Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20562 del 21/04/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 20562 Anno 2015
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: RAMACCI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
RABITTI SERGIO N. IL 19/01/1942
avverso la sentenza n. 1889/2013 TRIBUNALE di RAVENNA, del
07/04/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 21/04/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCA RAMACCI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. f(– ‘
QUI
che ha concluso per i

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 21/04/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Ravenna, con sentenza del 7 aprile 2014 ha riconosciuto
Sergio RABITTI responsabile del reato di cui all’art. 18, comma 2 d.lgs.
276\2003, così modificata l’originaria imputazione concernente il reato di cui agli
artt. 4, comma 1, lett. a) e b) e 28 d.lgs. 276/2003 perché, quale amministratore

finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, presso le
sedi operative di Ravenna e Faenza, a partire dall’1/1/2010 fino alla data del
22/4/2010, le prestazioni lavorative di 4 dipendenti per complessive 342
giornate, somministrate in carenza di apposita iscrizione all’Albo di cui all’art. 4
d.lgs. 276/2003 da Giampaolo DE LUCA, nella sua qualità di legale
rappresentante ed amministratore unico della «C.S.I. Cooperatiova Servizi
Integrati» di Cosenza.
Avverso tale pronuncia il predetto propone personalmente ricorso per
cassazione.

2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, rilevando la
mancanza di correlazione tra l’accusa e la decisione, poiché il giudice del merito,
solo con riferimento alla sua posizione, avrebbe affermato la responsabilità
penale per un fatto diverso da quello contestato, rispetto al quale avrebbe
dovuto disporre la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero, peraltro senza
indicarne in alcun modo le ragioni.

3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta il non corretto espletamento
della procedura di estinzione mediante oblazione, non avendo egli ricevuto
alcuna comunicazione da parte del personale ispettivo della Direzione Provinciale
del lavoro che, avendo egli cessato la carica di amministratore della società,
avrebbe dovuto essergli spedita presso la residenza, mentre, da quanto risultante
agli atti del procedimento, sarebbe stata inviata «presso un negozio di Faenza
nelle mani di una commessa»

la quale, sentita nel corso dell’istruttoria

dibattimentale, avrebbe escluso di conoscerlo ed ammesso di non averlo
contattato per renderlo edotto della comunicazione, cosicché difetterebbe la
condizione di procedibilità per il reato contestato.

4. Con un terzo motivo di ricorso deduce la nullità della sentenza per la
omessa o, comunque, parziale indicazione delle conclusioni delle parti, essendo

1

unico della «M.S. Abbigliamento s.r.I.», utilizzava illecitamente e con la specifica

stata tralasciata l’indicazione della richiesta della difesa di

rilevare

l’improcedibilità dell’azione penale.

5. Con un quarto motivo di ricorso denuncia il vizio di motivazione, non
avendo il giudice del merito specificato le ragioni per le quali è pervenuto alla
riqualificazione del fatto contestato ed alla decisione di condanna, né avendo
indicato le modalità di quantificazione della pena irrogata.
Rileva, inoltre, che le risultanze istruttorie, che indica nel dettaglio,

6.

Con un quinto motivo di ricorso si duole, infine, del mancato

riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che pure ritiene del tutto
immotivato.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.
Va preliminarmente osservato, con riferimento al primo motivo di ricorso,
che l’art. 521 cod. proc. pen., nello stabilire che il giudice possa dare al fatto una
diversa qualificazione giuridica, richiede che il fatto storico addebitato rimanga
identico per ciò che concerne la condotta, l’evento e l’elemento soggettivo.
In applicazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, la
diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato si ha dunque quando il
secondo si pone, rispetto al primo, in un rapporto di completa eterogeneità.
La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro rilevato, in più occasioni, che
la violazione di detto principio sia ravvisabile soltanto quando la modifica
dell’imputazione pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato (cfr. ex pl. Sez.
2, n. 34969 del 10/5/2013, Caterino e altri, Rv. 257782; Sez. 6, n. 6346 del
9/11/2012 (dep. 2013), Domizi e altri, Rv. 254888; Sez. 3, n. 41478 del
4/10/2012, Stagnoli, Rv. 253871; Sez. 3, n. 36817 del 14/6/2011, T. D. M., Rv.
251081; Sez. L1, n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051).
Nel considerare la questione in esame, inoltre, si è anche tenuto conto dei
principi stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte Europea, 11
dicembre 2007, Drassich c. Italia; Corte Europea, 25 marzo 1999, Pellissier e
Sassi c. Francia) che questa Corte ha avuto modo di richiamare (Sez. 6, n. 20500

