Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20755 del 27/10/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 20755 Anno 2018
Presidente: DI TOMASSI MARIASTEFANIA
Relatore: SIANI VINCENZO

sul ricorso proposto da:
MUSCAS AMBROGIO nato 11 17/02/1949 a DONORI

avverso la sentenza del 03/12/2014 della CORTE APPELLO di CAGLIARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO STANI
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MARIA
GIUSEPPINA FODARONI
che ha concluso

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Il PG conclude per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per
prescrizione ai fini penali e per il rigetto nel resto.
UditA difensore
L’Avv. Antonio Avino Murgia difensore della parte civile costituita Comune di
Donori deposita in udienza conclusioni, nota spese e verbale di deliberazione
della Giunta e insiste per il rigetto del ricorso con conseguente condanna al
pagamento delle ulteriori spese sostenute nel presente grado di giudizio.
L’Avv. Francesco Trudu conclude per l’accoglimento del ricorso e in subordine per
l’applicazione dell’ art. 610 c.p. con dichiarazione di prescrizione di tutti i reati e
di rinviare alla Corte di Appello in sede civile per le statuizioni civili.

Data Udienza: 27/10/2017

L Avv. Mauro Podda conclude per l’accoglimento del ricorso.
A questo punto alle ore 14.45 l’udienza pubblica viene sospesa per essere

ripresa alle ore 15.35.

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RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, resa in data 3 dicembre 2014 – 26 aprile
2016, la Corte di appello di Cagliari ha parzialmente riformato quella emessa dal
Tribunale di Cagliari in data 14 marzo – 16 settembre 2013 che aveva giudicato
Ambrogio Muscas.
Costui era stato imputato, con altri:
– del delitto di cui all’art. 294 cod. pen., per avere, quale vice-sindaco del

della carica elettiva e comunque per averla costretta a rassegnare le dimissioni il
4 aprile 2007 (capo A);
– del delitto di cui agli artt. 56-629 cod. pen. per avere tentato di estorcere alla
Massa il rinnovo della concessione per lo sfruttamento della cava comunale di
sabbia all’impresa di Paolo Batteta, fino al febbraio 2007 (capo B);
– del delitto di cui agli artt. 81-367 cod. pen. per avere simulato reati ai suoi
danni, con false denunzie, il 27 aprile 2006, il 29 maggio 2006 e il 29 ottobre
2006 (capo C),
– del delitto di cui all’art. 595 cod. pen., per avere diffamato Flavio Pisano,
Ottavio Boi e Cesare Deiana, in data 16 febbraio 2007 (capo D);
– della contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen., per avere concorso a recare
molestia telefonica ai componenti della famiglia della Massa, in data 9 febbraio
2007 (capo E).
1.1. Il Tribunale aveva dichiarato il Muscas responsabile dei primi tre reati,
unificati in continuazione e, riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche, lo
aveva condannato alla pena di anni tre di reclusione, mentre aveva dichiarato
non doversi procedere nei suoi confronti in ordine al reato sub D) per tardività
della querela e in ordine al reato sub E), per essersi il reato estinto per
prescrizione. Inoltre il Muscas era stato condannato al risarcimento dei danni in
favore delle costituite parti civili Rita Massa e Comune di Donori con la
liquidazione, a tale titolo, dell’importo di euro 25.000,00 per ciascuna parte
civile.
1.2. La Corte di appello – accogliendo parzialmente l’impugnazione del
Muscas, i cui motivi avevano dedotto l’erronea valutazione delle risultanze
processuali con riguardo a ciascuno dei reati per cui si era avuta condanna,
prospettati come insussistenti – in corrispondente parziale riforma della sentenza
di primo grado lo ha assolto dalla tentata estorsione sub B), per insussistenza
del fatto, ed ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai
fatti di simulazione di reato sub C) commessi in data 27 aprile 2006 e in data 29
maggio 2006, così scissa la relativa imputazione, essendosi tali reati estinti per

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Comune di Donori, impedito al Sindaco di quel Comune, Rita Massa, l’esercizio

sopravvenuta prescrizione, riducendo la pena a lui inflitta a quella di anni due,
mesi due di reclusione e condannandolo alla rifusione delle spese in favore delle
parti civili Rita Massa e Comune di Donori.
1.3. Per quanto ancora d’interesse in questa sede, le condotte addebitate al
Muscas consistevano:
– quanto al reato di cui all’art. 294, contestato al capo A), nell’avere, quale
Vicesindaco del Comune di Donori, in concorso con Lorenzo Soi, Luigi Pintus e
Tarcisio Ruggeri, impedito alla Massa, Sindaco dello stesso Comune, mediante

esercitarlo in modo difforme dalla sua volontà fino a costringerla a rassegnare le
dimissioni in data 4 aprile 2007, in particolare facendole rinvenire presso il di lei
domicilio, in più occasioni, dei proiettili di arma da fuoco, simulando nel
contempo l’invio da parte di ignoti di analoghe munizioni presso il suo domicilio,
diffondendo in quel Comune e facendo pervenire alla Massa, a terzi e,
fittiziamente, anche a se stesso scritti anonimi contenenti affermazioni
minacciose e diffamatorie nei confronti del Sindaco e della Giunta, controllando i
movimenti della stessa Massa all’interno di quel centro abitato e facendo
pervenire una telefonata intimidatoria anonima sempre alla Massa;
– quanto al reato di cui agli artt. 56 e 629 cod. pen., sub B), nell’avere compiuto,
quale Vicesindaco, atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere,
mediante le minacce sopra richiamate e forti pressioni, la Massa, all’epoca
Sindaco, ad adoperarsi, contro la sua volontà, per il rinnovo da parte
dell’Amministrazione da lei guidata della concessione per lo sfruttamento della
casa di sabbia comunale all’impresa di Paolo Batteta, al fine di procurare a
quest’ultimo un ingiusto profitto, non riuscendovi per cause indipendenti dalla
propria volontà;
– quanto al reato di cui agli artt. 81 e 367 cod. pen., di cui al capo C), nell’aver
compiuto in tre diverse circostanze temporali altrettante simulazioni di reato
sporgendo denunzie presso la locale Stazione dei Carabinieri allo scopo di far
aprire procedimenti penali contro ignoti, in particolare denunciando falsamente in
data 26 aprile 2006 di avere ricevuto il 19 aprile dello stesso anno una telefonata
anonima dal contenuto minaccioso e di avere subito il danneggiamento di due
pneumatici della sua autovettura, poi denunciando falsamente in data 29 maggio
2006 di aver rinvenuto il giorno precedente sulla sua automobile una bustina
contenente un proiettile da caccia calibro 12 ed infine falsamente denunciando il
19 ottobre 2006 di avere trovato il giorno precedente presso la sua abitazione
una busta contenente un proiettile per pistola calibro 7,65.
1.4. La prova della responsabilità dell’imputato per il reato di cui al capo A),
a cui ha contribuito anche la dimostrazione della materiale realizzazione delle

