Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20792 del 15/04/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 20792 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 15/04/2016

SENTENZA
Sui ricorsi proposti rispettivamente nell’interesse di Flaviano
Antonino, n. a Melito di Porto Salvo il 16.02.1983, rappresentato e
assistito dall’avv. Marino Maurizio Punturieri, di fiducia, e di Modaffari
Francesco, n. a Reggio Calabria il 29.12.1991, rappresentato e
assistito dall’avv. Pietro Modaffari e dall’avv. Pier Paolo Emanuele, di
fiducia, avverso la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria,
n. 1384/2014, in data 05.02.2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
preso atto della ritualità delle notifiche e degli avvisi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Enrico
Delehaye che ha concluso chiedendo:
per Modaffari Francesco, il rigetto del ricorso;

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per Flaviano Antonino, l’inammissibilità del ricorso;
sentita la discussione del difensore, avv. Pietro Modaffari, che ha
concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso di Modaffari Francesco.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 09.07.2014, il giudice per le indagini

preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria, all’esito di giudizio
abbreviato, dichiarava Flaviano Antonino e Modaffari Francesco
responsabili dei reati di tentata estorsione aggravata in concorso
(capo A) e di illecita cessione di sostanza stupefacente (capo B) e,
ritenuto il vincolo della continuazione, li condannava alla pena di anni
quattro di reclusione ed euro 4.000,00 di multa ciascuno, con le pene
accessorie e le misure di sicurezza di legge.
2. A seguito di proposta impugnazione, la Corte d’appello di Reggio
Calabria, con sentenza in data 05.02.2015, rideterminava la pena nei
confronti di entrambi nella misura di anni due, mesi dieci di reclusione
ed euro 2.200,00 di multa ciascuno, con revoca dell’interdizione dai
pubblici uffici e conferma nel resto della pronuncia di primo grado.
3. Avverso la sentenza di secondo grado, Flaviano Antonino e
Modaffari Francesco propongono distinti ricorsi per cassazione
chiedendone l’annullamento.
4. Ricorso di Flaviano Antonino.
Lamenta il ricorrente:
-violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento
all’affermazione della penale responsabilità per i capi A) e B)
d’imputazione (formale motivo unico).
Si assume:
– la mancanza di prova della causa illecita (cessione di stupefacente)
della somma da restituire, se non le affermazioni rese in querela dalla
persona offesa, portatrice di un interesse in causa;
-la mancanza di prova in ordine all’asserito stato di prostrazione e/o
di timore suscitato alla persona offesa posto che le richieste di
“restituzione” non risultano mai aver ingenerato timore ovvero essere
state foriere di violenza o minaccia;
-la mancanza di prova in ordine alla pregressa esistenza di rapporti
tra le parti per la cessione di stupefacenti, potendosi semmai la

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condotta inquadrare in quella prevista e punita dall’art. 393 cod.
pen..
Ulteriore profilo di doglianza afferisce allo stereotipato rigetto del
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed alla
mancanza di motivazione in merito alla richiesta di esclusione e/o di
riduzione della sanzione accessoria di cui all’art. 85 d.P.R. n.
309/1990.

5. Ricorso di Modaffari Francesco.
Lamenta il ricorrente:
– violazione di legge in relazione agli artt. 63 e 526 cod. proc. pen.
(primo motivo);
– vizio di motivazione in merito alle dichiarazioni rese dalla persona
offesa (secondo motivo);
-violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 73,
comma 5 d.P.R. n. 309/1990 (terzo motivo);
– violazione di legge in relazione all’art. 62 bis cod. pen. (quarto
motivo).
5.1. In relazione al primo motivo, si evidenzia come la Corte
territoriale, pur accogliendo l’eccezione di inutilizzabilità delle
dichiarazioni rese dalla persona offesa Hallal Oualid, in quanto
indagato in procedimento collegato che, come tale, non poteva essere
sentito nelle vesti di persona informata sui fatti, aveva considerato
utilizzabili le dichiarazioni rese dal medesimo oggetto di “denuncia
orale” raccolta dalla polizia giudiziaria: nell’atto, risulta come la
polizia giudiziaria avesse formulato delle domande stimolando le
dichiarazioni della persona offesa e finendo in pratica per far
assumere all’atto la veste di verbale di interrogatorio di persona
informata sui fatti, come tale, per le ragioni dinanzi esposte, non
utilizzabile.
5.2. In relazione al secondo motivo, si censura la decisione della
Corte territoriale che aveva omesso di considerare come la persona
offesa avesse indicato in un primo momento solo tale “Nino” quale
soggetto che avrebbe fornito lo stupefacente e, solo in seguito, vi
avrebbe aggiunto anche la figura del Modaffari: l’omessa
considerazione del dato di contrasto interno alla fonte di accusa, vale
ad inficiare il percorso logico-argonnentativo della sentenza
impugnata.

