Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20547 del 14/04/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 20547 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da
– CARNAZZA EMANUELE, n. 28/03/1977 a Ragusa

avverso la sentenza della Corte d’appello di CATANIA in data 20/12/2013;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. V. D’Ambrosio, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Data Udienza: 14/04/2015

RITENUTO IN FATTO

1. CARNAZZA EMANUELE ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte
d’appello di CATANIA emessa in data 20/12/2013, depositata in data
31/10/2014, con cui veniva confermata la sentenza emessa in data 21/01/2013
dal Tribunale di RAGUSA, che, nel condannarlo alla pena condizionalmente

colpevole del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed
assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (artt. 81 cpv, cod.
pen., 2, legge n. 638 del 1983: mensilità contestate da aprile a luglio 2007, da
settembre a novembre 2007 e da giugno a luglio 2008).

2. Con il ricorso per cassazione, proposto dal difensore fiduciario cassazionista
del ricorrente, vengono dedotti due motivi, di seguito enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. Att. Cod. Proc. Pen.

2.1. Deduce il ricorrente, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b),
Cod. Proc. Pen., in particolare per violazione dell’art. 2, comma secondo, lett. c),
legge n. 67 del 2014.
In particolare, sostiene il ricorrente, la legge n. 67 del 2014 ha delegato il
Governo all’emanazione di decreti legislativi volti a depenalizzare, tra gli altri, il
reato in esame, purchè l’omesso versamento non ecceda complessivamente il
limite di 10.000,00 euro annui; nel caso in esame, rientrandosi nella soglia
indicata dal legislatore, l’entrata in vigore della legge avrebbe determinato la
depenalizzazione di tutte quelle condotte astrattamente rientranti nella
previsione della legge di depenalizzazione; la circostanza che non siano stati
ancora emanati i decreti delegati non sarebbe ostativa alla pronuncia di
annullamento per intervenuta depenalizzazione, ciò in quanto la semplice entrata
in vigore della legge delega estrinseca e renderebbe definitiva la volontà del
legislatore di non perseguire più penalmente gli illeciti penali ivi elencati, senza
alcuna possibilità di modifica sul punto da parte della decretazione delegata.

2.2. Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b)
ed e), Cod. Proc. Pen., in particolare per violazione dell’art. 2, legge n. 638 del
1983, con i correlati vizi di contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione.
In particolare, la censura investe l’impugnata sentenza per aver i giudici di
appello disatteso la censura difensiva relativa alla mancata consapevolezza da
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sospesa di mesi 2 e gg. 10 di reclusione ed € 70,00 di multa, lo aveva dichiarato

parte dell’imputato di poter beneficiare dalla causa di non punibilità prevista
dall’art. 2, comma 1 bis, legge n 638 del 1983, sostiene, sul punto, il ricorrente
che la Corte, tralasciando l’esame dell’eccezione di nullità della notifica
dell’accertamento INPS con cui si diffidava l’imputato al pagamento di quanto
dovuto con l’avviso che se lo stesso fosse avvenuto nei tre mesi dalla
notificazione egli avrebbe potuto beneficiare di detta causa, avrebbe superato

della contestazione in sede di notifica dell’avviso di conclusione delle indagini
preliminari, avvenuta il 9/05/2012, senza adempiere al versamento dei
contributi; tale affermazione sarebbe erronea in diritto e viziata sotto il profilo
motivazionale, atteso che non terrebbe conto di quanto autorevolmente
affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota sentenza n. 1855/2011,
avendo infatti precisato il Supremo Collegio che il giudice di merito deve
verificare se l’imputato sia stato raggiunto in sede giudiziaria da un atto di
contenuto equipollente all’avviso dell’ente previdenziale che gli abbia consentito,
sul piano sostanziale, di esercitare la facoltà concessagli dalla legge; detta
verifica, ad avviso del ricorrente, sarebbe mancata, sia da parte del primo
giudice che della Corte d’appello, essendo peraltro evidente che né l’avviso ex
art. 415 bis cod. proc. pen. né il decreto di citazione a giudizio contengono tutti
gli elementi indicati dalle Sezioni Unite (indicazione periodo di omesso
versamento delle ritenute; indicazione dell’importo di ciascuna ritenuta omessa;
indicazione della sede dell’ente presso cui effettuare il versamento nei tre mesi;
espresso avviso che il pagamento tempestivo consente di beneficare della causa
di non punibilità); quanto sostenuto dalla Corte d’appello, pertanto, attesa
l’erroneità, inficerebbe l’impugnata sentenza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