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minacce, l’esercizio di tale carica elettiva, comunque determinandola a

ulteriori condotte oggetto di contestazione, pur non oggetto di condanna per
ragioni di diritto (in ordine al reato di cui al capo B) e di decorso del tempo (in
ordine ai primi due episodi del reato continuato sub C), si è fondata, secondo la
concorde (sotto questo profilo) valutazione dei giudici di merito:
– innanzi tutto, sulla testimonianza di Rita Massa, ritenuta intrinsecamente
credibile e coerente, oltre che estrinsecamente corroborata da altri elementi, e
considerata l’asse portante del compendio probatorio: la persona offesa ha, per i
giudici di merito, fornito un resoconto chiaro e genuino dell’intera vicenda che

dimissioni, vicenda che ha visto nella reiterata minaccia fatta pervenire alla
Massa mediante il recapito di proiettili, nella creazione di un clima di diffusa
intimidazione attraverso le false denunzie, nonché nella propalazione di notizie
diffamatorie, mediante la lettera anonima, nella telefonata anonima la
perpetrazione da parte dell’imputato di una serie coordinata di attività volte a
mettere in crisi la Massa allo scopo, alfine raggiunto, si farla dimettere dalla
carica di Sindaco;
– sulle intercettazioni telefoniche, esclusa quella del 29 ottobre 2000, acquisita
da altro procedimento in violazione dell’art. 270 cod. proc. pen.;
– sugli altri apporti dichiarativi, fra cui quello di Luigi Pintus e quello del M.Ilo
Faedda, con il conseguente ingresso nel quadro valutativo dell’esito delle indagini
di polizia giudiziaria, che hanno condotto alla specifica ricognizione delle attività
organizzate dal Muscas, ivi incluse le false denunzie ed il fittizio ricevimento da
parte sua di proiettili ed altri messaggi dal contenuto minatorio, ricognizione che,
combinata agli elementi diacronicamente descritti dalla Massa, ha condotto i
giudici di merito e, conclusivamente, la Corte territoriale a ritenere assodata
l’ascrivibilità all’imputato della complessiva condotta minatoria in danno della
Massa.
Queste prove, secondo la Corte territoriale, hanno formato un quadro del
tutto idoneo a dimostrare la responsabilità penale del Muscas in ordine al delitto
di attentato ai diritti politici della Massa ex art. 294 cod. pen., in quanto la
decisione della Massa di dimettersi – alfine assunta dopo avere appreso dai
Carabinieri dell’esistenza di un procedimento penale a carico dello stesso Muscas

era stata la conseguenza diretta delle pressioni operate dall’imputato: la

Massa, pervenuta al livello di non sopportabilità delle progressiva intimidazioni
patite, aveva spiegato che la sua decisione anche sul piano politico era stata
diretta a far sì che il Comune avesse degli amministratori non condizionati.
Circa le simulazioni di reato ex art. 367 cod. pen., secondo il computo dei
giudici di appello, i primi due fatti erano comunque caduti in prescrizione e non
sussisteva affatto la prova evidente dell’innocenza dell’imputato. Restava la

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l’ha vista costretta a concludere in modo repentino il mandato sindacale con le

responsabilità penale per il terzo episodio, quello – relativo alla denuncia del 19
ottobre 2016 – di aver trovato il 18 ottobre 2016 una busta contenente un
proiettile cal. 7,65 presso la sua abitazione: la falsità della stessa si era
chiaramente desunta dalla testimonianza di Luigi Pintus, combinata con quella
dell’operante Faedda.
Viceversa, per la Corte di appello, impregiudicata l’effettività dei rapporti
personali molto buoni ed anche di natura clientelare fra il Muscas e il Batteta,
non era emersa prova sufficiente che gli atti prospettati come diretti a far

alla scopo, così come non era certa la prefigurata ingiustizia del profitto
derivante al Batteta dall’eventuale proroga e nemmeno che la proroga fosse
contra legem,

con conseguente esclusione della sussistenza della tentata

estorsione.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso il difensore del Muscas
chiedendone l’annullamento ed affidando l’impugnazione a sette motivi.
2.1 Con il primo motivo si prospettano violazione dell’art. 431 e dell’art 270
cod. proc. pen., in ordine all’omessa utilizzazione della conversazione del 29
ottobre 2000 tra il Muscas e la Massa captata in altro processo, prodotta
all’udienza preliminare di questo procedimento ed entrata legittimamente nel
fascicolo del dibattimento con l’accordo delle parti in sede di formazione del
fascicolo stesso.
La Corte territoriale aveva considerato corretta l’espunzione della
conversazione da parte del Tribunale, perché disposta in diverso procedimento
ed acquisita al di fuori dei limiti stabiliti dall’art. 270 cod. proc. pen.: aveva
omesso, però, di considerare che l’atto era stato acquisito con il consenso delle
parti, al momento della formazione del fascicolo del dibattimento. Né era stata
fornita alcuna motivazione rispetto al dedotto carattere decisivo di quella prova
per escludere il delitto di cui all’art. 294 cod. pen. Pertanto, considerata la
legittima acquisizione della captazione, avrebbe dovuto stabilirsi per essa
l’utilizzabilità ex art. 511 cod. proc. pen.
2.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 192 cod. proc.
pen. in riferimento al riscontro dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo
del reato di cui all’art. 294 cod. pen., con conseguente vizio di motivazione.
L’affermazione conclusiva secondo cui era evidente che la decisione delle
dimissioni da parte della Massa era intervenuta a seguito dell’avere ella appreso
dell’esistenza di un procedimento penale a carico del Muscas e per conseguenza
diretta delle sue pressioni illecite era il risultato di una motivazione carente e
priva di logica argomentativa. Nessuna considerazione risultava svolta circa la

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conseguire la proroga della concessione all’impresa del Batteta fossero idonei

personalità forte e decisa della Massa, tale da affermare la propria soggettività
anche nei confronti del Muscas; e, d’altro canto, la stessa testimone aveva
affermato che Ambrogio Muscas le aveva lasciato molto spazio e che le scelte
amministrative erano collegiali.
Né le diversità di opinioni su specifici temi, quale quello della coltivazione
delle cave, poteva essere configurarsi quale intromissione nell’esercizio della
funzione pubblica altrui. Anche l’intervento dell’imputato nella vicenda
dell’impresa Batteta non aveva avuto alcunché di illecito, avendo il Muscas, anzi,

favore di altra ditta, la Meloni, come aveva precisato il teste Fiore, avendo d’altra
parte il concessionario Batteta il diritto potestativo alla proroga contrattuale.
Anche la deposizione dell’avv. Uras aveva confermato la liceità del
comportamento del Muscas nella vicenda, essendo stato l’avvocato del Comune a
proporre la scelta di transigere la vertenza con il Batteta, nel perseguimento del
pubblico interesse. Peraltro l’assoluzione pronunziata dal giudice di appello con
riferimento alla tentata estorsione finiva per confermare questo assunto. Il
testimoniale escusso ed il documento rilasciato dall’Ing. Strinna avevano
dimostrato, ancora, l’assenza di interferenze del Muscas nella vicenda della ditta
Zedda, rispetto alla quale si era avuta una normale e chiara discussione politica.
Infine era stata la stessa Massa a spiegare che si era dimessa per una sua
scelta, in quanto sapeva che il Muscas sarebbe rimasto consigliere e voleva che il
paese avesse degli amministratori: senza che però si intravedesse una qualsiasi
costrizione dell’imputato al riguardo, né alcuna violazione del diritto politico della
stessa Massa, la cui conduzione amministrativa non era stata soggetta a
pressioni di sorta.
Inattendibile si era rivelato anche il maresciallo Faedda, la cui testimonianza
era risultata ispirata a tesi preconcetta, come dimostravano le inesattezze riferite
in ordine alla denuncia dell’arma da parte di Alessandro Muscas, figlio
dell’imputato.
Le stesse dichiarazioni del coimputato Pintus erano da disattendere, in
quanto volte ad alleggerire la sua posizione.
Pertanto, gli elementi valutati non costituivano affatto un quadro indiziario
idoneo a sorreggere l’accusa inerente al delitto di cui all’art. 294 cod. pen.,
tenuto conto che nel dialogo politico le espressioni ed i toni usati potevano
essere anche accesi, senza per questo potersi definire minacce o intimidazioni.
2.3. Con il terzo motivo è prospettata ancora violazione di legge
nell’applicazione dell’art. 294 cod. pen.
La norma non era riferita, quanto all’oggetto dell’attentato, anche ai diritti
funzionali, quale era quello all’esercizio del mandato sindacale, e non era

