Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20790 del 15/04/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 20790 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: FUMU GIACOMO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da Shllaku Zef, n. Albania il
23.2.1984
avverso la sentenza in data 7.10.2014 della Corte di
appello di Firenze
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il
ricorso,
Udita la relazione svolta dal Consigliere dr. G. Fumu
Udita

la

requisitoria

del

Pubblico

Ministero

rappresentato dal s.p.g. dr. Enrico Delehaye, che ha
concluso per il rigetto del ricorso

MOTIVI

DELLA

DECISIONE

1. Shllaku Zef impugna a mezzo del difensore la
sentenza

della

Corte

di

appello

di

Firenze

confermativa, quanto all’affermazione di
responsabilità, della decisione di primo grado con la
quale era stato dichiarato colpevole dei delitti di cui
agli artt. 81 cpv., 110, 56-629 cpv., 582, 585 c.p. per

Data Udienza: 15/04/2016

avere con violenza e minaccia, in concorso con ignoti,
compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a
farsi consegnare una somma di denaro da tale Milillo
Andrea, presunto debitore di suo cognato Parubi
Engjell, soggetto condannato definitivamente nello
stesso processo per il delitto di cui all’art. 393 c.p.
commesso ai danni del medesimo Milillo con azione
riconosciuta autonoma e non collegata a quella dello

2. Con il primo,

articolato motivo si deduce,

testualmente, la “violazione dell’art. 546, comma 1,
lett. e) c.p.p. in relazione agli artt. 56, 629 comma 2
e 585 c.p., denunciata ex art. 606, comma 1, lett. e)
c.p.p.”.
Lamenta nella sostanza il ricorrente che la sentenza
impugnata abbia eluso tutti i rilievi svolti con l’atto
di appello circa l’attendibilità delle dichiarazioni
della persona offesa e l’asserita valenza di riscontro
ad esse delle ulteriori risultanze processuali, con le
necessarie conseguenze sulla qualificazione giuridica
del fatto.
2.1 Rileva innanzi tutto come non sia stata valutata la
doglianza concernente la credibilità dell’affermazione
del Melillo secondo cui l’imputato, nel corso del loro
primo incontro, nel proferire minacce per ottenere il
pagamento della somma dovuta al cognato Parubi avesse
mostrato il calcio di una pistola portata infilata nei
pantaloni; osserva in proposito che non sia stata presa
in considerazione la circostanza, pur indicata, che di
tale evenienza, non notata dalle altre persone presenti
al fatto, l’offeso avesse riferito solo dopo venti
giorni e che gli stessi Carabinieri avessero smentito
di aver in precedenza ricevuto da lui denuncia orale;
conclude nel senso che sia pertanto rimasto
indimostrato il possesso dell’arma – con ciò che ne
consegue sulla configurabilità della relativa
circostanza aggravante – e sia posta in discussione
l’attendibilità del dichiarante in relazione alla

2

Shllaku.

ricostruzione dell’intera vicenda anche con riferimento
alla qualificazione giuridica del fatto.
2.2 Deduce, ancora, come non siano stati presi in
considerazione i rilievi difensivi – concernenti anche
la deposizione di un teste oculare contraddittoriamente
valutata – relativi alla ritenuta attiva partecipazione
di terze persone agli episodi in cui era stata portata
violenza al Melillo; osserva che la diversa

rimasta senza risposta assume rilievo perché incide
sulla configurabilità della circostanza aggravante del
numero delle persone riunite ed, ancora,
sull’attendibilità della persona offesa.
2.3 Lamenta altresì che non sia stata data risposta
alle argomentazioni difensive concernenti la prova
della durata della malattia conseguita alle lesioni
inferte al Milillo, che non è stata oggetto di
accertamento ma desunta esclusivamente dai certificati
rilasciati dai referti di pronto soccorso e dai
certificati INAIL, peraltro non coincidenti.
2.4 Rileva infine come la Corte di appello – a fronte
delle censure difensive con le quali si contestava
l’assunto del Tribunale secondo cui era configurabile
l’estorsione perché la condotta violenta e minacciosa
dell’imputato si palesava sproporzionata rispetto al
fine di coartare la volontà del Melillo per indurlo a
soddisfare la pretesa creditoria del cognato – si sia
discostata dalle conclusioni del primo giudizio
sostenendo che l’azione del ricorrente fosse
finalizzata ad ingiusto profitto perché avrebbe
sollecitato la corresponsione di una somma a proprio
favore e non già l’adempimento dell’altrui pretesa
creditoria: e ciò senza indicare compiutamente le fonti
del proprio convincimento ed in contrasto con le stesse
risultanze dibattimentali testualmente richiamate dal
Tribunale.
3. Le doglianze sono infondate.