4. Seguendo l’ordine sistematico imposto dalla struttura dell’impugnazione di
legittimità, dev’essere anzitutto esaminato il primo motivo, con cui il ricorrente come detto -sostiene che l’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 avrebbe
“depenalizzato” il reato per cui si procede, non rilevando la mancata
emanazione, ad oggi, dei decreti delegati.
La tesi, pur suggestiva, è priva di pregio.
Va premesso che l’art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67 ha conferito al
Governo la delega per la riforma del sistema sanzionatorio. Per quel che qui più
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l’eccezione affermando che l’imputato aveva avuto comunque piena conoscenza

interessa, l’art. 2 lett. c) del predetto provvedimento ha sancito la
trasformazione in illecito amministrativo del delitto di cui all’art. 2, comma 1 bis,
d.l. 12 settembre 1983, n. 463; purché, stabilisce la legge delega, il mancato
versamento delle ritenute previdenziali non superi la soglia di 10.000 euro annui.
Secondo la tesi del ricorrente che richiama autorevole dottrina e il decisum della
Corte Costituzionale (sentenza n. 224 del 1990), la legge delega non è legge

rapporti “interni” tra Parlamento e Governo ma costituisce fonte direttamente
produttiva di norme giuridiche. Ad avviso del ricorrente, da quanto precede
deriva che il contenuto di delega della I. 67/2014, se certamente non ha
provveduto ad una formale depenalizzazione dell’art. 2 d.l. 463/1983,
possiederebbe tuttavia, con certezza, l’attitudine ad orientarne l’interpretazione
e, più in particolare, a completare il contenuto precettivo di quanto affermato dal
Giudice delle Leggi. In questi termini, se il giudice di merito è legittimato ad
effettuare una valutazione in termini di offensività delle condotte asseritamente
costitutive del reato in parola, costituisce dato altrettanto oggettivo il fatto che il
Parlamento, ossia l’organo costituzionale espressione della volontà popolare e
titolare del potere legislativo, ha stabilito, in termini espliciti, che omessi
versamenti inferiori a € 10.000,00 per ogni periodo di imposta non devono e non
possono considerarsi offensivi di interessi penalisticamente tutelati.
Non sfugge al Collegio che tale tesi è già stata sostenuta in alcune decisioni di
merito (Trib. Asti, sentenza 27 giugno 2014; Trib. Avezzano, sentenza 16
ottobre 2014; Trib. Bari, sentenza 16 giugno 2014; contra: Trib. Aosta, sentenza
7 novembre 2014; Trib. Torino, sentenza 3 novembre 2014), ma la stessa non
può essere seguita.
Questa Corte ha, infatti, già affermato, sebbene in relazione a reato diverso ma
ugualmente compreso nella “delega” non ancora attuata, che la contravvenzione
prevista dall’art. 10 bis del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che punisce l’ingresso
ed il soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non può ritenersi abrogata per
effetto diretto della legge 28 aprile 2014 n. 67, posto che tale atto normativo ha
conferito al Governo una delega, implicante la necessità del suo esercizio, per la
depenalizzazione di tale fattispecie e che, pertanto, quest’ultima, fino alla
emanazione dei decreti delegati, non potrà essere considerata violazione
amministrativa (Sez. 1, n. 44977 del 19/09/2014 – dep. 29/10/2014, P.G. in
proc. Ndiaye e altri, Rv. 261124).
Alla stessa conclusione, poi, è pervenuta – stavolta proprio con riferimento al
reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate
sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti – Sez. F, n. 38080 del 2014, ric.
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meramente formale, ciò che significa che essa non si limita a disciplinare i

Napoli, non massimata, la quale ha affermato che la fattispecie in esame è
tuttora prevista come reato, limitandosi la L. 28 aprile 2014, n. 67 – richiamata
dal ricorrente – a stabilire una delega al governo in materia di pene detentive
non carcerarie, perciò non apportando in nessun modo modifiche alla figura di
reato in oggetto (essendo tale funzione affidata alla futura decretazione