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insistito affinché l’imprenditore suddetto cedesse una parte del territorio in

legittimo all’interprete forzare il carattere tassativo della disposizione ampliando
l’individuazione del suo oggetto. In tal senso non poteva, in ogni caso, ritenersi
violato l’art. 294 cod. pen. D’altro canto, anche a voler far rientrare il
mantenimento della carica sindacale nell’ambito del diritto politico, avrebbe
dovuto verificarsi la sussistenza del dolo sul corrispondente fatto costitutivo ed
anche ammettersi l’errore sulla norma extrapenale, ex art. 47 cod. pen.
2.4. Con il quarto motivo vengono dedotti violazione di legge e vizio di
motivazione, in ordine al reato di cui all’art. 367 cod. pen. contestato sub C).

all’inattendibilità del Pintus e del Faedda, in relazione alle quali aveva reso una
motivazione del tutto carente. Il tutto era basato su una ricostruzione

a

posteriori, senza che alcun rilievo a carico del Muscas fosse stato mosso al
momento delle perquisizioni e della presentazione della denuncia.
Contrariamente a quanto affermato in sentenza, invero, era risultato che il
Muscas aveva effettivamente ricevuto la telefonata denunciata così come si era
realmente avuto il danneggiamento della sua autovettura. Del pari, era risultato
chiarito il rapporto del Muscas con il coimputato Soi, in favore del quale egli era
intervenuto per tutelarlo dal punto di vista lavorativo.
2.5. Con il quinto motivo sono lamentate violazione di legge e vizio di
motivazione in ordine all’entità della pena applicata, la motivazione fornita al
riguardo essendo stata del tutto carente ed in ogni caso non osservante dei
criteri di cui all’art. 133 cod. pen., mentre nemmeno l’assoluzione dell’imputato
dalla tentata estorsione aveva indotto la Corte di merito a trarre le doverose
conseguenze in tema di quantificazione della pena.
2.6. Con il sesto motivo si deducono violazione dell’art. 185 cod. pen. e vizio
di motivazione in tema di risarcimento e liquidazione dei danni.
L’entità del danno riconosciuto a ciascuna parte civile era priva di
fondamento, in quanto nessuno aveva dimostrato effettivamente quale fosse
stato il pregiudizio patito da ciascuna di esse. Né risultava alcuna motivazione in
merito. Il richiamo alla gravità del reato era del tutto insufficiente. La Massa, pur
essendosi costituita parte civile, non aveva allegato e dimostrato pregiudizio
alcuno.
Inoltre, pur avendo il primo giudice fatto riferimento alla dichiarazione di
penale responsabilità del Muscas con riguardo i reati sub A) e B) tenendone
conto ai fini della liquidazione del danno, senza comunque indicare i criteri
seguiti, la Corte di appello aveva assolto l’imputato dal reato di tentata
estorsione sub B), ma non aveva rivisitato in alcun modo il danno risarcibile.
2.7. All’attualità, comunque, tutti i reati per cui si era registrata condanna
erano da ritenersi prescritti, con tutte«le conseguenze di legge.

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La Corte territoriale aveva, sul punto, trascurato le questioni relative

3. A seguito di opinamento espresso sul punto dal Collegio all’udienza del 20
luglio 2017, la difesa del ricorrente ha depositato memoria dell’Il ottobre 2017
con cui ha evidenziato i profili giuridici per i quali nella fattispecie mancava il
riscontro dell’evenienza sia degli elementi di natura oggettiva e soggettiva del
delitto di cui all’art. 294 cod. pen, sia di quelli relativi al delitto di violenza
privata aggravata dalla qualità delle persona offesa, fattispecie oggetto della
sollecitazione giudiziale, ribadendo che il corretto scrutinio delle prove acquisite,

erroneità della valutazione compiuta dai giudici di merito, salva restando, in
subordine, la riqualificazione del fatto nei sensi sopra prefigurati.

4. Soltanto la parte civile Comune di Donori ha partecipato al giudizio di
cassazione concludendo, anche per iscritto, per il rigetto dell’impugnazione con il
favore delle ulteriori spese.

5. Il Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di estinzione dei residui
reati per prescrizione ed il corrispondente annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata, con rigetto del ricorso ai restanti effetti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. L’analisi dell’impugnazione conduce al parziale accoglimento della stessa,
con particolare riguardo al settimo motivo, con corrispondente annullamento
della sentenza senza rinvio per la parte relativa agli effetti penali di essa.
Il ricorso proposto dal Muscas non può ritenersi inammissibile, per manifesta
infondatezza od altre ragioni, con riferimento ai motivi attinenti all’evenienza ed
alla qualificazione giuridica del fatto sub A), in relazione al quale anche la Corte,
con ordinanza del 20 luglio 2017, ha sollecitato le parti ad esprimersi in ordine
all’eventuale sussumibilità della corrispondente fattispecie sotto il modello
giuridico previsto da diversa norma incriminatrice, e con riferimento alle critiche
relative alla sufficienza ed alla logicità della motivazione relativa all’analisi delle
prove dimostrative del fatto sub C).
Tanto rileva perché, non vertendosi in tema di impugnazione

in toto

inammissibile per ciascuno dei residui reati oggetto di verifica e, dunque,
essendosi formato un valido rapporto di impugnazione, non è precluso il poteredovere di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129
cod. proc. pen., nella specie la prescrizione dei residui reati maturata
successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L.,

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ivi inclusa l’intercettazione illegittimamente pretermessa, dimostrava l’evidente

Rv. 217266; Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966).

2. Il computo dei termini prescrizionali va svolto come segue.
2.1. Muovendo anzitutto dal fatto ancora in imputazione di cui all’art. 367
cod. pen. ed operando la verifica del tempo trascorso dall’epoca della
commissione dello stesso, si rileva che il commesso reato risale al 19 ottobre
2006.
Il termine di prescrizione, ex artt. 157 e ss. cod. pen., considerata la cornice

sei, con riferimento a quello massimo. Quest’ultimo si sarebbe ordinariamente
consunto il 19 aprile 2014. Vanno tuttavia computate le sospensioni del termine
determinate all’udienza del 16 febbraio fino al 28 febbraio 2011 e, poi, dal 25
giugno 2012 al 14 marzo 2012, per più differimenti consecutivi determinati da
esigenze difensive, per un lasso complessivo di mesi otto e giorni ventinove
(come da rilevazioni svolte, in modo inoppugnato, dalla Corte di appello a pag.
41 della sua sentenza).
Pertanto, la fattispecie ha visto maturare il termine massimo di prescrizione
alla data del 17 gennaio 2015.
2.2. In ordine al reato di cui all’art. 294 cod. pen. sub A), ferma la
qualificazione del fatto per le ragioni che si esporranno nel prosieguo, il tempo
del commesso reato va fissato al 4 aprile 2007.
Il termine di prescrizione, ex artt. 157 e ss. cod. pen., considerata la cornice
edittale, è di anni sei, con riferimento a quello ordinario, e di anni sette, mesi
sei, con riferimento a quello massimo. Quest’ultimo si sarebbe ordinariamente
consunto il 4 ottobre 2014. Vanno però computate anche stavolta le già ricordate
sospensioni del termine, per complessivi mesi otto e giorni ventinove,