3

5.3. In relazione al terzo motivo, si censura la decisione impugnata
che non ha correttamente applicato il disposto dell’art. 73, comma 5
d.P.R. n. 309/1990, facendo riferimento al solo parametro
quantitativo senza alcun richiamo agli altri elementi caratterizzanti il
fatto, quali le modalità dell’azione ed il contesto di mercato che
certamente si connota come attività di piccolo spaccio coinvolgendo
somme modeste (euro 2.000,00).

che, nel negare le circostanze attenuanti generiche, aveva omesso di
prendere in considerazione l’incensuratezza del ricorrente e la sua
giovanissima età.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi, in parte evocativi di non consentite censure in fatto, sono
manifestamente infondati e, come tali, risultano inammissibili.
2. Osserva preliminarmente il Collegio che la peculiarità del giudizio di
legittimità consiste nel fatto che, che oggetto di esso, è una
proposizione metalinguistica, ossia “il contrasto” tra una sentenza (o
un’ordinanza) ed una disposizione di legge e, nel valutare il dedotto
contrasto tra il provvedimento impugnato e l’art. 606 lett. e) cod.
proc. pen., la Suprema Corte deve solo verificare che la decisione del
giudice del merito sia stata congruamente e logicamente giustificata
sia nel sillogismo deduttivo che abbia condotto all’applicazione di una
determinata norma a un fatto accertato sia nelle argomentazioni
sostanziali che sorreggono la ricostruzione del fatto medesimo (cfr.,
Sez. 5, sent. n. 27335 del 13/06/2007, dep. 12/07/2007, D’Auria ed
altri, Rv. 237442; Sez. 5, sent. n. 22340 del 08/04/2008, dep.
04/06/2008, Bruno, Rv. 240491; Sez. 2, sent. n. 13927 del
04/03/2015, dep. 02/04/2015, Amaddio e altri).
2.1. Invero, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (cfr.,
Sez. 6, sent. n. 10951 del 15/03/2006, dep. 29/03/2006, Casula, Rv.
233708), anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 606,
comma primo lett. e) cod. proc. pen., dettata dalla L. 20 febbraio
2006 n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso
giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare
che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente

d

5.4. In relazione al quarto motivo, si censura la sentenza impugnata

idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base
della decisione adottata; b) non “manifestamente illogica”, ovvero
sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da
evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non
internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili
incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le
affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile”

dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il
profilo logico la motivazione (nell’affermare tale principio, la Corte ha
precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale
incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti del
processo” non esplicitamente presi in considerazione nella
motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve
invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento,
l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che
risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento
impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati,
nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione,
indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo
decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).
2.2. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal
ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari
accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione
complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano
astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di
quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di
segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che
– per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e
convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del
giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e
comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del
provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo

;

con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o

richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o
dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di
disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al
suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere
manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice
di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla

illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del
ricorrente concernenti “atti del processo”.
2.3. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una
valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla
reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della
“resistenza” logica del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo
sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a
quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente
plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste
operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice
del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione
assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la
motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le
parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre
uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art.
606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del
2006, art. 8, “mentre non è consentito dedurre il travisamento del
fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità si sovrapporre
la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta
nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di
travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di
merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non
esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello
reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli

((

persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente

elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione,
ma di verificare se detti elementi sussistano” (Sez. 5, sent. n. 39048
del 25/09/2007, dep. 23/10/2007, Casavola e altri, Rv. 238215).
2.4. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la
revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica
del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla
valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla

Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una
diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa.
Né la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o
dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento
impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli
elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento
impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di
legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole
della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza
espositiva (Sez. 6, sent. n. 40609 del 01/10/2008, dep. 30/10/2008,
Ciavarella, Rv. 241214).
2.5. Il tutto considerando che, in ordine alle eventuali omesse
valutazioni e carenti apprezzamenti, la decisione di merito non è
tenuta a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle
,parti, pubblica o privata, e a prendere in esame dettagliatamente
tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, come
avvenuto nella specie, anche attraverso una valutazione globale di
quelle deduzioni e risultanze, sia individuabile una spiegazione, logica
ed adeguata, delle ragioni del convincimento, con ciò dimostrando
che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi
considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche
se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con
la decisione adottata (Sez. 4, sent. n. 26660 del 13/05/2011, dep.
07/07/2011, Caruso e altro, Rv. 250900).
3. Fermo quanto precede, rileva il Collegio come la Corte territoriale,
con motivazione logica e congrua abbia puntualmente dato conto
degli elementi che l’hanno portata ad affermare la penale
responsabilità degli imputati in relazione ai reati loro ascritti.
4. Ricorso di Flaviano Antonino.

f(

competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema

Manifestamente infondato – ed in parte anche evocativo di non
consentite censure in fatto – è l’unico motivo di ricorso, in tutte le
diverse articolazioni proposte.
4.1. Con un primo profilo, si denuncia l’illegittima valutazione delle
dichiarazioni della persona offesa.
In materia, il Collegio condivide la consolidata giurisprudenza di
legittimità secondo cui le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod.

proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le
quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento
dell’affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da
idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e
dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve
essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono
sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone; inoltre, nel caso in
cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere
opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi
(Sez. U, sent. n. 41461 del 19/07/2012, dep. 24/10/2012, Bell’Arte
ed altri, Rv. 253214; Sez. 2, sent. n. 43278 del 24/09/2015, dep.
27/10/2015, Manzini, Rv. 265104).
Dette conclusioni appaiono tanto più giustificate se, come nella
fattispecie, la persona offesa non si sia costituita parte civile, dal
momento che, in tal caso, il valore delle dichiarazioni rese non
subisce alcuna attenuazione, essendo il proprio coinvolgimento nel
fatto assai più sfumato e potendosi parificare detta posizione a quella
di qualunque altro dichiarante non coinvolto nel fatto a ragione della
totale assenza di interessi di carattere patrimoniale.
Peraltro, quand’anche si volesse ritenere che pure la persona offesa
non costituita parte civile debba soggiacere ad un controllo di
attendibilità particolarmente penetrante, finalizzato ad escludere la
manipolazione dei contenuti dichiarativi, è altrettanto vero che la
giurisprudenza di legittimità, anche quando prende in considerazione
la possibilità di valutare l’attendibilità estrinseca della testimonianza
dell’offeso attraverso la individuazione di precisi riscontri, si esprime
in termini di “opportunità” e non di “necessità”, lasciando al giudice di
merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di
controllo della attendibilità nel caso concreto.
In tal senso, le Sezioni unite hanno infatti affermato che «può essere

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opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi
qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia,
perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui
soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità
dell’imputato» (conformi, Sez. 1, sent. n. 29372 del 24/06/2010,
dep. 27/07/2010, Stefanini, Rv. 248016; Sez. 6, sent. n. 33162 del
03/06/2004, dep. 02/08/2004, Patella, Rv. 229755).

