Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20667 del 15/04/2016


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 20667 Anno 2016
Presidente: FIDELBO GIORGIO
Relatore: RICCIARELLI MASSIMO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
Lapunzina Giuseppa, nata a Messina il 07/11/1949

Avverso la sentenza del 08/11/2013 della Corte di appello di Messina

Visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso,
Udita la relazione svolta dal consigliere Massimo Ricciarelli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luigi
Birritteri, che ha concluso per il rigetto del ricorso
Udito il difensore, Avv. Salvatore Stroscio, che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell’8/11/2013 la Corte di appello di Messina ha confermato
quella in data 13/6/2012, con cui il Tribunale di Messina ha riconosciuto
Lapunzina Giuseppa colpevole del reato di cui all’art. 326 cod. pen., contestatole
al capo A), in esso assorbito quello di abuso di ufficio di cui al capo B), e l’ha
condannata con le attenuanti generiche alla pena di mesi quattro di reclusione,

Data Udienza: 15/04/2016

con la pena accessoria di legge, concedendo il beneficio della sospensione
condizionale della pena.

2. Ha proposto ricorso l’imputata tramite il suo difensore.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 649 cod. proc. pen., in
relazione all’assoluzione dal reato di cui all’art. 323 cod. pen. e alla condanna per

La contestazione si sarebbe dovuta reputare unitaria, giacché la condotta
descritta al capo a), incentrata sulla segretezza della notizia rivelata con abuso
della funzione, riguardante iscrizioni nel registro di cui all’art. 335 cod. proc.
pen., era richiamata al capo b) con l’aggiunta del profitto di natura patrimoniale,
costituito dal prestito erogato al destinatario della rivelazione, di cui si attendeva
la restituzione. Pertanto non vi sarebbe potuta essere assoluzione per
assorbimento, in quanto l’assoluzione era conseguenza dell’esistenza o
inesistenza del segreto d’ufficio, se e in quanto meritevole di tutela: non
esistendo il segreto non si sarebbe potuta pronunciare condanna, posto che per
la presunta abusiva condotta, finalizzata alla rivelazione, compreso il vantaggio
patrimoniale, gli stessi giudici avevano mandato assolta l’imputata.
2.2. Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 326 cod. pen.
La Corte aveva rilevato che si trattava di notizie in parte prive della
caratteristica della segretezza e in parte datate e riconosciuto la modesta
offensività della condotta, ma aveva pronunciato condanna, senza considerare il
principio affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione per cui il reato di
rivelazione di segreto di ufficio ha natura di reato di pericolo effettivo nel senso
che la rivelazione è punibile in quanto suscettibile di produrre nocumento a
mezzo della notizia da tenere segreta.
In particolare si era trattato di notizia contenuta in certificato rilasciato in
data 12/5/2010, che dal momento della consegna era ostensibile a chiungue,
cosicché rivelarne il contenuto non avrebbe potuto integrare il reato di cui all’art.
326 cod. pen.
Del resto deve ritenersi, secondo il ricorrente, che il reato riguardi solo
notizie coperte da segreto e sottratte alla divulgazione in ogni tempo e luogo e
nei confronti di chiunque, ma non anche quelle indebitamente diffuse in
violazione delle norme sul diritto di accesso agli atti della P.A. in quanto svelate a
chi non è titolare di tale diritto o senza il rispetto delle modalità previste.
Nel caso di specie l’interesse tutelato era correlato al buon andamento del
pubblica amministrazione con riferimento alla fase delle indagini, essendo il
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quello di cui all’art. 326 cod. pen.

registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen. a disposizione del P.M., con
separazione delle notizie che devono rimanere segrete da quelle che sono
trasmesse allo sportello istituito ai sensi della citata norma.
2.3. Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. in
relazione ai reati di cui agli artt. 323 e 326 cod. pen. e all’art. 15 cod. pen.
Le condotte previste dall’art. 323 cod. pen. e 326, comma terzo, cod. pen.

avrebbe consentito di procedere per l’altro.
Peraltro era stato erroneamente ritenuto che la clausola di consunzione di
cui all’art. 323 cod. pen. consentisse l’assorbimento dell’accusa nell’art. 326 cod.
pen., ciò che non sarebbe stato possibile in quanto il Tribunale aveva applicato
l’art. 326 comma primo, pur avendo descritto la condotta prevista dal comma
terzo.
Era dunque più grave il reato di abuso di ufficio e in assenza di un rapporto
di specialità erroneamente era stata pronunciata condanna nonostante
l’assoluzione dal reato di cui all’art. 323 cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

Il primo e il terzo motivo, da valutarsi congiuntamente, sono

inammissibili, perché manifestamente infondati.
In realtà il primo Giudice non ha pronunciato una sentenza di assoluzione,
ma si è limitato a dichiarare assorbita l’ipotesi di abuso di ufficio in quella di
rivelazione del segreto di ufficio, operando in tal modo una riqualificazione del
fatto.
Non può dunque venire in rilievo il divieto di bis in idem, che ai sensi
dell’art. 649 cod. proc. pen. determina l’improcedibilità dell’azione penale,
giacché non è intervenuta una sentenza liberatoria, riguardante
fenomenicamente il medesimo fatto, ma solo una delimitazione del titolo di reato
per cui è intervenuta condanna, concernente il fatto complessivamente
contestato e ricondotto giuridicamente ad unità.

2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. I Giudici di merito hanno segnalato che l’imputata in data 16 novembre
2010 ha rivelato nel corso di una telefonata a tale Salvato il contenuto delle
iscrizioni riguardanti Di Pietro Giuseppe, elencate nella certificazione rilasciata in
pari data al Di Pietro, che l’aveva richiesta in precedenza.