sicché

questa fattispecie ha visto maturare il termine massimo di prescrizione alla data
del 3 luglio 2015.
2.3. Di conseguenza, entrambi i reati suddetti si sono, alla data della
presente decisione, estinti per prescrizione.
La declaratoria di estinzione dei reati deve, allora, essere adottata in questa
sede, posto che: la difesa dell’imputato ha sollecitato espressamente tale
pronunzia, non segnalando (anzi, così implicitamente escludendo) l’eventuale
sussistenza della formalizzazione della volontà di rinunciare alla causa estintiva
da parte dell’assistito; il ricorso per ciascuno dei reati cumulativamente ascritti al
Muscas non può considerarsi inammissibile; non sussistono (come risulterà
chiaro dallo scrutinio degli ulteriori motivi) le condizioni per il proscioglimento ex
art. 129 cod. proc. pen.
La sentenza impugnata va annullata senza rinvio per questa parte.

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edittale, è di anni sei, con riferimento a quello ordinario, e di anni sette, mesi

2.4. Peraltro, vertendosi in giudizio di impugnazione, la declaratoria di
estinzione del reato, essendosi avuta da parte della pronuncia impugnata
condanna dell’imputato al risarcimento dei danni in favore delle due indicate
parti civili, permane, ai sensi del’art. 578 cod. proc. pen., il potere-dovere della
Corte di accertare la sussistenza del fatto e la responsabilità dell’imputato ai soli
effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili,
non essendo sufficiente, allo scopo dello scrutinio delle doglianze che si riflettono
sulla condanna al risarcimento del danno, dare atto dell’insussistenza dei

3. Ripercorrendo al precisato fine il catalogo delle doglianze articolate dal
Muscas e premesso che la Corte territoriale ha individuato le prove ritenute
determinanti per l’accertamento dei fatti nella testimonianza di Rita Massa,
considerata corroborata dalle intercettazioni telefoniche, esclusa quella del 29
ottobre 2000, e nelle altre testimonianze, ivi inclusa quella del M.Ilo Faedda, va
esaminata la questione processuale sollevata dal ricorrente con il primo motivo,
avente ad oggetto la censurata inutilizzabilità della captazione 29 ottobre 2000,
siccome acquisita da altro procedimento in violazione del limite fissato dall’art.
270 cod. proc. pen.
La decisione assunta dai giudici di appello sul punto, in via confermativa di
quanto aveva stabilito il Tribunale, non si profila censurabile.
Fuori questione essendo che l’intercettazione avvenuta tra il Muscas e la
Massa è stata captata in relazione ad altro procedimento, i giudici di merito
hanno rilevato che l’art. 270 cod. proc. pen. fissa il principio secondo cui i
risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi
da quelli nei quali le captazioni sono state disposte, con l’eccezione dell’ipotesi in
cui essi risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti per i quali è
obbligatorio l’arresto in flagranza: sicché l’intercettazione in parola, acquisita in
altro procedimento, non poteva essere utilizzata in questa sede già per il solo
fatto che il reato per il quale si procedeva (art. 294 cod. pen.) consentiva il solo
arresto facoltativo in flagranza (la verifica avrebbe avuto lo stesso esito ove
l’imputazione si fosse diretta verso l’alternativa configurazione del fatto ai sensi
dell’art. 610 cod. pen.).
Decidendo nel senso indicato, dunque, la Corte territoriale ha fatto corretta
applicazione del principio secondo cui l’inutilizzabilità delle intercettazioni per
violazione dell’art. 270 cod. proc. pen., in relazione all’alterità del procedimento,
è da ritenersi di natura definita patologica, siccome inerente ad atti probatori
assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel
dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento (Sez. 5, n. 542 del

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presupposti per l’applicazione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen.

15/11/2016, dep. 2017, Mantella, Rv. 269020; sulla configurazione della
inutilizzabilità patologica in generale Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro,
Rv. 216246).
Il ricorrente ha prospettato l’utilizzabilità della conversazione ritenendo – il
relativo atto – acquisito con il consenso, siccome inserito fra quelli indicati nella
formazione del fascicolo per il dibattimento.
Sennonché va obiettato che la mera allegazione di un atto o di un
documento al fascicolo previsto dall’art. 431 cod. proc. pen. assolve ad una

all’acquisizione del contenuto dell’atto o del documento medesimo, in quanto è al
momento in cui il giudice ne dispone la lettura – oppure manifesta in altro modo
la determinazione di avvalersene – che deve farsi riferimento per verificare la
correttezza o meno dell’inserzione dell’atto nel fascicolo per il dibattimento e per
la concreta attuazione del principio della formazione della prova al dibattimento
nel contraddittorio delle parti.
D’altro canto, la sanzione processuale dell’inutilizzabilità non rientra tra le
questioni lasciate nella disponibilità esclusiva delle parti, essendo sempre
rilevabile d’ufficio (Sez. n. 32530 del 06/05/2010, H., Rv. 248220).
Pertanto, i giudici di primo grado e, poi, quelli di appello hanno escluso in
modo giuridicamente ineccepibile quella prova dal novero delle prove utilizzabili.

4. In ordine al secondo motivo, con cui la sentenza impugnata viene
criticata per la contraddittoria e carente valutazione del quadro probatorio posto
dai giudici di merito alla base dell’accertamento della responsabilità del Muscas
per il reato, di cui al capo A), di attentato contro i diritti politici del cittadino,
nella persona della Massa, è da rilevare che la Corte territoriale ha considerato le
prove costituite dalla testimonianza di Rita Massa, dal contributo dichiarativo del
Pintus, dall’esito degli accertamenti di polizia giudiziaria, corroborati dalle
intercettazioni telefoniche (esclusa, come si è visto, quella del 29 ottobre 2000),
tali da formare una piattaforma del tutto idonea a dimostrare la responsabilità
penale dell’imputato.
La Cortè di appello ha fissato gli snodi essenziali della vicenda vissuta dalla
Massa nella sua breve esperienza di Sindaco di Donori, che si era dipanata dalla
prima seduta del Consiglio comunale del 21 maggio 2005, dopo le elezioni del 10
maggio 2005, fino alle dimissioni del 4 aprile 2007: convinta dallo stesso
Muscas, compagno di schieramento e vecchio amico di famiglia, a candidarsi nel
suo schieramento, di cui l’imputato era stato leader di prima grandezza, per
essere stato eletto sindaco nelle due consiliature antecedenti (e quindi, ostandovi
la disciplina vigente, impossibilitato ad ascendere per la terza volta consecutiva