legittimità l’affermazione secondo la quale la valutazione della
attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione
di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio
motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede
di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste
contraddizioni (v.,

ex plurimis,

Sez. 6, sent. n. 27322 del

14/04/2008, dep. 04/07/2008, De Ritis e altri, Rv. 240524; Sez. 3,
sent. n. 8382 del 22/01/2008, dep. 25/02/2008, Finazzo, Rv.
239342; Sez. 6, sent. n. 443 del 04/11/2004, dep. 13/01/2005,
Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, sent. n. 3348 del 13/11/2003, dep.
29/01/2004, Pacca, Rv. 227493; Sez. 3, sent. n. 22848 del
27/03/2003, dep. 23/05/2003, Assenza, Rv. 225232; da ultimo, Sez.
2, sent. n. 4100 del 12/01/2016, dep. 12/01/2016, Cadoni ed altro).
4.2. Con un secondo profilo, si censura la sentenza impugnata
assumendo la mancanza di prova in ordine alla condotta di
intimidazione in danno della persona offesa.
La sentenza, sul punto, rende ampia e giustificata motivazione
riconoscendo come, difformemente da quanto sostenuto dal
ricorrente, “… l’attività di intimidazione è stata acquisita direttamente
dai carabinieri, i quali, informati da Hallal che la sera del 5.12.2013 i
due odierni imputati si sarebbero recati nuovamente a casa sua per
reclamare l’adempimento del debito, si appostarono vicino la porta
dell’appartamento del cittadino extracomunitario ed ebbero modo di
udire la richiesta di denaro fatta da costoro in modo particolarmente
fermo e minaccioso (“… allora, che li hai i soldi ? Siamo arrivati a
giorno 5, sono passati tanti giorni non è che possiamo aspettare
ancora !!!). Di fronte alle parole di Hallal, che diceva di non avere
ancora la disponibilità di quel denaro, i due replicavano dicendo “…
vediamo di finirla, qua e subito che è meglio per tutti”, frase che

‘li

Peraltro, costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di

induceva i militari ad intervenire, per impedire che quelle minacce
potessero essere messe in atto con un’aggressione fisica … Alla luce
del contenuto della denuncia e dell’episodio di cui ebbero modo di
assistere i carabinieri, il quale si presenta come uno sviluppo
perfettamente coerente con il racconto contenuto nella denuncia
sporta da Ha/la! il 4.1.2013, non residua alcun dubbio sul fatto che le
condotte messe in atto dai due odierni imputati siano da qualificare

come vero e proprio tentativo di estorsione, in quanto concretizza tisi
in atti intimidatori finalizzati al conseguimento del profitto ingiusto
costituito dal prezzo della sostanza stupefacente ceduta al cittadino
extracomunitario …” (v. pag. 11 della sentenza impugnata).
4.3. Con un terzo profilo, si censura la sentenza impugnata che ha
omesso di inquadrare la fattispecie di cui al capo A) nella figura di
reato prevista e punita dall’art. 393 cod. pen..
4.3.1. E’ noto che la linea di demarcazione tra il reato di estorsione e
quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è attualmente molto
dibattuta nella stessa giurisprudenza di legittimità.
Invero, ritiene il Collegio che, in generale, partendo dall’ovvia
considerazione che i due reati si differenzino tra loro in primo luogo in
relazione all’elemento psicologico posto che nel primo caso il reo mira
a conseguire un profitto essendo ragionevolmente convinto di
esercitare un suo diritto o di concretizzare una pretesa azionabile in
via giudiziaria mentre nell’estorsione egli persegue il conseguimento
di un profitto nella consapevolezza di non averne diritto (cfr., Sez. 2,
sent. n. 22935 del 29/05/2012, dep. 12/06/2012, Di Vuono e altro,
Rv. 253192), altro elemento di differenza strutturale vada
individuato nella materialità della condotta in linea con quanto
affermato dalla Suprema Corte con la sentenza della sezione sesta n.
32721 del 21/06/2010, dep. 07/09/2010, Hamidovic e altro, Rv.
248169 secondo cui “ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario
delle proprie ragioni ed estorsione nel caso che il soggetto possa far
valere il suo diritto dinanzi all’autorità giudiziaria, occorre avere
riguardo al grado di gravità della condotta violenta o minacciosa che,
se manifestata in modo gratuito o sproporzionato rispetto al fine,
ovvero tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima, integra gli
estremi del più grave delitto di estorsione” (nello stesso sostanziale
senso, v. Sez. 1, sent. n. 32795 del 02/07/2014, dep. 23/07/2014,