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avrebbero consentito di escludere la sua responsabilità per i fatti addebitatigli

del 19/2/2010, Fadda, Rv. 247371) ricordando che “la Corte Europea dei diritti
dell’uomo ha affermato che la portata dell’art. 6, par. 3, lett. a) e b) della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo impone un concetto ampio del
principio del contraddittorio, che non si limita solo alla formazione della prova,
ma che proietta i suoi effetti anche alla valutazione giuridica del fatto. In
sostanza, l’imputato deve essere messo nelle condizioni di discutere in
contraddittorio ogni profilo dell’accusa che gli viene mossa, compresa la
qualificazione giuridica dei fatti addebitati. Il diritto ad essere informato

l’accusa stessa, implica il diritto dell’imputato a preparare la sua difesa, sicché se
il giudice ha la possibilità di riqualificare i fatti, deve essere assicurata
all’imputato la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in maniera
concreta ed effettiva: ciò presuppone che sia informato, in tempo utile, sia
dell’accusa, sia della qualificazione giuridica dei fatti a carico”.
Sempre in applicazione di tali principi, si è ulteriormente chiarito che la
diversa qualificazione giuridica del fatto non determina la violazione dell’art. 521
cod. proc. pen. quando appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del
giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e
l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto, nella fase di merito, la possibilità di
interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario
rimedio dell’impugnazione (Sez. 5, n. 7984 del 24/9/2012 (dep. 2013), Jovanovic
e altro, Rv. 254649. V. anche Sez. 1, n. 9091 del 18/2/2010, Di Gati e altri, Rv.
246494).
Inoltre, nella decisione in precedenza richiamata (SS.UU. n. 36651\2010, cit.)
le Sezioni Unite hanno anche precisato che l’indagine finalizzata alla verifica della
violazione del principio di correlazione non deve esaurirsi nel pedissequo e mero
confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, in quanto,
vertendosi in materia di garanzie e di difesa, non vi è violazione quando
l’imputato, attraverso lo sviluppo del processo, sia venuto a trovarsi nella
condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.
Deve conseguentemente tenersi conto non soltanto del fatto descritto in
imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a
conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale
contestazione, in modo tale da porlo in condizione di esercitare le sue difese
sull’intero materiale probatorio valorizzato ai fini della decisione (Sez. VI n. 5890,
6 febbraio 2013; Sez. III n. 15655, 16 aprile 2008 ed altre prec. conf.).

2. Date tali premesse, deve rilevarsi che, nel caso in esame, rispetto
all’originaria contestazione, che riguardava gli artt. 4, comma 1, lett. a) e b) e 28

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dell’accusa e, quindi, dei fatti materiali posti a suo carico e sui quali si fonda

d.lgs. 276/2003, il ricorrente è stato condannato per la violazione dell’art. 18,
comma 2 d.lgs. 276\2003.
La sentenza impugnata non indica, peraltro, le ragioni per le quali si è
pervenuti a tale decisione.
Ciò posto, si ricorda che l’art. 28 stabilisce che, «ferme restando le sanzioni
di cui all’articolo 18, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con
la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto
collettivo applicato al lavoratore, somministratore e utilizzatore sono puniti con

somministrazione».
L’art. 18 prevede, invece, che «nei confronti dell’utilizzatore che ricorra alla
somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti diversi da quelli di
cui all’articolo 4, comma 1, lettera a), ovvero da parte di soggetti diversi da quelli
di cui all’articolo 4, comma 1, lettera b), o comunque al di fuori dei limiti ivi
previsti, si applica la pena dell’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato
e per ogni giornata di occupazione. Se vi è sfruttamento dei minori, la pena è
dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo».
Si tratta, all’evidenza, di due fattispecie diverse, la prima delle quali, relativa
alle ipotesi di «somministrazione fraudolenta», riguardante una condotta
oggettivamente più grave, richiede, sotto il profilo soggettivo, lo specifico fine di
elusione di norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al
lavoratore.