12

funzione soltanto strumentale rispetto alla formazione della prova e non equivale

al seggio sindacale), la Massa era stata eletta sindaco ed il Muscas, quale
consigliere comunale, era stato designato vicesindaco, nel rispetto dell’accordo
elettorale stabilito. Intanto il Muscas era stato eletto consigliere provinciale.
Infatti, a meno di due anni dall’inizio del mandato, a cagione dell’azione
orchestrata dal Muscas – che aveva organizzato progressivamente atti
intimidatori pesanti ai danni della Massa, combinati a lettere e telefonate
anonime tese ad isolare sempre più la donna, nonché aveva denunciato in modo
falso di aver subìto un danneggiamento, al fine di rendere più credibili e non a lui

contro il Sindaco (salvo poi a lasciarsi andare in pubbliche riunioni ad altre
pesanti intimidazioni), onde pervenire allo scopo di farla dimettere, per poter
nuovamente ripresentarsi quale candidato Sindaco di Donori ed essere, dopo
l’interregno, nuovamente eletto e, così, continuare a coltivare la commistione fra
interessi pubblici e privati che il corredo intercettivo aveva fatto emergere – la
Massa il 4 aprile 2007 aveva rassegnato le dimissioni irrevocabili dalla carica
sindacale. Ella si era risolta a tale scelta una volta appreso che a carico del
Muscas era stato iniziato procedimento penale, sostanzialmente ritenendo di
essere stata oramai posta dall’imputato, in forza dell’attuazione del disegno da
lui organizzato, nelle condizioni di non potere svolgere la funzione per la quale
era stata eletta.
Le critiche mosse dal ricorrente non forniscono ragioni persuasive per porre
in crisi la motivata valutazione compiuta dai giudici di merito che hanno ritenuto
la ricostruzione dei vari passaggi esposti dalla Massa – inerenti alle varie
intimidazioni, alla loro portata, ai relativi effetti e, conclusivamente, alla loro
provenienza – frutto di dichiarazioni dettagliate, coerenti e del tutto credibili, non
soltanto sotto il profilo intrinseco, ma anche sotto quello estrinseco, siccome
sono risultate supportate da numerose altre prove che hanno confermato anche i
dettagli della sua narrazione.
I giudici di appello hanno sottolineato che le altre prove orali e le
intercettazioni (quale quella costituita dalla telefonata tra il Muscas ed il Soi)
hanno fornito un quadro esauriente del coinvolgimento dell’imputato nelle
intimidazioni messe in essere in danno della Massa, corroborate dalla condotta
del Muscas che risulta aver simulato atti intimidatori nei suoi confronti in
contestuale corrispondenza con quelli patiti effettivamente dalla Massa, per
rendere ancora più credibili quelli effettivamente destinati alla persona offesa.
Nel considerare il complesso di elementi valutato dalla sentenza impugnata,
non si scorgono ragioni concrete per ritenere illogica o contraddittoria la
valutazione della prova costituita dalle dichiarazioni del coimputato Luigi Pintus,
circa la versione fornitagli in ordine alla conoscenza da parte dell’imputato del

13

ascrivibili gli atti intimidatori che venivano messi in essere in modo anonimo

calibro del proiettile contenuto della busta mostratagli dal Muscas e, soprattutto,
della giustificazione fornita dal Muscas circa tale sua conoscenza, ossia di aver
visionato il contenuto della busta con il M.Ilo Faedda: versione in sé inverosimile
e poi smentita dal sottufficiale, il quale aveva confermato al Pintus che mai
avrebbe potuto restituire un corpo di reato.
La posizione assunta dal M.Ilo Faedda è risultata, a sua volta, confermata,
oltre che dalla ordinaria affidabilità da annettere alle dichiarazioni del pubblico
ufficiale operante, dal rilievo dei giudici di merito secondo cui dalla denuncia

rinvenimento del proiettile alle ore 07:30 del mattino, ossia dopo che il Muscas
aveva già parlato con il Pintus.
Da tale rigorosa verifica e dalle restanti considerazioni svolte dalla sentenza
impugnata si trae il corollario che le dichiarazioni del Pintus e vieppiù quelle del
Faedda, che ha riferito un quadro significativo e coerente degli indicativi risultati
delle indagini compiute, sono state apprezzate in modo congruo e senza cadute
logiche dalla sentenza impugnata.
Né integra un rilevante elemento di contraddizione nel tessuto della
motivazione della sentenza di appello il fatto che la Corte di merito abbia ritenuto
giuridicamente insussistente la tentata estorsione (rubricata sub B) relativa
all’attività finalizzata dal Muscas a far ottenere al Batteta la proroga della
concessione per lo sfruttamento della cava di sabbia comunale: il fatto che non
siano stati ritenuti adeguatamente configurati l’idoneità dei relativi atti e
nemmeno, nella situazione giuridica derivante dalla concessione in atto,
l’ingiustizia dell’obiettivo costituito dalla proroga stessa non ha impedito alla
Corte territoriale di ribadire la mutata, rispetto al passato, qualità dei rapporti fra
il Muscas e quell’imprenditore, rapporti confidenziali in base ai quali l’imputato
aveva assicurato al Batteta il suo sostegno amministrativo supportando le sue
posizioni e frenando le iniziative degli altri amministratori contrarie agli interessi
del medesimo imprenditore.
In siffatta situazione, è restato anche sotto questo profilo intatto lo sfondo
fattuale nel quale si è inscritta la condotta antigiuridica ascritta al Muscas sub B).
Del pari la progressione intimidatoria che ha costretto il Sindaco alle
dimissioni è stata analizzata anche tenendo conto della personalità della Massa
ed ha considerato, reputandoli ormai relegati nell’ambito delle esperienze
definite, i pregressi rapporti personali fra imputato e persona offesa.
In definitiva, la valutazione delle prove analizzate ha condotto la Corte di
appello a ribadire, con ragionamento immune da vizi logici, la conclusione per cui
la decisione della Massa di dimettersi, infine assunta dopo avere appreso dai
Carabinieri dell’esistenza di un procedimento penale a carico dello stesso Muscas,

14

acquisita agli atti del giudizio era risultato che il M.Ilo Faedda aveva appreso del

era stata la conseguenza diretta delle pressioni orchestrate ed operate
dall’imputato: la situazione determinata dal Muscas ne aveva condizionato il
comportamento in modo determinante fino al punto che ella, ritenendosi
relegata in una situazione che le impediva di esercitare in modo libero ed
effettivo il mandato sindacale, aveva ritenuto ineludibile la sua decisione, dando
atto che ne aveva colto la necessità anche sul piano politico, siccome la sua
uscita di scena avrebbe potuto far sì che il Comune potesse avere degli
amministratori non condizionati.

sollecita inammissibile interpretazioni alternative del fatto, nessuna delle critiche
mosse sotto il profilo della valutazione della prova con il secondo motivo si
dimostra fondata.

5. Le considerazioni svolte valgono a far ritenere infondato anche il quarto
motivo, relativo alla contestazione inerente alla condanna per simulazione di
reato sub C), quanto al residuo episodio del 19 ottobre 2006.
I giudici di appello, dopo aver rilevato che i primi due fatti contestati ex art.
367 cod. pen. erano comunque caduti in prescrizione, hanno mantenuto ferma la
responsabilità penale per il terzo episodio, quello – relativo alla denuncia del 19
ottobre 2016 – di aver trovato il 18 ottobre 2016 una busta contenente un
proiettile cal. 7,65 presso la sua abitazione.
Come si è in precedenza evidenziato nell’ambito della più ampia analisi
relativa al delitto di attentato (in relazione al quale anche questa condotta
simulatoria integrata dal Muscas conserva la sua portata probatoria), la falsità
della denuncia stessa era stata chiaramente desunta dalla testimonianza di Luigi
Pintus, combinata con quella dell’operante Faedda, la valutazione della cui
attendibilità è stata, come si è visto, ineccepibilmente affermata.
Pertanto, ferma l’accertata maturazione della prescrizione anche con
riguardo al terzo fatto di simulazione di reato, deve constatarsi – pure sotto
l’angolo visuale dell’art. 367 cod. pen. e per quanto rileva agli effetti civili l’adeguatezza e logicità del ragionamento compiuto dai giudici di merito in ordine
alla valutazione della prova del relativo fatto che ha concorso all’accertamento di
quello, più ampio, concretante il reato di cui all’art. 294 cod. pen.