5. Al di là di quanto affermato nelle decisioni di questa Corte, peraltro, va
osservato che nemmeno il richiamo, contenuto in alcune decisioni di merito, a
quanto recentemente affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 139
del 2014 assume carattere risolutivo.
Ed invero, il Giudice delle Leggi, dichiarando l’infondatezza della questione di
legittimità dell’art. 2 d.l. 463/1983, ha precisato che “resta precipuo dovere del
giudice di merito di apprezzare – alla stregua del generale canone interpretativo
offerto dal principio di necessaria offensività della condotta concreta – se essa,
avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, sia, in concreto,
palesemente priva di qualsiasi idoneità lesiva dei beni giuridici tutelati”.
Muovendo da tale “monito”, alcune delle decisioni che hanno optato per l’esito
assolutorio, hanno ritenuto che la disobbedienza dell’imprenditore all’obbligo di
versare i contributi previdenziali non aveva pregiudicato in concreto il bene
giuridico oggetto di tutela dell’art. 2 di. 463/1983 (ossia la tutela previdenziale
del lavoro e dei lavoratori). La mancanza di offensività nell’illecito penale
contestato assumerebbe, peraltro, contorni ancora più netti in forza dei principi
enunciati nella legge delega n. 67 del 2014, ove si prospetta la depenalizzazione
del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali.
Seguendo tale indirizzo, dunque, il ricorrente attribuisce capacità normativa
immediata ai criteri direttivi impressi nella legge delega in materia di
depenalizzazione, al pari delle pronunce della giurisprudenza di merito evocate,
soprattutto laddove si consideri – si legge in ricorso – che il Governo non potrà
discostarsi da tali principi e criteri direttivi, così precisi e tassativamente
delimitati.
La tesi, tuttavia, ad avviso del Collegio, non convince, in quanto, in assenza del
concreto esercizio della delega, non è possibile ritenere che i principi e i criteri
inseriti nella legge di delegazione in materia di depenalizzazione abbiano effetto
modificativo dell’ordinamento vigente.
Deve, pertanto, convenirsi con quella dottrina secondo la quale un’eventuale
soluzione in senso assolutorio (rectius, in questa sede di legittimità, nel senso di
annullare senza rinvio l’impugnata sentenza) perché il fatto non è previsto dalla
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delegata).

legge come reato, in relazione all’art. 2, co. 1 bis, legge n. 638 del 1983, pare,
nel momento odierno di assenza di una precisa norma depenalizzatoria che volga
ad amministrativo un illecito oggi ritenuto penale, del tutto irragionevole. Se si
dovesse pronunciare proscioglimento (o annullare senza rinvio) per tutti coloro i
quali ad oggi, al di sotto della quota ritenuta di C 10.000,00, non hanno versato i
contributi previdenziali previsti ex lege si aprirebbe ad una impunibilità generale
per chi comunque violi un obbligo degno di interesse di tutela. L’intenzione del

di omesso versamento delle ritenute previdenziali al di sotto degli C 10.000,00
bensì di assoggettarli unicamente ad una sanzione amministrativa. La stessa
Corte Costituzionale ha avuto modo di rilevare come «il mancato adempimento
dell’obbligo di versamento dei contributi previdenziali determina un rischio di
pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela è assicurata da un complesso
di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I
della Costituzione (artt. 1, 4, 35, 38 Cost.)» (sentenza n. 139 del 2014, citata).
A fronte di ciò la disapplicazione del dettato normativo ex art. 2, co. 1-bis, legge
n. 638 del 1983, che prevede la sanzione penale della reclusione fino a tre anni e
la multa sino ad C 1.032,00 si prospetta come del tutto lesiva dell’interesse
giuridico tutelato. Tale pena è, infatti, l’unica ad oggi prevista dall’ordinamento
giuridico italiano per la violazione degli obblighi previdenziali di versamento di
ritenute, dunque occorre ritenerla quale tuttora applicabile.
A tacer d’altro, infine, è poi non soltanto da sottolinearsi, da un lato, come non
possa esservi dubbio che in caso di mancato esercizio della delega legislativa nel
termine indicato dalla legge n. 67 del 2014 il reato resterebbe tale (senza che
medio tempore si siano prodotti effetti depenalizzanti); dall’altro, che nessuna
conseguenza negativa deriverebbe al ricorrente dal mancato proscioglimento (o,
in questa sede, annullamento senza rinvio) per il mancato accoglimento della
tesi difensiva, posto che, all’atto dell’entrata in vigore dei decreti delegati
attuativi della delega in questione, ove ricorrano le condizioni che il legislatore
delegato fisserà, il condannato ben potrà proporre istanza ex art. 673 cod. proc.
pen. ottenendo la revoca della sentenza.
Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:
«Il delitto previsto dall’art. 2, comma 1 bis, d.l. n. 463 del 1983, conv. con
modd. In legge n. 638 del 1983, che punisce l’omesso versamento delle ritenute
previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti,
non può ritenersi abrogato per effetto diretto della legge 28 aprile 2014 n. 67,
posto che tale atto normativo ha conferito al Governo una delega, implicante la
necessità del suo esercizio, per la depenalizzazione di tale fattispecie e che,

Parlamento, infatti, non è quello di dismettere totalmente la punibilità per i fatti

pertanto, quest’ultimo, fino alla emanazione dei decreti delegati, non potrà
essere considerato violazione amministrativa».

