Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20774 del 08/04/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 20774 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: ALMA MARCO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
• DEL SORBO Anna, nata a Gragnano il giorno 23/7/1948
avverso la sentenza n. 4719/13 in data 7/10/2013 della Corte di Appello di
Napoli;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dr. Marco Maria ALMA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Mario PINELLI, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
udito il difensore della parte civile CESARANO Lucia, Avv. Giovanni DI NOLA, che
ha concluso chiedendo la conferma della sentenza impugnata, depositando
conclusioni scritte e nota spese della quale ha chiesto la liquidazione;
uditi i difensori dell’imputata, Avv. Ambra SOMMA e Avv. Domenico DUCCI e,
che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso ed il conseguente
annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 7/10/2013 la Corte di Appello di Napoli, per la parte che
qui interessa, in parziale riforma della sentenza emessa in data 26/2/2009 dal
Tribunale di Torre Annunziata, nel confermare la penale responsabilità di DEL
SORBO Anna in ordine al reato di concorso in tentata estorsione pluriaggravata
(anche ex art. 7 I. 203/91), ha escluso la continuazione tra i fatti-reato

Data Udienza: 08/04/2016

contestati rideterminando la pena irrogata all’imputata in termini ritenuti di
giustizia.
La contestazione elevata all’imputata riguarda, in estrema sintesi, una serie di
minacce, violenze e richieste estorsive materialmente rivolte dapprima dal
coimputato MONTAGNA Ernesto (per il quale è intervenuta sentenza irrevocabile)
e, poi, anche direttamente dalla DEL SORBO a CESARANO Lucia, il tutto
finalizzato ad ottenere il rilascio da parte di quest’ultima di un immobile di

fiori ed in relazione al quale era stata intentata in sede civile la procedura di
sfratto per finita locazione nonché ad ottenere che la CESARANO accettasse la
somma di C 3.500,00 in luogo di quella di C 10.000,00 bonariamente pattuita tra
le parti in causa.
Il reato è contestato come consumato in Gragnano fino al settembre 2003.
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputata,
deducendo con un unico articolato motivo la mancanza o manifesta illogicità
della motivazione della sentenza impugnata nonché l’erronea applicazione della
legge penale in relazione all’art. 7 I. 203/91.
Si duole, in particolare, la difesa della ricorrente della mancata esclusione della
circostanza aggravante di cui all’art. 7 I. 203/91 così come invocata nell’atto di
appello.
Dopo un excursus relativo alle condizioni in presenza delle quali è possibile
affermare la sussistenza della predetta circostanza aggravante, la difesa della
ricorrente rileva che tali condizioni non ricorrono nel caso in esame non essendo
stati debitamente presi in considerazione i concreti tratti esteriori del
comportamento criminoso connotanti l’ascrizione dell’azione alla metodologia
mafiosa.
Non si comprenderebbe, innanzitutto, in che modo il clan richiamato dal
MONTAGNA, pur ritenuto dalla Corte d’Appello “non direttamente coinvolto” nella
vicenda, avrebbe fornito il suo assenso al comportamento posto in essere dallo
stesso MONTAGNA e non si comprenderebbe neppure come la persona offesa dal
reato abbia “certamente subito il timore di dover avere a che fare con un
soggetto diverso e ben più temibile rispetto alla proprietaria dell’immobile”.
Trattasi di conclusioni apodittiche che non sono evincibili dal contenuto del
verbale di dichiarazioni rese dalla CESARANO ed allegato (ma solo per estratto)
al ricorso.
La persona offesa non è risultata per nulla intimorita dalle minacce al punto che
originariamente aveva deciso di non sporgere alcuna denuncia ed aveva

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proprietà dell’imputata ove aveva sede un esercizio commerciale di vendita di

cambiato idea solo allorquando era stata colpita dalla DEL SORBO con una
pantofola.
Del resto la circostanza aggravante de qua non può essere dedotta dalla sola
qualità del soggetto agente ed occorre che la vittima percepisca la sopraffazione
come generata da un sodalizio mafioso o da esso consentita.
In sostanza, conclude parte ricorrente, non è possibile affidare a mere
suggestioni o impressioni della persona offesa la possibilità di configurare la