6.

Infondato è anche il terzo motivo, riguardante la configurabilità e

sussistenza del reato sub B), con cui il ricorrente denunzia che l’art. 294 cod.
pen. non è riferibile, quanto all’oggetto dell’attentato, anche ai diritti funzionali,
quale ritiene sia quello all’esercizio del mandato sindacale, sicché non sarebbe da
ritenersi legittimo che l’interprete forzi il carattere tassativo della disposizione

15

Pertanto, espunta dalla complessiva doglianza quella parte di essa che

ampliando l’individuazione del suo oggetto.
E prospetta, in via subordinata, che in ogni caso, se si fosse fatto rientrare il
mantenimento della carica sindacale nell’ambito del diritto politico, avrebbe
dovuto verificarsi la sussistenza del dolo sul corrispondente fatto costitutivo ed
anche ammettersi l’errore sulla norma extrapenale, ex art. 47 cod. pen.
Al proposito è opportuno brevemente ricordare che l’art. 294 cod. pen.
punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni chiunque con violenza,
minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico,

Consolidata e condivisa è l’osservazione che l’elemento oggettivo del reato
di attentato contro i delitti politici del cittadino, di cui all’art. 294 cod. pen.,
consiste in una condotta connotata da violenza, minaccia o inganno che si
traduce nell’impedimento all’esercizio dei diritti politici in senso stretto, correlati
al diritto di elettorato attivo e passivo, e non invece di qualsiasi manifestazione
del pensiero che possa riguardare scelte politiche, il cui impedimento integra gli
estremi della fattispecie generica e sussidiaria del reato di violenza privata di cui
all’art. 610 cod. pen. (Sez. 6, n. 51722 del 09/11/2016, Camilletti, Rv. 268621).
Fra i diritti politici, l’impedimento all’esercizio dei quali ricade nel fuoco
dell’incriminazione dell’art. 294 cod. pen., vanno tuttavia sicuramente annoverati
il diritto all’elettorato, attivo e passivo (art. 51 Cost.), il diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale (art. 49 Cost.), il diritto di rivolgere petizioni alle Camere (art.
50 Cost.), il diritto di esercizio dell’iniziativa legislativa (art. 71, secondo comma,
Cost.), il diritto di referendum (artt. 75, 123, 132 Cost. e art. 138, secondo
comma, Cost.).
Il concetto di diritto politico, che sta alla base dello schema descrittivo
dell’art. 294 c.p., inerisce – nell’ordinamento democratico vigente, con l’impianto
costituzionale che ne determina le linee portanti – a una serie di facoltà
inviolabili riconosciute al cittadino il cui libero esercizio è coordinato al suo
concorso all’organizzazione ed al funzionamento dello Stato che da esso
promana.
Posto ciò, è assodato che il sistema costituzionale distingue i diritti politici
dalle libertà costituzionali, essendo, i primi, riconosciuti in via originaria quali
strumenti garantiti a ciascuno per la sua essenziale partecipazione alla vita costituzionale ed amministrativa – dello Stato; afferendo, le seconde, alla
titolarità ed all’esercizio di quei diritti personali dell’individuo con i quali egli
esprime in modo infungibile la sua personalità.
Né può dubitarsi, come anticipato, che fra i diritti politici vada annoverato
quello di elettorato passivo. L’art. 51 Cost. stabilisce che tutti i cittadini dell’uno

16

ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà.

o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in
condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Anche
l’elettorato amministrativo è considerato diritto politico del cittadino perché
anche con esso si esercitano facoltà riguardanti l’organizzazione ed il
funzionamento di Regioni, Province e Comuni, le cui strutture partecipano con
rilevanza incontestabile all’organizzazione istituzionale promanante
dall’ordinamento costituzionale.
In questa direzione si è chiarito che diritti politici, nell’attuale assetto

all’organizzazione ed al funzionamento dello Stato e degli altri enti di rilevanza
costituzionale, come le Regioni, le Province e i Comuni, ai quali è attribuita la
funzione di indirizzo politico in relazione ad un determinato aggregato di persone
stanziate su una parte del territorio, e che, nel novero dei diritti politici rientra,
pertanto, quello di elettorato passivo configurabile in riferimento alla carica di
consigliere comunale (Sez. 1, n. 11055 del 14/10/1993, Renna, Rv. 197545).
E’ però contestato che nell’ambito dei diritti politici in senso proprio vadano
inclusi i diritti politici definiti “funzionali”, da alcuni intendendosi con tale
locuzione quei diritti che hanno per oggetto non solo l’esercizio dei poteri
derivanti dalle pubbliche funzioni, ma anche, in senso lato, l’investitura di
pubbliche funzioni e il mantenimento di esse.
Non mancano, infatti, opinioni che, muovendo dalla categoria dei diritti
funzionali, ne individua il carattere saliente nella tutela, attraverso il loro
esercizio, dell’interesse al buon andamento della pubblica Amministrazione:
interesse rispetto al quale degraderebbe l’interesse di natura politica, quello al
funzionamento ed all’organizzazione dello Stato, sicché la loro violazione,
determinando in via diretta la lesione di un interesse amministrativo dello Stato,
esulerebbe dall’area di applicazione dell’art. 294 cod. pen.
In tal senso si valorizza l’indicazione fornita dalla Relazione ministeriale al
progetto del codice penale lì dove evidenzia che – quando il cittadino sia già
investito di pubbliche funzioni – le ipotesi di impedimento, con violenza o con
minaccia, dell’esercizio delle funzioni medesime, al pari delle ipotesi di
costringimento ad esercitarle in modo difforme dalla sua volontà, esulano dalla
sfera di applicazione dell’art. 294 cod. pen., essendo invece applicabili le norme
di diritto comune, relative alla tutela del pubblico ufficiale dalla violenza o dalla
minaccia.
Nell’esegesi pratica della norma si è, quindi, evidenziato, in particolare, che
l’elemento materiale del reato di attentato contro i delitti politici del cittadino,
previsto dall’art. 294 cod. pen., consiste in una condotta esplicantesi in violenza,
minaccia o inganno che si traduce nell’impedimento all’esercizio di un diritto

17

costituzionale, sono quelli che permettono al cittadino di partecipare

politico o nella determinazione del cittadino stesso ad esercitarlo in maniera
difforme dalla sua volontà (v Sez. 1, ord., n. 17333 del 21/04/2005, Cammisuli,
Rv. 231103; Sez. 1, n. 11835 del 26/06/1989, Celentano, Rv. 182017). E in ciò
sta la differenza rispetto alla fattispecie configurata dall’art. 610 cod. pen., che
prevede il reato di violenza privata e delinea una fattispecie generica e
sussidiaria, sicché questa è destinata ad essere assorbita in quella specifica di cui
all’art. 294 cod. pen., in virtù del principio di specialità fissato dall’art. 15 cod.
pen.: ciò, in fattispecie connotata dalla minaccia nei confronti di un candidato