3

ricostruzione dei fatti offerta alla Corte di appello e

3.1 Osserva il collegio, innanzi tutto, che la Corte di
appello, nel rigettare il gravame quanto
all’affermazione di responsabilità dell’imputato ed
alla qualificazione giuridica del fatto, abbia valutato
le emergenze di causa nella loro globalità, operando
una lettura d’insieme degli esiti istruttori e
considerando ogni elemento con riferimento a tutti gli
altri rilevanti per il giudizio.

un’analisi della vicenda nel suo complessivo
significato e risponde così adeguatamente alle censure
mosse alla sentenza di primo grado espressamente o
implicitamente. E’ del resto principio pacifico nella
giurisprudenza di legittimità che il giudice
dell’appello non ha l’onere di esaminare specificamente
ogni deduzione di parte essendo sufficiente che esamini
gli elementi ritenuti rilevanti e che risulti espresso
senza vizi logici e giuridici il suo convincimento,
dovendosi considerare implicitamente negativo il
giudizio sugli altri.
3.2 Ciò premesso, occorre rilevare come sia stata
fornita plausibile giustificazione anche in relazione
alla circostanza del possesso di un’arma da parte
dell’imputato, l’attendibilità delle cui dichiarazioni
è stata espressamente vagliata dai giudici di primo e
secondo grado, sicché sono da ritenersi implicitamente
disattese le considerazioni difensive tese ad
inficiarla sulla base della tardività della relativa
denuncia e dell’incertezza sulla data della
segnalazione alle forze dell’ordine.
3.3 Pure è stata fornita dalla Corte di merito congrua
risposta alle deduzioni difensive relative ai fatti di
violenza commessi in danno del Milillo in data
9.12.2011 e 24.1.2012.
Risulta infatti dal testo del provvedimento impugnato
che, nel primo caso, la persona offesa venne soccorsa
dopo l’aggressione dalla sua convivente,
dichiarazioni,

le cui

concernenti anche il numero degli

4

La giustificazione della decisione si fonda dunque su

aggressori (tre) da lei anche visti allontanarsi,
confermano l’assunto del Milillo sul numero degli
agenti; risulta altresì, come si legge nella sentenza
di primo grado (f. 3), che, nel secondo caso,
l’aggressione fu opera di due persone e che il teste
Bechini sopraggiunse ed osservò la scena solamente da
quando l’imputato era già rientrato in macchina ed il
complice da solo continuava nelle percosse. Non si

sia stata trascurata dai giudici dell’appello.
Esclusa quindi la prospettata carenza motivazionale
sulla ricostruzione delle aggressioni, si deve
precisare che per la sussistenza dell’aggravante delle
più persone riunite è sufficiente la contemporanea
presenza nel luogo in cui si compiono violenza o
minaccia di due o più persone, senza che – a differenza
di quanto sembra ritenere il ricorrente – sia
necessario che tutti i concorrenti compartecipino della
condotta attiva. La ratio del sensibile aggravamento di
pena previsto dall’art. 629 cpv. c.p., rispetto alla
fattispecie del reato-base, risiede infatti proprio nel
dato oggettivo del contributo causale determinato dal
maggiore effetto intimidatorio fornito alla
realizzazione del delitto dalla simultanea presenza dei
concorrenti nel luogo e nel momento della esecuzione
della violenza e minaccia, di cui viene così ampliata
la capacità di intimorire l’offeso (Sez. un.,
29.3.2012, Alberti, rv 252518).
Non assume dunque rilievo, alla luce della ragionevole
conclusione cui è pervenuta la Corte di merito sulla
simultanea presenza nel luogo delle due aggressioni di
più concorrenti, verificare se i correi dell’imputato
abbiano materialmente partecipato alla condotta
violenta e minacciosa o abbiano solo sostenuto e
rafforzato l’efficacia intimidatrice di questa
mostrandosi a fianco dell’agente.
3.4 Quanto alla dedotta mancanza di motivazione in
ordine alla (peraltro del tutto generica) doglianza

5

evidenzia dunque alcuna contraddizione la cui denuncia

concernente la prova della durata della malattia
derivante dalle lesioni subite dal Milillo, appare
evidente la manifesta infondatezza della censura: i
giudici di merito hanno fatto riferimento a
certificazioni rilasciate da presidi di sanità pubblica
(pronto soccorso e INAIL) e sarebbe stato preciso onere
della difesa non limitarsi a semplicemente dedurre
l’assenza di un approfondimento medico-legale sul punto

