Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20545 del 08/04/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 20545 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
Cucinelli Francesco, nato a Morciano di Leuca (Le) il 17/10/1960
Rosafio Cosimo, nato a Patù (Le) il 27/9/1965

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Lecce in data
6/11/2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Francesco Salzano, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi;
sentite le conclusioni dei difensori dei ricorrenti, Avv. Giovanni Chiffi e Fabio
Traldi, che hanno chiesto l’accoglimento dei ricorsi

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 6/11/2013, la Corte di appello di Lecce, riformando in

peius quanto al trattamento sanzionatorio la pronuncia emessa dal locale
Tribunale il 13/3/2012, condannava Francesco Cucinelli alla pena di 5 mesi di
arresto e 35.000,00 euro di ammenda, confermando – quanto a Cosimo Rosafio

Data Udienza: 08/04/2015

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– la condanna a 3 mesi di arresto e 21.500,00 euro di ammenda; agli stessi era
ascritta la violazione degli artt. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n.
380 e 181, d. Igs. 22 gennaio 2004, n. 42, per aver eseguito opere abusive in
totale difformità di un permesso di costruire ed in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico.
2. Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, a mezzo del proprio
difensore, deducendo:
– inosservanza di norme giuridiche, manifesta illogicità e contraddittorietà

avrebbe confermato la responsabilità dei ricorrenti con riguardo a diverse
condotte – aumento di cubatura degli immobili derivante dall’aumento della loro
altezza e dall’innalzamento rispetto al piano di campagna, realizzazione di piani
seminterrati in luogo degli interrati, maggiore superficie destinata a porticato,
realizzazione di violabilità interne non previste nel progetto – così disattendendo
le risultanze processuali (stato dei luoghi, progetti, elaborati grafici, deposizioni)
che, per contro, escludevano ogni responsabilità;
– violazione dell’art. 181, d. Igs. n. 42 del 2004. La Corte non avrebbe
considerato che le verande sono state spontaneamente demolite dai ricorrenti, sì
da operare la causa estintiva del reato di cui all’art. 181, comma 1-quinquies, d.
Igs. n. 42 del 2004. Inoltre, nel caso di specie la difformità risulterebbe molto
modesta; al più, infatti, sarebbero state disattese talune indicazioni della
Soprintendenza – non vincolanti – quanto all’uso dei materiali per le verande
medesime;
– incongruità della pena, che risulterebbe sproporzionata rispetto alla gravità
dei fatti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. I ricorsi sono manifestamente infondati.
Con riguardo al primo ed al secondo motivo, da esaminare congiuntamente
attesane la sostanziale identità di rado, occorre innanzitutto ribadire che il
controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza
strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logicoargomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009,
Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo
di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a
norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella

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della motivazione quanto a tutti i profili della contestazione. La Corte di appello

evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocull; ciò in quanto
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi,
per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico
apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della
motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003,
Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla

alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il
giudizio della Suprema Corte, le censure che i ricorrenti muovono con i primi due
motivi si evidenziano come manifestamente infondate; ed invero, dietro
l’apparenza di violazioni di legge o difetto motivazionale, gli stessi in realtà
invocano al Collegio una nuova e diversa valutazione delle medesime risultanze
istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (progetti, relazioni tecniche,
altezze dei fabbricati, morfologia del terreno, deposizioni testimoniali),
sollecitandone una lettura alternativa e più favorevole.
Il che, come appena indicato, non è consentito in questa sede.
A ciò si aggiunga che la sentenza di appello – rispondendo alle medesime
doglianze – ha steso una motivazione logica, congrua ed immune da ogni
censura argomentativa. In particolare, ed in forza delle emergenze
dibattimentali, ha affermato che 1) entrambi i fabbricati in esame presentavano
evidenti difformità rispetto ai titoli abilitativi (sopraelezioni ed altezze maggiori,
per un totale di 449,90 mc. aggiuntivi); 2) erano stati realizzati due stradoni non
previsti nel permesso di costruire (solo uno risultava genericamente disegnato
nel progetto), quindi mai approvati; 3) quanto all’autorizzazione paesaggistica, la
stessa non escludeva il reato di cui all’art. 181 cit., atteso che il porticato (oltre a
non rispettare quanto indicato dalla Soprintendenza) risultava avere una
maggiore superficie e volumetria; 4) i piani previsti come interrati erano, in
realtà, semi-interrati, ed avrebbero dovuto esser computati ai fini della
volumetria.

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ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato

Sì da pervenire alla conclusione – adeguata e non censurabile – per cui «il
complessivo intervento era dunque completamente difforme dai titoli abilitativi»,
atteso che il volume realizzato era pari ad oltre il doppio di quello approvato
(pari a 406,90 mc.); ed in tal modo, peraltro, aderendo al costante indirizzo di
legittimità in forza del quale integra il reato di esecuzione dei lavori in totale
difformità dal permesso di costruire la realizzazione di interventi edilizi su di un
preesistente manufatto, comportanti modifiche della sagoma ed incrementi di
superficie o volumetrici, non essendo detti interventi inquadrabili tra le

soggetti a mera denuncia di inizio attività (per tutte, Sez. 3, n. 7241 del
972/2011, Morozzi, Rv. 249544). E per tacere, in ogni caso, che – come più
volte affermato da questa Corte – in presenza di interventi edilizi in zona
paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e
dell’individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione
tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l’art. 32, comma terzo, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380,
prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli
eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi,
quali difformità totali (per tutte, Sez. 3, n. 37169 del 6/5/2014, Longo, Rv.
260181).
Il motivo, pertanto, è infondato.
4. Con riguardo, poi, alla causa di estinzione del reato paesaggistico di cui
all’art. 181, comma 1-quinquies, d. Igs. n. 42 del 2004, relativa alla veranda,
osserva la Corte che la questione è stata già sottoposta al primo ed al secondo
Giudice, e valutata in termini di trattamento sanzionatorio; ed invero, poiché la
contestazione in oggetto concerne non solo la veranda, ma l’opera nel suo
complesso (non eliminata), l’avvenuta demolizione può esser considerata
soltanto nei limiti di cui all’art. 133 cod. pen..
5. Da ultimo, proprio quanto al trattamento sanzionatorio, rileva il Collegio
che la Corte di merito ha redatto ancora una motivazione congrua e priva di vizi,
con la quale ha confermato la pena per il Rosafio ed aumentato quella per il
Cucinelli, pregiudicato (ai quali, peraltro, sono state concesse le circostanze
attenuanti generiche); pene che, peraltro, non si discostano grandemente dai
minimi edittali, specie in considerazione della doppia imputazione mossa ad
entrambi.
I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il

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cosiddette varianti “leggere o minori” (art. 22, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380)

ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle
spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore
della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, 1’8 aprile 2015

Il Presidente

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento

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