atto preparatorio” può integrare gli estremi del
tentativo punibile, purché sia idoneo e diretto in modo non equivoco
alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla

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base di una valutazione – per l’appunto ex ante – e in relazione alle
circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale
risultato sia univocamente diretto.
3.2. In realtà, la “disputa” sulla rilevanza dei soli atti cd. esecutivi
ovvero anche di quelli cd. preparatori perde di significato una volta
correttamente inteso il requisito della idoneità degli atti, il quale deve
essere valutato in termini oggettivi, nel senso che gli atti considerati,

devono possedere – come nella fattispecie – l’intrinseca attitudine a
denotare il proposito criminoso perseguito rivelando la sua attuazione
(Sez. 6, sent. n. 25065 del 17/02/2011, dep. 22/06/2011, Alfano e
altri, Rv. 250421).
3.3. La sentenza impugnata dimostra di aver fatto buon governo di
questi principi e corretta risulta la qualificazione giuridica attribuita
dai giudici del merito ai fatti contestati nel caso di specie.
Infatti, proprio la situazione adeguatamente descritta nella sentenza
impugnata porta ragionevolmente a ritenere i per le condizioni di
tempo e di luogo, nonché per le circostanze di fatto rilevate dal
contenuto delle conversazioni ambientali captate, che l’iter dell’azione
criminosa era già in corso così correttamente portando a ritenere che
la azioni stesse avessero già raggiunto la soglia del tentativo.
Avverso queste conclusioni il ricorso evita di “misurarsi” limitandosi
ad offrire una lettura alternativa dei fatti, del tutto impedita nella
presente sede di legittimità.
4. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso.
I giudici di secondo grado negano allo Scaccioni le circostanze
attenuanti generiche in ragione della

“forte disinvoltura nella

commissione di diversi gravi reati in breve arco di tempo”

e

dell’essersi avvalso della facoltà di non rispondere evitando così di
fornire un minimo apporto collaborativo e di offrire alcun segno di
resipiscenza.
Nella fattispecie, la mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche risulta giustificata da motivazione esente da manifesta
illogicità, come tale insindacabile in sede di legittimità (Sez. 6, n.
42688 del 24/09/2008, dep. 14/11/2008, Caridi e altri, Rv. 242419),
anche considerato il principio affermato da codesta Suprema Corte
secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il

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esaminati nella loro oggettività e nel contesto in cui si inseriscono,

diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in
considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle
parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento
a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o
superati tutti gli altri da tale valutazione (cfr., Sez. 2, n. 3609 del
18/01/2011, dep. 01/02/2011, Sermone e altri, Rv. 249163; Sez. 6,
n. 34364 del 16/06/2010, dep. 23/09/2010, Giovane e altri, Rv.

5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc.
pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una
somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si
determina equitativannente in euro 1.500,00

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 alla Cassa
delle ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 15.4.2016

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Dott. Andrea Pellegrino

Dott.ssa Matilde Cammino

248244).

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