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Donato, Rv. 261291; Sez. 6, sent. n. 17785 del 25/03/2015, dep.
28/04/2015, Pipitone, Rv. 263255).
4.3.2. Ritiene il Collegio, infatti, che il richiamato orientamento,
seppure messo in dubbio da altro affermatosi in senso più restrittivo
(cfr., Sez. 2, sent. n. 51433 del 04/12/2013, dep. 19/12/2013, PM e
Fusco, Rv. 257375; Sez. 2, sent. n. 705 del 01/10/2013, dep.
10/01/2014, Traettino, Rv. 258071; Sez. 2, sent. n. 42940 del

25/09/2014, dep. 14/10/2014, Conte, Rv. 260474) che valorizza la
differenza tra i due reati solo esclusivamente sulla base del diverso
dolo, sia da privilegiare perché esso dà adeguata configurazione
giuridica al caso in cui la richiesta, sebbene solo apparentemente né
violenta né minacciosa, provenga da soggetti che, grazie alla
notorietà di cui godono nell’ambiente di riferimento per il loro spiccato
carisma criminale incutono di per sé timore tale da esercitare nei
confronti della persona offesa una vera e propria vis cui resisti non
potest. L’esercizio di una forza coercitiva di tale fatta esclude, a
giudizio del Collegio, la possibilità di ricorrere al delitto di esercizio
arbitrario delle proprie ragioni essendo la forza di intimidazione
esercitata sul soggetto nei confronti del quale si vanta il diritto così
forte e penetrante da esautorare di fatto la capacità di quest’ultimo di
resistere, di talchè in tal caso si potrebbe dire che le modalità di
esercizio del diritto risultano gn concreto straordinariamente più gravi
rispetto alla violenza e minaccia di cui parla la legge penale allorchè
descrive le condotte del reato di ragion fattasi.
4.3.3. Tale conclusione, peraltro, è – nella fattispecie – tanto più da
avallare tenuto conto della decisività dell’elemento rappresentato
dalla presenza di una causa illecita (pagamento di sostanza
stupefacente).
Invero, per consolidato insegnamento della giurisprudenza di
legittimità, integrano il delitto di estorsione, le violenze o minacce
esercitate per ottenere il pagamento di una fornitura di sostanze
stupefacenti già eseguita (cfr., ex multis, Sez. 6, sent. n. 1672 del
20/12/2013, dep. 15/01/2014, Do’ e altri, Rv. 258284): di tal che, la
causa illecita per contrarietà al buon costume di tale contratto,
comporta non solo l’irripetibilità ex art. 2035 cod. civ. della
prestazione eventualmente eseguita, ma – a maggior ragione l’impossibilità di adire il giudice per ottenere l’adempimento coattivo o

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(come nel caso in oggetto) per escutere o ritenere la garanzia
prestata dall’acquirente. Da qui la conclusione tratta dalla Corte
territoriale secondo cui “… con riguardo alla qualifica della condotta di
chi costringe l’acquirente della sostanza stupefacente a pagare il
corrispettivo, la finalità illecita dell’agire dell’acquirente non soltanto
non elide la rilevanza penale della condotta, ma non fa neppure venir
meno gli elementi costitutivi della figura dell’estorsione, e ciò per la

evidente ragione che l’attività di intimidazione compiuta per ottenere
l’esecuzione di un contratto illecito non fa che sovrapporsi alla illiceità
della originaria prestazione, aggiungendo un ulteriore profilo di
ingiustizia del profitto conseguito dall’agente, ingiustizia
rappresentata dall’aver costretto l’acquirente ad adempiere ad
un’obbligazione che invece avrebbe potuto rifiutare a causa della
illiceità del contratto di cessione”.
4.4. Con un quarto profilo, si censura la sentenza impugnata in
relazione al rigetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche ed alla mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di
revoca o riduzione della sanzione accessoria di cui all’art. 85 d.P.R. n.
309/1990.
Con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche v’è
congrua motivazione che giustifica il provvedimento reiettivo con la
particolare capacità criminale del reo che, come il coimputato, non si
è fatto scrupolo di sovrapporre alla cessione dello stupefacente
l’ulteriore condotta di intimidazione per ottenere il pagamento del
quantitativo ceduto, senza offrire in sede processuale alcun contributo
di collaborazione rilevante.
Si ricorda che l’assenza di manifesta illogicità nel diniego del
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche rende la
decisione insindacabile in sede di legittimità (Sez. 6, sent. n. 42688
del 24/9/2008, dep. 14/11/2008, Caridi e altri, Rv. 242419): il tutto,
anche tenuto conto del principio affermato da etitiesta Suprema Corte
secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il
diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in
considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle
parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento
a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o
superati tutti gli altri da tale valutazione (cfr., Sez. 2, sent. n. 3609