gli esiti delle diagnosi e delle prognosi contenuti nei
documenti ufficiali posti a base della decisione.
3.5 Con riguardo, infine, alla qualificazione del fatto
in relazione alla finalità perseguita dall’autore del
reato si deve rilevare come il giudice di primo grado,
contrariamente a quanto assume il ricorrente, abbia
ritenuto – premesso che nel delitto di estorsione
l’ingiusto profitto può consistere in qualunque utilità
non necessariamente di contenuto economico – che il
vantaggio perseguito dall’imputato fosse quello di
salvaguardare l’onore della propria famiglia cercando
di far valere le ragioni del cognato. Si tratta,
quindi, della ricostruzione di una condotta che,
coerentemente con tali premesse ed in conformità
all’imputazione contestata (“credito vantato da altro
soggetto ma per il quale lo Shllaku o gli altri ignoti
correi non avevano alcuna relazione”), la Corte di
appello ha correttamente definito “non correlata né
correlabile all’esercizio di qualsivoglia diritto”, con
conseguente esclusione della possibilità di configurare
ipotesi delittuose diverse dall’estorsione.
4. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai
sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c) c.p.p., la
violazione degli artt. 56, 629, 81 cpv. c.p., 597
c.p.p.
Deduce che nel capo a) dell’ imputazione fosse
contestata la continuazione, di cui tuttavia il giudice
di primo grado non aveva tenuto conto, ma che la Corte
d’appello – in assenza di gravame del pubblico

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ma contrastare con allegazioni e documentazione propria

ministero – ha invece ritenuto la sussistenza di una
continuazione “interna” e conseguentemente aumentato la
pena, con ciò violando oltre che il divieto di
reformatio

in

pejus

anche il principio per cui la

pluralità degli atti rivolti ad unico fine e
verificatisi in rapida successione integrano un’unica
fattispecie criminosa e non una pluralità di reati in
continuazione.

seguito chiariti.
Osserva il collegio come il giudice di primo grado, nel
valutare nel suo complesso la condotta contestata nel
capo a) dell’imputazione, abbia applicato la pena di
due anni di reclusione ed C 2000,00 di multa, senza
alcun accenno alla configurabilità di una continuazione
“interna” e dunque senza attribuire autonomia ai
singoli episodi di violenza o minaccia in esso
descritti.
La Corte di appello ha viceversa ritenuto di
individuare, nelle medesime condotte, una pluralità di
reati per i quali ha comunque irrogato, pur scindendo
il trattamento sanzionatorio già inflitto dal tribunale
in segmenti diversi (reato base e reati satellite), la
medesima pena detentiva inflitta dal tribunale,
diminuendo peraltro quella pecuniaria.
E’ pertanto evidente che nessuna violazione del divieto
di reformatio in pejus sia intervenuta, perché oggetto
della decisione giudiziale e dell’affermazione di
responsabilità è stata comunque la medesima condotta,
pur diversamente qualificata, senza alcuna modifica
della pena per essa stabilita.
Occorre tuttavia provvedere

ex

art. 619 c.p.p. alla

rettificazione dell’errore di diritto non comportante
annullamento commesso dal giudice dell’appello ove ha
ritenuto la configurabilità della continuazione
“interna” tra i diversi episodi contestati al capo a)
dell’imputazione.

7

4.1 n motivo è infondato nei sensi che saranno di

La giurisprudenza di legittimità ha infatti avuto modo
di precisare in proposito che le diverse condotte di
violenza o minaccia poste in essere per procurarsi un
ingiusto profitto
costituiscono

senza

autonomi

riuscire
tentativi

a

conseguirlo

di

estorsione,

unificabili con il vincolo della continuazione, quando
singolarmente considerate in relazione alle circostanze
del caso concreto e, in particolare, alle modalità di

appaiano dotate di una propria completa individualità;
ed ha affermato che si ha, viceversa, un unico
tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici
atti di minaccia, allorché gli stessi siano sorretti da
un’unica e continua determinazione che non registri sul
piano della volontà interruzioni, desistenze o
quant’altro (Sez. II, 22.1.2014, De Cicco, rv 258543;
Sez. lI, 2.7.2013, Tammaro, 256729).
E’ evidente, nel caso di specie, come i singoli,
ravvicinati episodi siano stati lo sviluppo successivo
della medesima volontà criminosa, tanto che la stessa
Corte di appello – come si è osservato in premessa – ha
ricostruito l’intera vicenda valutando le emergenze di
causa nella loro globalità ed apprezzandone il
significato attraverso la loro lettura complessiva.
4.2 Deve pertanto escludersi la configurabilità di una
pluralità di reati di estorsione tentata e dunque della
continuazione “interna” tra essi ed in questo senso è
da ritenersi rettificata la sentenza impugnata.
5. Il

ricorso deve pertanto

essere rigettato con le

conseguenze di legge.
PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento.
Roma 15.4.2016
Il onsigliere est.
lacomo mu)

Il Presidente

realizzazione e soprattutto all’elemento temporale,

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