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, che verte esclusivamente sulla mancata esclusione della circostanza
aggravante di cui all’art. 7 I. 203/91 è manifestamente infondato.
Va detto subito che nella sentenza impugnata si è dato debitamente conto di
come si sono svolti i fatti. In particolare si è sottolineato che:
a)

presso l’esercizio commerciale della persona offesa si presentarono due

persone le quali avevano intimato alla CESARANO di lasciare il locale affermando
che “serve a noi”;
b)

le persona che ebbe a proferire la frase si presentò come “Pasqualino

D’ALESSANDRO” (noto personaggio appartenente all’omonimo clan camorristico) f
soggetto che solo in un secondo tempo fu identificato in MONTAGNA Ernesto;
c) la CESARANO si recò dalla DEL SORBO contestandole il fatto di essersi rivolta
ai D’ALESSANDRO e nell’occasione l’imputata adoperò nei suoi confronti delle
minacce intimandole di stare attenta altrimenti “ti faranno fare la fine del
CAVALIERE”, operando così un richiamo dal chiaro contenuto minaccioso ad un
commerciante ucciso per avere denunciato le richieste estorsive ricevute;
d)

la CESARANO fu anche convocata a Scanzano, nota roccaforte del clan

D’ALESSANDRO, ove la stessa ebbe un incontro con una persona presentatale
come “Luigino D’ALESSANDRO” il quale rivendicò ulteriormente la consegna
dell’immobile che “serviva a loro”;
e) l’esercizio commerciale della CESARANO nel corso della vicenda subì anche
due episodi incendiari e la donna alla fine subì anche delle lesioni personali
cagionatele dalla DEL SORBO.
Ritiene il Collegio che alla luce dei predetti elementi i Giudici del merito
correttamente hanno ritenuto configurabile anche a carico dell’odierna ricorrente
la circostanza aggravante de qua motivando in maniera congrua, logica e non
certo contraddittoria (cfr. in particolare pag. 10 della sentenza impugnata) le
ragioni per le quali l’azione è stata posta in essere con “metodo mafioso”

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circostanza aggravante de qua.

incutendo nella persona offesa il timore di avere a che fare con un soggetto
diverso e ben più temibile rispetto alla proprietaria dell’immobile.
Il decisum della Corte di Appello rispecchia pienamente i principi di diritto evocati
in materia da questa Corte Suprema.
Nulla quaestio innanzitutto sul fatto che nel caso in esame l’aggravante è stata
configurata sotto il profilo dell’utilizzazione del “metodo mafioso” e che ai fini
della configurabilità di tale aggravante non è necessario che sia stata dimostrata

che la violenza o la minaccia richiamino alla mente ed alla sensibilità del
soggetto passivo la forza intirnidatrice tipicamente mafiosa del vincolo
associativo (Cass. Sez. 2, sent. n. 16053 del 25/03/2015, dep. 17/04/2015, Rv.
263525).
Nulla quaestio altresì in ordine al fatto che i una volta accertato che il metodo
“mafioso” è stato utilizzato, l’aggravante si applica necessariamente a tutti i
concorrenti nel reato, ancorché le azioni di intimidazione e minaccia siano state
materialmente commesse solo da alcuni di essi (cfr. Cass. Sez. 2, sent. n. 2204
del 31/03/1998, dep. 04/06/1998, Rv. 211178).
Ora, partendo dall’assunto che la configurabilità della circostanza aggravante
prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991 n.
203, nella forma del “metodo mafioso”, è subordinata – anche quando il delitto si
consuma in territori dove è notoria la presenza di associazioni criminali di cui
all’art. 416 bis cod. pen. – alla sussistenza nel caso concreto di condotte
specificamente evocative della forza intimidatrice derivante dal vincolo
associativo, non potendo essere desunta dalle mere caratteristiche soggettive di
chi agisce, anche in concorso con altri (Cass. Sez. 5, sent. n. 42818 del
19/06/2014, dep. 13/10/2014, Rv. 261761), va detto che ciò si è verificato nel
caso in esame nel quale non soltanto il MONTAGNA si è presentato con il nome di
un noto esponente del clan camorristico della zona affermando che l’immobile
serviva a loro (“serve a noi”) ma addirittura l’odierna ricorrente ha dato
conferma alla persona offesa del fatto che dietro di lei agivano esponenti della
malavita localeeti faranno fare la fine di CAVALIERE”)
L’evocazione del supporto del locale clan camorristico unita al richiamo al nome
di un commerciante ucciso per avere denunciato le richieste estorsive ricevute, al
fine di determinate la persona offesa ad accedere alle richieste estorsive
formulate, nel caso qui in esame integra indubbiamente la contestata (e
ritenuta) circostanza aggravante del metodo mafioso.