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/f

del 18/01/2011, dep. 01/02/2011, Sermone e altri, Rv. 249163; Sez.
6, sent. n. 34364 del 16/06/2010, dep. 23/09/2010, Giovane e altri,
Rv. 248244).
Da ultimo, la censura sull’art. 85 d.P.R. 309/1990 (nei confronti di
entrambi gli imputati è stato disposto il divieto di espatrio ed il ritiro
della patente di guida per il periodo di anni uno) appare tardiva in
quanto non previamente dedotta come motivo di appello secondo

quanto è prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 606 comma 3
cod. proc. pen., come si evince dal riepilogo dei motivi di gravame
riportato nella sentenza impugnata, che l’odierno ricorrente avrebbe
dovuto contestare specificamente nell’odierno ricorso, se incompleto
o comunque non corretto: da qui la giustificazione del “silenzio” sul
punto da parte della Corte territoriale.
5. Ricorso di Modaffari Francesco.
5.1. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.
Trattasi di censura meramente reiterativa rispetto a quella proposta
in sede di gravame di appello.
Invero, per consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, è
inammissibile il ricorso per cassazione fondato sin motivi che si
risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello
e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi
considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non
assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza
oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, sent. n. 25559 del
15/06/2012, Pierantoni; Sez. 6, sent. n. 22445 del 08/05/2009, PM in
proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, sent. n. 11933 del 27/01/2005,
Giagnorio, Rv. 231708).
In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di
appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la
pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione
non può essere considerata come critica argomentata rispetto a
quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i
motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 cod.
proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni
di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (Sez. 6, sent. n. 20377
del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838).
Nel merito della questione, si rileva come la Corte territoriale, dopo

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aver chiarito le ragioni dell’inutilizzabilità delle sommarie informazioni
testimoniali rese dall’Hallal in data 05.12.2013, ha precisato come la
prova dei reati in contestazione ben potesse facilmente ricavarsi dal
contenuto della denuncia orale (pienamente utilizzabile anche in
ragione del rito speciale introdotto) dal medesimo sporta in data
04.12.2013, nella quale l’Hallal

“aveva già indicato Flaviano e

Modaffari, sia pure indicandoli solo con i nomi di battesimo e con altri

dati identificativi circostanziali … quali presumibili autori del
danneggiamento del portone di casa sua, a causa del credito da loro
vantato per la cessione della sostanza stupefacente. Nella stessa
denuncia aveva anche riferito che già in precedenza i due gli avevano
chiesto il pagamento della droga, minacciando, in caso contrario, di
sfondargli la porta perché erano in grado di farlo …”.
5.2. Evocativo di censure in fatto, generico nei contenuti e comunque
manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso.
Ferme le considerazioni testè esposte nel precedente paragrafo 5.1.
del considerato in diritto, per la Corte territoriale nessun dubbio
risulta residuare in punto individuazione degli autori dei reati in
contestazione (v. pag. 9 della sentenza impugnata): dalla denuncia
emergeva, infatti, “la prova dell’avvenuta cessione di circa 100
grammi di sostanza stupefacente del tipo marijuana da parte degli
odierni imputati all’Hallal e la perpetrazione di una condotta
intimidatrice volta ad ottenere l’adempimento del debito da parte
dell’acquirente. Il riscontro a quella cessione è stato correttamente
individuato dal giudice nel fatto che il 27.10.2013 Hallal era stato
arrestato in flagranza del possesso di 80 grammi di marijuana e in
quella circostanza aveva dichiarato di averla ricevuta proprio da tale
“Nino” di Melito Porto Salvo (luogo di nascita e di residenza
dell’odierno imputato Antonino Flaviano)”.
Il fatto che in quella circostanza vi sia stata l’evocazione del solo
Flaviano e non anche del Modaffari, alla luce degli altri elementi di
prova esistenti a carico di quest’ultimo, non può consentire di
escludere il coinvolgimento dello stesso nella cessione, ben potendo
quella “omissione” giustificarsi a vario titolo (sfumatura del ricordo,
timore di eventi ritorsivi, esemplificazione nominalistica,
incompletezza della verbalizzazione), nessuno dei quali di decisiva
rilevanza nel senso voluto dal ricorrente.