3. Va tuttavia rilevato che, secondo quanto evidenziato nella sentenza
impugnata, la diversa qualificazione del fatto era stata sollecitata dalla difesa
dell’imputato nelle sue conclusioni, laddove, in «ulteriore subordine»,

l’Avv.

MADELLA, difensore dell’odierno ricorrente, richiedeva il riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche «qualificando l’ipotesi del reato art. 4 comma. 1
lett. a) sanzionato art. 18 d.P.R. 276/03»,

cosicché il giudice del merito ha

provveduto recependo in pieno la sollecitazione del difensore.
Tale evenienza, dunque, non ha comportato alcuna lesione del diritto di
difesa, poiché le conclusioni cui è pervenuto il giudicante coincidono
perfettamente con le richieste formulate dal difensore, evidentemente all’esito di
una articolata interlocuzione.
Inoltre, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 18 deve ritenersi più
mite, in quanto la somministrazione comporta per l’utilizzatore sanzioni ulteriori
rispetto a quelle stabilite.
Risulta pertanto evidente la carenza di interesse all’impugnazione.

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una ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di

4. Quanto al secondo motivo di ricorso si osserva che al summenzionato
reato è certamente applicabile la procedura di estinzione mediante oblazione
prevista dagli artt. 20 e ss. del d.lgs. 19 dicembre 1994 n. 758, trattandosi di
violazione contravvenzionale attinente a materia affidata alla vigilanza della
direzione provinciale del lavoro, come già rilevato dalla giurisprudenza di questa
Corte (Sez. 3, n. 2857 del 16/10/2013 (dep.2014), Carelli, Rv. 258626) in ragione
di quanto disposto dagli artt. 13 e 15 d.lgs. 124\2004.
Quanto alla natura di condizione di procedibilità del previo espletamento

espressamente, così come altre pronunce precedenti (Sez. 3, n. 34750 del
3/5/2011, Costantini, Rv. 251229; Sez. 3, n. 34900 del 6/6/2007, P.M. in proc. Loi,
Rv. 237198).
Si è a tale proposito osservato, con riferimento a quanto disposto dal d.lgs.
124\2004 (sent. 34900/2007, cit.), che sebbene il reato contravvenzionale
«sussista nella sua perfezione ontologica anche prima che si apra e si chiuda il
procedimento amministrativo in questione, che condiziona la prosecuzione e
l’esito del procedimento penale, e se è vero che la condotta di inottemperanza
all’obbligo di regolarizzazione e di pagamento della sanzione indicato dall’organo
di vigilanza, purché ascrivibile al soggetto agente quanto meno a titolo di colpa,
integra una condizione di punibilità “intrinseca”, cioè incidente sull’interesse
tutelato dalla fattispecie, è anche vero che l’effettivo ed esatto verificarsi, in tutti
i suoi passaggi, della procedura amministrativa prevista dalle disposizioni in
esame, configura una condizione di procedibilità dell’azione penale»,

così

ribadendo le conclusioni cui erano pervenute altre precedenti pronunce.
A tale indirizzo si sono adeguate le altre decisioni sopra richiamate, senza
ulteriori specificazioni.
Va tuttavia rilevato, pur prendendo atto di tali arresti, che dalle conclusioni
cui si è pervenuti con la sentenza 34900/2007 si sono motivatamente discostate,
con argomentazioni che il Collegio condivide, successive pronunce (Sez. 3, n.
26758 del 5/5/2010, Cionna e altri, Rv. 248097; Sez. 3, n. 5864 del 18/11/2010
(dep. 2011), Zecchino, Rv. 249566) nelle quali, premessa una articolata disamina
della normativa, cui si rinvia, precisano, in primo luogo, come sia ben possibile e
del tutto legittimo che l’organo di vigilanza non impartisca alcuna prescrizione di
regolarizzazione ed una tale evenienza non condizioni affatto l’esercizio
dell’azione penale, cosa che invece avviene, ma per un limitato periodo di tempo,
solo nel caso in cui l’organo di vigilanza impartisca al trasgressore una
prescrizione di regolarizzazione.
Veniva altresì richiamata l’attenzione sul fatto che l’art. 15 d.lgs. 124\2004,
oltre ad avere ampliato l’ambito di applicazione del d.lgs. 758\1994, ha previsto

