Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20590 del 05/02/2016


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 20590 Anno 2016
Presidente: RAMACCI LUCA
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
CAMMALLERI CARMEN N. IL 14/12/1971
avverso la sentenza n. 6370/2014 CORTE APPELLO di MILANO, del
26/01/2015
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALESSANDRO MARIA
ANDRONIO ;

Data Udienza: 05/02/2016

RITENUTO IN FATTO
1. – La Corte d’appello di Milano ha confermato, quanto alla responsabilità penale,
la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, con la quale l’imputata era stata condannata,
riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la sospensione condizionale della
pena, ad un anno di reclusione, per il reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000,
perché, in qualità di legale rappresentante di una società, al fine di evadere le imposte
sui redditi e sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni

La Corte d’appello, riconosciuta l’applicabilità della circostanza attenuante di cui al
comma 3 del richiamato art. 2 vigente all’epoca del fatto, ha rideterminato la pena nella
misura finale di sei mesi di reclusione.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione, deducendo, in primo luogo, la mancanza di motivazione in ordine alla
sussistenza della prova della responsabilità penale. Non si sarebbe considerata, in
particolare, la mancanza dell’elemento soggettivo, che sarebbe emersa anche dalla
sentenza della Commissione tributaria che aveva accolto il ricorso della contribuente.
Con un secondo motivo di doglianza, si lamenta che il giudice di primo grado era
partito nella determinazione della pena dai minimo edittale, mentre la Corte d’appello,
pur riconoscendo la fattispecie di cui al comma 3 dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000
applicabile ratione temporis, sarebbe partita da una misura superiore al minimo.
Si lamenta, in terzo luogo, la mancata sostituzione della pena detentiva con la
pena pecuniaria, ex art. 53 della legge n. 689 del 1981.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo di doglianza, oltre a essere formulato in modo non specifico,
costituisce la mera riproposizione di rilievi già esaminati e correttamente disattesi dai
giudici di secondo grado.
È sufficiente qui evidenziare che nella sentenza impugnata – con motivazione
adeguata e coerente e, dunque, insindacabile in sede di legittimità – si valorizza il dato
istruttorio rappresentato dall’esito degli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza, a
fronte dei quali la difesa non ha prodotto alcuna documentazione di segno contrario a
sostegno della ritenuta non fittizietà delle prestazioni oggetto delle fatture. E la prova
del dolo di evasione fiscale è stata correttamente desunta dal complesso delle condotte,
evidentemente dirette a ridurre il reddito imponibile e l’Iva dovuta.

inesistenti, indicava nelle dichiarazioni annuali relative al 2006 elementi passivi fittizi.

Quanto alla circostanza attenuante di cui al comma 3 dell’art. 2 del d.lgs. n. 74
del 2000 vigente all’epoca dei fatti è sufficiente qui rilevare che la Corte d’appello, nel
riconoscerne d’ufficio la sussistenza, non era tenuta ad applicare il minimo edittale, ben
potendo discostarsene allo scopo di di adeguare la pena all’effettiva gravità del fatto,
anche se il giudice di primo grado aveva ritenuto di riferirsi al minimo edittale previsto
per la fattispecie non attenuata.
Né i giudici di secondo grado erano tenuti ad effettuare la sostituzione della pena

in tal senso svolti dalla difesa, anche in via subordinata, nel giudizio d’appello. La difesa,
peraltro, nulla deduce, neanche con il ricorso per cassazione, circa la sussistenza dei
presupposti di fatto per la richiesta sostituzione.
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto
conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che,
nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla
declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc.
pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma,
in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2016.

detentiva o a fornire motivazione per la sua mancata sostituzione, in mancanza di rilievi

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