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o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente

Né la condotta tenuta dalla persona offesa così come emergente dagli atti può
portare ad escludere l’aggravante stessa.
Il fatto di avere ritardato nella presentazione della denuncia non è certo un
elemento significativo ben potendo essere indice non di un’assenza di efficace
intimidazione quanto piuttosto di una possibilità di risolvere altrimenti il
“problema”: ciò del resto è quello che emerge dalla lettura del provvedimento
impugnato dove anche la stessa Corte di Appello ha dato correttamente atto che

camorristico si è rivolta alla DEL SORBO al fine di ottenere spiegazioni ed ha
addirittura dato seguito alla “convocazione” a recarsi a Stanzano (luogo indicato
come “nota roccaforte del clan D’ALESSANDRO”) per incontrarsi con un soggetto
presentatogli come “Luigino D’ALESSANDRO”,il quale ancora una volta ebbe a
ribadirle che l’immobile “serviva a loro”.
Del resto greto il fatto che la CESARANO abbia cercato di opporre resistenza alla
richiesta estorsiva, come si evince anche dai passaggi delle dichiarazioni della
stessa evocati dalla difesa della ricorrente, non esclude la configurabilità della
circostanza aggravante de qua atteso che, COMet, ha già avuto modo di precisare
questa Corte Suprema con un assunto condiviso =1:RP-dall’odierno Collegio, la
sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso, di cui all’art. 7 D.L.
n. 152 del 1991, conv. nella L. n. 203 del 1991, non è esclusa, nella
commissione del delitto di estorsione, dal fatto che la vittima delle minacce
riesca ad assumere un atteggiamento di contrapposizione “dialettica” alle
ingiuste richieste (Cass. Sez. 1, sent. n. 14951 del 06/03/2009, dep.
07/04/2009, Rv. 243731).
La corretta motivazione della sentenza impugnata, non intaccata dalle
argomentazioni contenute nel ricorso presentato nell’interesse dell’imputata )
portano – come detto – a qualificare il gravame come manifestamente infondato
e per tale ragione impongono la declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso.
Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa
delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa
di C 1.500,00 (rnillecinquecento) a titolo di sanzione pecuniaria.
Ne discendono, altresì, le correlative statuizioni di seguito espresse in ordine alla
rifusione delle spese del grado in favore delle costituite parti civili, la cui
liquidazione, tenuto conto del livello di complessità della vicenda processuale e
previa esclusione della richiesta di liquidazione di onorari per la fase introduttiva

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la CESARANO, proprio convinta di avere a che fare con esponenti del clan

del giudizio non presente innanzi alla Corte di cassazione, viene operata secondo
l’importo in dispositivo meglio enunciato.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.500,00 alla Cassa delle ammende nonché
al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile CESARANO Lucia

Così deciso in Roma il giorno 8 aprile 2016.

che liquida in complessivi C 2.500,00 oltre accessori di legge.

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