(Sez. 1, n. 11055 del 14/10/1993, Renna, cit.).
Quel che pare certo è, però, che la tutela penale apprestata dall’art. 294
cod. pen. del diritto di elettorato passivo non può ricondursi al solo momento,
per così dire, “genetico” inerente al suo esercizio.
Significativo, in questo senso, è che, nella giurisprudenza costituzionale, non
si è mai dubitato che gli effetti di atti o leggi che colpiscano l’eletto nel corso del
mandato ottenuto a seguito del positivo esercizio del diritto di elettorato passivo,
determinandone a qualsivoglia titolo la decadenza o le dimissioni, influiscano
direttamente sullo stesso diritto di elettorato, inteso come diritto al
mantenimento della carica.
Si richiama, per tutte, l’analisi di Corte cost., sent. n. 276 del 2016, che
(dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’istituto
della sospensione dalle cariche elettive locali prevista dall’art. 8 d.lgs. n. 235 del
2012, che stabilisce, fra l’altro, al comma 1, che sono sospesi di diritto dalle
cariche indicate all’articolo 7, comma 1, coloro che hanno riportato una
condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 7, comma 1, lettere
a, b e c) ne ha valutato la natura movendo dal presupposto che la stessa fosse
idonea ad incidere sul diritto di elettorato passivo del soggetto interessato,
sebbene la ritenuta natura non penale e non punitiva, nel senso più ampio
affermato dalla Corte EDU, abbia condotto il Giudice delle leggi a considerare
legittima la sospensione stessa.
Nello stesso senso Corte cost., sent. n. 236 del 2015, ha ritenuto non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lett. a),
d.lgs. n. 235 del 2012, nella parte in cui dispone che sono sospesi di diritto dalle
cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale
e comunale coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei
delitti indicati dall’art. 10, lett. a), b) e c), stesso d.lgs., in riferimento agli artt.
2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.
D’altronde, l’attenzione della giurisprudenza costituzionale alla verifica del
vaglio e degli effetti delle questioni di incompatibilità, in relazione a quelle di

18

alla carica di consigliere comunale, al fine di costringerlo a ritirare la candidatura

ineleggibilità, pure in rapporto alle peculiarità degli ordinamenti regionali, muove
da un concetto di elettorato passivo che rinviene il dispiegarsi della
corrispondente posizione soggettiva sicuramente anche in momento successivo
rispetto a quello della elezione. Così Corte cost., sent. n. 235 del 1988 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli art. 3 e 51 cost., l’art.
175, primo comma, d. leg. pres. Sicilia 29 ottobre 1955, n. 6, nella parte in cui
prevede, per le cause di incompatibilità preesistenti all’elezione, la sanzione della
nullità dell’elezione stessa, anziché quella della decadenza dalla carica, così come

In questa ed in altre occasioni la Corte costituzionale ha evidenziato la
portata del diritto di elettorato passivo quale diritto politico fondamentale che
l’art. 51 Cost. riconosce e garantisce ad ogni cittadino con i caratteri propri
dell’inviolabilità (ex art. 2 Cost.), diritto che, essendo intangibile nel suo
contenuto di valore, è suscettibile di essere disciplinato unicamente da leggi
generali che possono limitarlo al solo fine di realizzare altri interessi costituzionali
altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra
cittadino e cittadino, qualunque sia la regione o il luogo di appartenenza. Con
esso, dunque, si impone un vincolo costituzionale, comune a tutti i diritti
dell’uomo e del cittadino, di carattere inviolabile.
Si è, in definitiva, reiteratamente affermato che è proprio il principio di cui
all’art. 51 Cost. a svolgere il ruolo di garanzia generale di un diritto politico
fondamentale, riconosciuto a ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità ex art.
2 Cost. (Corte cost., sent., n. 288 del 2007; Corte cost., sent, n. 539 del 1990),
e che il diritto di elettorato passivo si riferisce al mantenimento della carica così
come al diritto di essere eletto.
Non appare secondario rilevare, inoltre, che anche dall’analisi della
giurisprudenza civile si desume la considerazione che il diritto di elettorato
passivo non si esaurisce con la partecipazione all’elezione, ma si estende
all’effettivo mantenimento della carica alla quale cittadino è stato eletto (Sez. U,
civ., n. 11131 del 28/05/2015, Rv. 635364, in tema di provvedimento di
sospensione della carica di sindaco).
Tale affermazione, resa anch’essa nell’interpretazione della disciplina
introdotta dal già citato d.lgs. n. 235 del 2012, è di notevole interesse anche per
la presente analisi, lì dove segnala come l’elezione alla carica di sindaco
determini l’assunzione di funzioni pubbliche e lo svolgimento di dette funzioni
costituisca elemento da valutarsi alla luce del principio di buon andamento della
pubblica amministrazione. Invero, una volta che il cittadino sia eletto, le vicende
soggettive che lo riguardano e che sono tali da incidere sulla possibilità di
continuare a svolgere le funzioni per le quali egli è stato eletto, dispiegano effetti

19

previsto dall’art. 6 legge 23 aprile 1981, n. 154.

rilevanti non solo dal punto di vista del diritto di elettorato passivo, del quale
anche l’esercizio delle funzioni elettive costituisce manifestazione, ma anche dal
punto di vista del buon andamento dell’ente locale.

7. Le considerazioni svolte, confermando l’immanenza del diritto di
elettorato passivo pur dopo il momento dell’avvenuta elezione, inducono a
ritenere, senza per questo addivenire ad alcuna alterazione della tipicità formale
della fattispecie in parola, che la protezione assicurata dalla norma incriminatrice

diritti politici, se colloca la sua sfera applicativa anzitutto nella fase
corrispondente all’esercizio dello stesso in vista dell’elezione del cittadino, non
esaurisce l’intero ambito di detta sfera in quella fase.
In effetti – essendo volta a sanzionare anche l’esercizio del diritto in modo
difforme dalla volontà del titolare – essa ha ad oggetto anche quelle condotte
che, pur successivamente alla fase in cui attraverso il suo esercizio il cittadino
abbia avuto accesso alla pubblica funzione, la condotta violenta, intimidatoria o
decettiva messa in essere ai suoi danni persegua e determini il radicale
abbandono da parte sua della pubblica funzione elettivamente conseguita, in tal
senso vanificando, a posteriori, ma in modo parimenti incisivo, l’esercizio del
diritto politico.
E’, dunque, vero che altre norme prevedono e puniscono gli attentati (non
all’esercizio dei diritti politici del cittadino, bensì) al libero esercizio delle
pubbliche attività funzionali, essendo evidente il rinvio, al riguardo, agli artt.
289, 336, 337, 339 e 339 cod. pen.
Ed è corretto ritenere che l’ipotesi di cui all’art. 294 cod. pen. non riguarda
l’esercizio di specifiche attività funzionali che, ove incise da condotte violente,
minatorie o ingannatrici nei confronti dell’esercente la pubblica funzione, vanno
ricondotte alle norme penali che tutelano, appunto, l’espletamento delle
pubbliche funzioni.
Ma nettamente distinto da quest’ultimo ambito è quello relativo, non già
all’espletamento delle singole attività funzionali, bensì al mantenimento stesso
della carica, ovverosia al persistente esercizio del diritto politico, nella specie del
diritto di elettorato passivo, quando la condotta censurata risulti mirata,
attraverso violenza, minaccia od inganno, alla sua eradicazione, pur postuma
rispetto alla fase dell’elezione, ma in guisa tale che, perseguendo e conseguendo
l’obiettivo delle dimissioni dell’eletto dalla funzione, impedisca di fatto il compiuto
esercizio del diritto politico stesso.
In quest’ultimo caso – che è quello di fatto accertato dai giudici di merito la lesione non afferisce alla mera sfera funzionale delle prerogative assegnate al