6. Quanto, poi, al secondo motivo di ricorso, con cui si censura l’impugnata
sentenza per aver i giudici di appello disatteso la censura difensiva relativa alla
mancata consapevolezza da parte dell’imputato di poter beneficiare dalla causa
di non punibilità prevista dall’art. 2, comma 1 bis, legge n. 638 del 1983, avendo

giudiziaria da un atto di contenuto equipollente all’avviso dell’ente previdenziale
che gli abbia consentito, sul piano sostanziale, di esercitare la facoltà concessagli
dalla legge, la stessa è infondata.
La Corte territoriale, infatti, ha rigettato il relativo motivo di appello
sottolineando come l’imputato avesse ricevuto piena conoscenza della
contestazione in sede di notifica dell’avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen. senza
adempiere al versamento tifi contributi. Il ricorrente contesta, però, che tale
avviso contenesse tutti i requisiti stabiliti dalla nota decisione delle Sezioni Unite
(Sez. U, n. 1855 del 24/11/2011 – dep. 18/01/2012, Sodde, Rv. 251268), che ha
affermato il principio secondo cui, ai fini della causa di non punibilità del
pagamento tempestivo di quanto dovuto, il decreto di citazione a giudizio è
equivalente alla notifica dell’avviso di accertamento solo se, al pari di qualsiasi
altro atto processuale indirizzato all’imputato, contenga gli elementi essenziali
del predetto avviso, costituiti dall’indicazione del periodo di omesso versamento
e dell’importo, la indicazione della sede dell’ente presso cui effettuare il
versamento entro il termine di tre mesi concesso dalla legge e l’avviso che il
pagamento consente di fruire della causa di non punibilità (Sez. U, n. 1855 del
24/11/2011 – dep. 18/01/2012, Sodde, Rv. 251268). Da qui, dunque, la
mancanza di consapevolezza e la conseguente nullità della sentenza.

7. La tesi, come anticipato, non può esser condivisa.
Ed invero, ritiene il Collegio di dover dare continuità al principio recentemente
affermato da questa Corte, secondo cui il termine di tre mesi per corrispondere
l’importo dovuto ai fini della integrazione della causa di non punibilità del reato
decorre dal momento in cui l’indagato o imputato, oltre ad essere informato del
periodo di omesso versamento, dell’importo dovuto e del luogo ove effettuare il
pagamento, risulti anche posto compiutamente a conoscenza della possibilità di
ottenere l’esecuzione della pena, ma la consapevolezza di tale facoltà può essere
acquisita in qualunque forma, non presupponendo la comunicazione di un avviso
formale in ordine ai benefici conseguibili per effetto del pagamento nel trimestre
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il giudice di merito omesso di verificare se l’imputato sia stato raggiunto in sede

(Sez. 3, n. 46169 del 18/07/2014 – dep. 10/11/2014, Gabrielli, Rv. 260912;
fattispecie, identica a quella oggi

sub judice,

in cui è stata affermata la

consapevolezza dell’imputato di poter fruire della causa di non punibilità alla luce
del contenuto dei motivi di appello proposti dal medesimo avverso la sentenza di
primo grado).
Anche detto motivo di ricorso, pertanto, dev’essere rigettato.

Tuttavia, proprio la non manifesta infondatezza dei motivi, impone a questa
Corte l’adozione della formula di annullamento senza rinvio dell’impugnata
sentenza limitatamente alle omissioni contributive relative alle mensilità di aprile
e maggio 2007, essendo per le stesse maturato il termine di prescrizione
massima, rispettivamente, in data 16/02 e 16/03/2015 (termine iniziale
decorrente, per la prima, dal 16/05/2007 e, per la seconda, dal 16/06/2007, cui
vanno aggiunti anni 7 e mesi 6 quale termine di prescrizione massima, nonché
ulteriori mesi 3 di sospensione del termine per effetto dell’art. 2, comma 1quater, legge n. 638 del 1983).
All’annullamento segue, quindi, la trasmissione degli atti ad altra Sezione della
Corte d’appello di CATANIA per la sola rideterminazione della pena, divenendo
con la presente decisione irrevocabile l’accertamento sulla responsabilità penale
per le omissioni contributive da giugno 2007 in poi.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio, limitatamente alle
omissioni contributive relative alle mensilità di aprile e maggio 2007, per essere i
reati estinti per prescrizione e con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di
CATANIA per la rideterminazione della pena.
Rigetta, nel resto, il ricorso.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 14/04/2015

8. Il ricorso dev’essere, complessivamente rigettato.

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