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sono identiche, per cui l’assoluzione dal reato di cui all’art. 323 cod. pen. non

Tra tali iscrizioni ne figuravano alcune già a conoscenza del Salvato,
comunque autorizzato quale persona offesa ad averne notizia, ma anche altre,
come quella relativa al proc. 8647/2007 R.G.N.R., iscritto a carico del Di Pietro,
rispetto al quale il Salvato non rivestiva posizione di persona offesa, tanto che
tale procedimento non figurava in precedente certificazione richiesta dal Salvato.

che la certificazione si sarebbe dovuta considerare ormai ostensibile a chiunque,
la circostanza che il reato di rivelazione di notizie segrete sarebbe riferibile alle
notizie sottratte alla divulgazione in ogni tempo e luogo e nei confronti di
chiunque, il rilievo che nel caso di specie vi era distinzione tra le notizie segrete e
le notizie già riconosciute come divulgabili, trasmesse allo sportello ai sensi
dell’art. 335 cod. proc. pen.
Nel corso della discussione il difensore del ricorrente ha prospettato semmai
la riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 196 del 2003.
2.3. Si tratta di assunti infondati.
In realtà è stato affermato che il delitto di rivelazione di segreto di ufficio ha
natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, nel senso che la
rivelazione è punibile in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della
notizia da tenere segreta (Cass. Sez. U. n. 4694 del 27/10/2011, dep. nel 2012,
Casani, rv. 251271).
Ma è stato anche precisato (Cass. Sez. U. n. 4694, Casani, cit., in
motivazione) che sulla scorta di tale principio il reato non sussiste nelle ipotesi di
notizia divenuta di pubblico dominio, nel caso di notizie segrete comunicate a
persone autorizzate a riceverle per la realizzazione di fini istituzionali, o a
soggetti che le abbiano già conosciute, fermo restando per costoro il limite della
non conoscibilità dell’evoluzione della notizia oltre i termini dell’apporto da essi
fornito: conseguentemente la non punibilità deve ritenersi circoscritta a ipotesi
limitate, essendo stato il reato ravvisato quando il fatto sia conosciuto in un
ambito limitato di persone e la condotta abbia avuto l’effetto di diffonderlo in un
ambito più vasto, quando la divulgazione della notizia sia anche soltanto
suscettibile di arrecare pregiudizio alla pubblica amministrazione o ad un terzo,
quando è la legge stessa a prevedere l’obbligo del segreto in relazione ad un
determinato atto o ad un determinato fatto, a prescindere dalla potenzialità del
pregiudizio (così ancora Cass. Sez. U. n. 4694, Casani, cit.).
A fronte di ciò, con specifico riguardo al caso delle iscrizioni nel registro di
cui all’art. 335 cod. proc. pen., è stato affermato che integra il delitto di
rivelazione del segreto di ufficio la condotta del collaboratore di cancelleria che
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2.2. A fronte di ciò il ricorrente deduce l’inoffensività della condotta, il fatto

fornisca a terzi non autorizzati a riceverla e senza rispettare la procedura
prevista dall’art. 110-bis disp. att. cod. proc. pen., la notizia dell’iscrizione nel
registro degli indagati di una determinata persona (Cass. Sez. 6, n. 22276 del
5/4/2012, Maggioni, rv. 252871).
Ciò è stato desunto dal generale obbligo di segretezza gravante sugli
impiegati dello Stato, per effetto del quale essi rispondono anche per la

particolare meccanismo contemplato dagli artt. 335 cod. proc. pen. e 110-bis
disp. att. cod. proc. pen., solo alla stregua del quale la rivelazione delle iscrizioni
all’avente diritto può dirsi legittimata.
A ben guardare dunque è proprio il rispetto della specifica procedura che
definisce la sfera di concreta offensività della rivelazione, in quanto la notizia sia
comunicata al solo avente diritto e in quanto comunque la stessa non sia già
legittimamente a conoscenza di terzi.
2.4. In tale prospettiva è irrilevante che la rivelazione avesse avuto ad
oggetto il contenuto della certificazione rilasciata in pari data al Di Pietro, giacché
tale fatto non aveva rilievo erga omnes ma aveva un effetto soggettivamente
delimitato, essendo altresì escluso che si trattasse di fatti notori, ed è parimenti
irrilevante che il Salvato avesse avuto già legittimamente notizia di alcune di
quelle iscrizioni, posto che comunque nel caso di specie venivano in rilievo anche
iscrizioni ulteriori, cui il predetto non avrebbe potuto accedere, nonché, in
negativo (come rimarcato dalla Corte territoriale), la notizia dell’assenza di altre
iscrizioni relative al Di Pietro, oltre a quelle certificate.
Ciò consente di ritenere che permanesse il segreto delle notizie rivelate e
che, per lo meno con riguardo a quelle non già legittimamente conosciute dal
Salvato, sia stata correttamente affermata la penale responsabilità -per
violazione del segreto d’ufficio- dell”imputata, impiegata presso la Procura della
Repubblica di Messina.
E’ evidentemente non pertinente il riferimento all’art. 167 d.lgs. 196 del
2003, che concerne il trattamento di dati personali e presuppone che non siano
ravvisabili reati più gravi.

3. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento
delle spese processuali.

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violazione delle norme sul diritto di accesso, nonché dalla previsione del

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 15/4/2016

Il Pre idente

Il Consigliere stensore

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