20

di cui all’art. 294 cod. pen. al diritto di elettorato passivo, così come agli altri

cittadino eletto, ma al suo stesso diritto di elettorato passivo, il cui esercizio, a
cagione del comportamento antigiuridico dell’imputato, è stato posto nel nulla
mediante il costringimento della persona eletta ad abbandonare la carica a cui
l’esercizio del succitato diritto politico l’aveva, con l’elezione, assegnata.
Né merita censura la Corte territoriale per avere considerato, nel quadro
indicato, sussistente il reato di cui all’art. 294 cod. pen. anche per quanto
concerne il relativo elemento soggettivo: premessa, invero, la necessità del
riscontro dalla consapevolezza e volontà della condotta costituente l’elemento

all’esercizio del diritto politico del cittadino, ossia nel caso in esame le dimissioni
della Massa, la contestazione della sua evenienza formulata dal ricorrente non si
confronta con lo specifico accertamento compiuto sul punto da giudici di merito i
quali hanno chiarito, in modo del tutto insuperato, che il Muscas non faceva
mistero che il suo scopo era quello di far allontanare la Massa dalla carica di
Sindaco ed andare a nuove elezioni prima possibile.
Infine, sempre sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la caratura e
l’esperienza politica del Muscas, già due volte egli stesso Sindaco, rende
assolutamente inverosimile la prospettazione di un suo errore circa la natura del
diritto inciso. Fermo restando che, in ogni caso, non si richiede la consapevolezza
in capo all’agente che il diritto conculcato con la propria condotta sia un diritto
politico, posto che questo identifica l’oggetto della tutela penale, per cui
l’eventuale (e peraltro soltanto predicato) errore sul punto sarebbe restato
irrilevante, per gli effetti di cui all’art. 47 cod. pen.
Conseguentemente, il terzo motivo del ricorso deve essere rigettato.

8. Il quinto motivo, riguardando questioni sulla pena, non va esaminato,
data l’accertata prescrizione dei reati.

9. In ordine al sesto motivo, relativo alla mancata risposta in ordine al
carattere eccessivo ed immotivato dalla liquidazione dei danni ed alla mancata
considerazione dell’assoluzione del tentativo di estorsione sub B), la verifica della
motivazione fornita dai giudici di merito non appare censurabile sotto i profili
dedotti.
In effetti, l’esame della motivazione della sentenza di primo grado,
confermata da quella di appello, rende chiaro che alla base dell’accertamento del
pregiudizio ritenuto patito con riferimento a quello morale (o, meglio, non
patrimoniale), da un lato, dal Comune di Donori e, dall’altro, dalla Massa sono
stati posti, in via generale, la considerazione della natura dolosa della condotta
antigiuridica del Muscas e poi, per un verso, la valutazione del pregiudizio e del

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materiale con lo scopo di cagionare l’evento previsto dalla legge come vulnus

discredito patiti dal Comune suddetto, costretto al commissariamento ed a nuove
elezioni anticipate, e, dall’altro, il rilievo della sofferenza personale e familiare
patita dalla Massa nonché delle conseguenze ulteriori di natura permanente o
comunque duratura subìte dalla medesima parte civile, costretta ad abbandonare
la carica sindacale e la politica attiva, anche in tal caso in diretta dipendenza
dell’azione minatoria e molesta riconducibile all’imputato.
Quanto alla liquidazione, essa è avvenuta, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ.,
secondo criterio equitativo alla stregua dei suindicati fattori.

rappresentati da turbamenti morali della collettività, sono risarcibili a favore
degli enti pubblici esponenziali di essa, deve ribadirsi il principio secondo cui la
liquidazione di questa categoria di danno è affidata ad apprezzamenti
discrezionali ed equitativi del giudice di merito il quale ha, peraltro, il dovere di
dare conto delle circostanze di fatto considerate in sede di valutazione equitativa
e del percorso logico posto a base della decisione, senza che debba, tuttavia,
indicare in modo analitico i calcoli in base ai quali ha determinato il quantum del
risarcimento (Sez. 6, n. 20279 del 30/03/2017, Foglia, n. m.; Sez. 4, n. 18099
del 01/04/2015, Lucchelli, Rv. 263450).
I giudici di merito si sono attenuti a tale principio enucleando con sufficiente
precisione le circostanze di fatto che sono state poste, con discorso giustificativo
congruo, alla base dell’accertamento e della quantificazione dei danni patiti
dall’ente territoriale, per un verso, e dalla Massa, dall’altro.
9.2. Emerge, poi, con nettezza che è stata la complessiva attività
antigiuridica ascritta al Muscas in relazione al reato di cui all’art. 294 cod. pen. a
fornire ai giudici di merito gli elementi su cui l’attività di accertamento e
liquidazione equitativa si è poi dispiegata.
La denunciata incongruenza della mancanza di un intervento modificatore in
diminuzione dell’importo risarcitorio a seguito dell’avvenuta assoluzione
dell’imputato dal reato di cui agli artt. 56-629 cod. pen., di cui al capo B), non si
rivela effettivamente sussistente.
E’ vero che il Muscas è stato assolto dalla sentenza di appello dal reato sub
B) per insussistenza del fatto, senza alcuna riliquidazione del danno. Tuttavia,
l’analisi della condotta che sostanzia la tentata estorsione sub B) indirizza in
modo piano verso la conclusione che essa riguarda fatti che, non idonei a
configurare il reato di tentata estorsione, risultano poi sussunti anche nell’ambito
dell’imputazione di cui al capo A), quali comportamenti che hanno avuto rilievo
nella complessiva, effettuale condotta intimidatoria che ha integrato la fattispecie
ex art. 294 cod. pen.
Questo rilievo impone di concludere nel senso che il danno conseguenza del

22

9.1. Orbene, assodato in premessa che anche i danni non patrimoniali,

reato sub B), pur considerato dalla sentenza che lo ha liquidato, si identifica con
lo stesso pregiudizio determinato da quello sub A), secondo le chiare indicazioni
desumibili dalla richiamata motivazione.

10. In definitiva, agli effetti civili, l’impugnazione non merita di essere
accolta.
Il rigetto di essa determina, quanto al regolamento delle spese processuali
del grado relativo alla posizione della parte civile Comune di Donori (l’unica che

Tali spese sono da porre a carico del Muscas, anche qui soccombente
rispetto all’azione civile proposta nei suoi confronti, e vanno adeguatamente
liquidate, tenendo conto dell’attività effettivamente prestata, nell’opportuna
misura di euro 4.000,00, secondo la seguente specificazione.
Fase di studio

C

700,00

Fase introduttiva

C

1.400,00

Fase decisionale

C

1.900,00

Totale

C

4.000,00

Ai compensi professionali non va aggiunto alcun ristoro di spese borsuali,
non richiesto. Spetta invece alla suddetta parte civile, ex art. 2 d.m. n. 55 del
2014, il rimborso delle spese forfettarie nella – giusta – misura del 15%, oltre
all’IVA ed al contributo per la Cassa Previdenziale, da computarsi sull’imponibile.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché i reati
sono estinti per prescrizione.
Rigetta il ricorso nel resto e agli effetti civili. Condanna il ricorrente alla
rifusione, in favore della parte civile Comune di Donori, delle spese sostenute nel
grado, che liquida in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori (spese generali,
Iva e Cpa) come per legge.
Così deciso il 27 ottobre 2017

ha svolto attività processuale in questa sede).

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