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Con le chiare conclusioni assunte dalla Corte territoriale, il ricorrente
non si “confronta” preferendo limitarsi ad una generica denuncia di
illogicità motivazionale ampiamente smentita dal testo del
provvedimento.
5.3. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso.
Si censura la sentenza impugnata che, nel disattendere l’applicazione
dell’art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990 ha fatto riferimento al solo

dato ponderale dello stupefacente (gr. 100 circa di marijuana).
5.3.1. Va rilevato, al riguardo, che correttamente i giudici di merito
hanno ritenuto che il dato ponderale assumesse, nel caso concreto,
una rilevanza preponderante rispetto agli altri elementi di cui al d.P.R.
n. 309/1990, art. 73, comma 5, a cagione del significativo
quantitativo di sostanza drogante detenuto e, come tale,
commercia bile.
5.3.2. Fatta tale premessa, si è in grado di apprezzare come i
medesimi giudici si siano correttamente ispirati ai criteri giuridici
elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per la configurabilità
dell’ipotesi attenuata

de qua,

adeguandosi al più avveduto

orientamento, in base al quale, per potere denegare l’esistenza
dell’art. 73, comma 5, per i reati in materia di stupefacenti, è
necessario che la fattispecie reale non risulti di offensività trascurabile
sia in relazione all’oggetto materiale del reato (quali le caratteristiche
qualitative e quantitative della sostanza stupefacente), che in
relazione all’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa): di
talché, il vaglio in senso negativo di uno solo dei parametri di
riferimento individuati dalla legge, con decisività almeno pari a quella
di tutti gli altri, comporta ineludibilmente l’inconfigurabilità dell’ipotesi
attenuata.
In particolare, ove la quantità della sostanza stupefacente sia
considerevole, il dato ponderale può essere legittimamente reputato
sintomo sicuro di una non trascurabile potenzialità diffusiva
dell’attività di spaccio e, perciò, sufficiente a negare l’applicabilità
dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990,
senza necessità che il giudice prenda espressamente in esame gli altri
parametri normativi, se non prevalenti rispetto al dato ponderale.
5.3.3. Orbene, poiché la determinazione in concreto della lieve entità
del fatto è affidata, caso per caso, al prudente apprezzamento del

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giudice di merito, si deve trarre la conclusione che la sentenza
impugnata non soffre della censura mossale, tenuto conto che essa si
conferma ai criteri giuridici sopra esposti e ne fa coerente
applicazione nel caso in esame.
5.4. Manifestamente infondato è il quarto motivo di ricorso.
Anche qui va ricordato che l’assenza di manifesta illogicità nel diniego
del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche rende la

42688/2008, cit.): il tutto anche tenuto conto del principio affermato
da

esta Suprema Corte secondo cui non è necessario che il giudice

di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti
generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o
sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente
che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque
rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale
valutazione (cfr., Sez. 2, sent. n. 3609/2011, cit.; Sez. 6, sent. n.
34364/2010, cit.).
6. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc.
pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali
nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una
somma che, considerati i profili di colpa emergenti dai ricorsi, si
determina equitativamente in euro 1.500,00 per ciascuno

PQM

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento
delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro
1.500,00 alla Cassa delle ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 15.4.2016

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Dott. Andrea ellegrino

Dott.ssa Matilde Cammino

decisione insindacabile in sede di legittimità (Sez. 6, sent. n.

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