5

della procedura di estinzione, la summenzionata decisione la riconosce

l’applicabilità della procedura di regolarizzazione anche nei casi in cui la
fattispecie sia a condotta esaurita, ovvero nelle ipotesi in cui il trasgressore abbia
autonomamente provveduto all’adempimento degli obblighi di legge penalmente
sanzionati prima dell’emanazione della prescrizione.
All’esito di tale disamina, le richiamate sentenze così testualmente
sintetizzano le conclusioni cui pervengono: «a) la prescrizione di regolarizzazione
può – non necessariamente deve – essere impartita dall’organo di vigilanza il
quale, vuoi inizialmente (ove sia quest’ultimo a comunicare la notizia di reato al

da altra fonte, ad investire l’organo di vigilanza), può determinarsi a non
impartirne alcuna (perché, ad es., non c’è nulla da regolarizzare, o perché la
regolarizzazione c’è già stata ed è congrua); b) la sospensione del processo
penale di cui all’art. 23 cit., nell’ipotesi in cui la prescrizione di regolarizzazione
sia stata impartita dall’organo di vigilanza (ove sia quest’ultimo a comunicare la
notizia di reato al P.M.), ovvero possa ancora essere impartita (ove sia il P.M., che
abbia ricevuto al notizia di reato da altra fonte, ad investire l’organo di vigilanza),
non è mai sine die, ma ha comunque un limite temporale massimo (di cui si è
detto sopra) che chiude la parentesi mirata alla conformazione da parte del
trasgressore alla prescrizione di regolarizzazione, nel senso sopra chiarito,
impartita dall’organo di vigilanza; c) non c’è alcun “diritto” del contravventore a
ricevere la prescrizione di regolarizzazione dall’organo di vigilanza con
assegnazione del relativo termine per adempiere; egli è comunque tenuto a
“regolarizzare” – ossia a rispettare le norme di prevenzione in materia di
sicurezza e di igiene del lavoro – anche se alla prescrizione di legge non si
aggiunga la prescrizione dell’organo di vigilanza di rispettarla adottando in
particolare “specifiche misure”; ma in ogni caso egli, ove abbia “regolarizzato”
adottando misure equiparabili a quelle che l’organo di vigilanza avrebbe potuto
impartirgli con la prescrizione di regolarizzazione, può comunque chiedere al
giudice di essere ammesso all’oblazione in misura ridotta, beneficio che non gli è
precluso dal fatto che nessuna prescrizione di regolarizzazione gli sia stata
impartita dall’organo di vigilanza (ciò in ragione di un’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 24, comma 3)».
Si perviene poi all’ulteriore conclusione secondo la quale il fatto che l’organo
di vigilanza, nel comunicare la notizia di reato al Pubblico Ministero, non abbia
impartito alcuna prescrizione di regolarizzazione all’imputato, non preclude, se è
stata constatata l’avvenuta regolarizzazione, la richiesta di ammissione
all’oblazione in sede amministrativa, così come non impedisce, successivamente,
la richiesta dell’imputato al giudice di essere ammesso all’oblazione ordinaria in
sede giudiziaria nella stessa misura agevolata dell’oblazione in sede

6

P.M.), vuoi successivamente (ove sia il P.M., che abbia ricevuto la notizia di reato

amministrativa.

5.

Alla luce di quanto sopra esposto, dunque, l’eventuale mancato

espletamento della procedura di estinzione non avrebbe comportato
l’improcedibilità dell’azione penale e non avrebbe comunque precluso al
ricorrente di definire la propria posizione attraverso l’oblazione in sede
amministrativa o penale.
Nella fattispecie, tuttavia, risulta dalla sentenza impugnata che l’Ispettorato

violazione, con contestuale prescrizione di eliminare le irregolarità, nel caso
fossero ancora sussistenti ovvero accedere alla procedura di definizione
dell’illecito in sede amministrativa.
Il giudice del merito ha quindi verificato, con accertamento in fatto, l’avvio
della procedura di regolarizzazione e l’inoltro della comunicazione a tutti i
soggetti interessati.
Il ricorrente si duole, però, del fatto che la comunicazione sarebbe stata
inviata in luogo diverso dalla sua abitazione e dalla sede dell’azienda.
Una tale evenienza, ancorché dimostrata, non avrebbe tuttavia inciso, per le
ragioni dianzi esposte sulla procedibilità dell’azione penale.
Il motivo di ricorso è, pertanto, infondato.

6. A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne il terzo
motivo di ricorso, perché anche la mancanza totale dell’indicazione,
nell’intestazione della sentenza, delle conclusioni delle parti, non comporta
alcuna conseguenza, non essendo tale ipotesi prevista tra i motivi di nullità della
sentenza dall’art. 546 cod. proc. pen. (cfr. Sez. 6, n. 5907 del 29/11/2011 (dep.
2012), Borella, Rv. 252404; Sez. 3, n. 19077 del 24/3/2009, Aberham e altri, Rv.
243764).
Nel caso di specie, peraltro, la censura riguarda non la mancanza assoluta
delle conclusioni, bensì la mera non corretta riproduzione delle stesse.

7. Per ciò che concerne, poi, il quarto motivo di ricorso, deve rilevarsi che la
sentenza impugnata descrive sufficientemente gli esiti degli accertamenti
espletati e la posizione soggettiva dei singoli imputati, dando conto delle ragioni
per le quali perviene all’affermazione di responsabilità penale.
La motivazione, che appare immune da vizi logici o manifeste contraddizioni,
non risulta criticabile in questa sede, dove non possono avere ingresso le censure
formulate dal ricorrente, articolate in fatto e contenenti plurimi richiami ad atti
del procedimento cui questa Corte non ha accesso ed alle risultanze

7

del lavoro aveva inviato a tutti gli imputati gli avvisi di accertamento della

dell’istruzione dibattimentale che non possono essere qui sottoposte ad
autonoma valutazione.

8. A conclusioni diverse deve invece pervenirsi per ciò che concerne la
determinazione della pena, pure oggetto di censura nel medesimo motivo di
ricorso ed il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, di cui tratta,
invece, il quinto motivo di ricorso.
Il giudice, nel quantificare la pena, opera una valutazione discrezionale che

Inoltre, come si è già avuto modo di rilevare, la valutazione di congruità dei
criteri di quantificazione della pena utilizzati dal giudice del merito possono
valere anche quale implicita motivazione del diniego delle attenuanti generiche
(Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248737; Sez. 1, n. 46954 del
4/11/2004, Palmisani, Rv. 230591. Conf. Sez. 4, n. 23679 del 23 aprile 2013,
Viale, Rv. 256201).
Nel caso in esame, la richiesta delle attenuanti generiche era stata
esplicitamente formulata dalla difesa, come risulta dalle conclusioni riportate in
sentenza.
Sul punto tuttavia, la motivazione è completamente assente, perché il
giudice ha omesso di pronunciarsi sulla richiesta.
Quanto alla quantificazione della pena, vi è un laconico richiamo ai criteri di
cui all’art. 28 del d.lgs. 276/03 senza alcuna ulteriore precisazione che consenta
di verificare il calcolo effettuato e senza considerare, peraltro, che, riguardo
all’odierno ricorrente, il giudice avrebbe dovuto fare riferimento all’articolo 18 del
medesimo decreto in conseguenza della diversa qualificazione del fatto.

9. La evidente lacuna motivazionale impone pertanto l’annullamento con
rinvio della sentenza impugnata limitatamente al riconoscimento o meno delle
richieste attenuanti generiche ed alla determinazione della pena, con l’ulteriore
precisazione che il giudicato formatosi sull’accertamento del reato e della
responsabilità impedisce la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione
sopravvenuta alla pronuncia d’annullamento.
A tale proposito va rilevato che, come già affermato da questa Corte (Sez. 3,
n. 2857 del 16/10/2013 (dep.2014), Carelli, Rv. 258626, cit.; Sez. 3, n. 16381 del
26/1/2010, RG. in proc. De Martiis, Rv. 246754; Sez. 3, n. 25726 del 24/2/2004,
Guerra, Rv. 228957), il reato non è scindibile in una serie di fatti distinti in
relazione ad ogni lavoratore e ad ogni giornata lavorativa, ma ha natura di reato
permanente che si protrae unitariamente sino a quando cessa la
somministrazione abusiva (quindi, nel caso in esame, fino al 22/4/2010).

8

richiede una motivazione, ancorché sintetica.

,

..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla applicabilità delle

Tribunale di Ravenna.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in data 21.4.2015

circostanze attenuanti generiche ed alla determinazione della pena, con rinvio al

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