Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20539 del 19/04/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 20539 Anno 2016
Presidente: RAMACCI LUCA
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
Merico Dario, nato a Milano il 2/2/1972
Ruberto Salvatore, nato a Lamezia Terme (Cz) il 2/3/1984
Ruberto Antonio, nato a Lamezia Terme (Cz) il 2/5/1979
Valentino Gianluca, nato a Lemezia Terme (Cz) il 23/6/1977
Mazzoleni Davide, nato a Milano il 30/10/1968

avverso la sentenza del 30/6/2015 della Corte di appello di Torino;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Pietro Gaeta, che ha concluso chiedendo dichiarare inammissibili i
ricorsi;
udito i difensori dei ricorrenti, Avv. Francesco Bosco, Lucio Canzoniere,
anche in sostituzione dell’Avv. Massimo Sereno, e Roberto Afeltra, che hanno
concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi

Data Udienza: 19/04/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 30/6/2015, la Corte di appello di Torino, in parziale
riforma della pronuncia emessa 1’8/5/2014 dal locale Giudice per le indagini
preliminari, rideterminava la pena inflitta a Dario Merico, Antonio Ruberto,
Salvatore Ruberto, Gianluca Valentino, Mario Rimoldi, Davide Mazzoleni e
Francesco Miletto nei termini di cui al dispositivo, confermandola invece quanto a
Luciano Pulinaro; agli stessi erano rispettivamente ascritti numerosi episodi di

l’importazione dalla Spagna di sostanza stupefacente del tipo cocaina, aggravati
dal numero di persone coinvolte.
2. Propongono autonomo Merico, Salvatore ed Antonio Ruberto, Valentino e
Mazzoleni – il primo in proprio, gli altri a mezzo del proprio difensore deducendo i seguenti motivi:
Merico:
Violazione di legge; vizio motivazionale. La Corte di appello avrebbe
confermato la condanna del ricorrente, quanto ai capi 5), 6) ed 8), con
motivazione del tutto carente ed apodittica, dalla quale non
emergerebbe il percorso logico seguito e si fornirebbe delle
intercettazioni telefoniche – prova cardine dell’intero giudizio un’interpretazione errata, soggettiva e del tutto illogica; quel che il
gravame sottolinea con riferimento a numerose conversazioni,
analiticamente riportate con riguardo ai singoli capi di imputazione, ed in
particolare a quelle che la sentenza non citerebbe affatto. Ancora, la
Corte di merito non avrebbe fornito alcun valido riscontro – a “monte” all’identificazione dello stesso ricorrente quale il “Gigante”, invero data
per certa pur difettando qualsivoglia elemento al riguardo;
Violazione dell’art. 62 bis cod. pen., vizio motivazionale. La sentenza non

avrebbe riconosciuto al Merico le circostanze attenuanti generiche in
forza dei soli precedenti penali, invero molto risalenti nel tempo; al
contempo, non avrebbe considerato elementi di segno opposto, quale la
sottoposizione a programma terapeutico presso il Sert ed il buon
comportamento processuale;
Antonio e Salvatore Ruberto, Valentino:
mancanza e manifesta illogicità della motivazione. La sentenza di appello
si sarebbe limitata a riprendere pedissequamente la pronuncia di primo
grado, senza valutare le doglianze sollevate a questa rivolte. La
responsabilità dei ricorrenti, inoltre, sarebbe stata affermata in modo
apodittico ed illogico, traendola da elementi di equivoco significato (in

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cui all’art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per aver trattato ripetutamente

particolare, le intercettazioni telefoniche), specie con riguardo
all’imputazione di offerta in vendita di stupefacente; ciò, con particolare
riguardo alla posizione di Salvatore Ruberto, nei cui confronti non
potrebbe esser ravvisata neppure una forma di concorso morale nelle
condotte del fratello Antonio. Quanto al Valentino, poi, questi non
avrebbe mai avuto contatti con i soggetti che avrebbero organizzato con
i Ruberto i traffici delittuosi, né mai parlato – nel corso delle
intercettazioni – di danaro o di droga; quel che rileverebbe in modo

sequestro. Con riguardo a tutti i ricorrenti in esame, inoltre, non
risulterebbero provate le condotte di concorso nell’attività illecita, anche
nella forma dell’adesione morale;
violazione di legge quanto al trattamento sanzionatorio. La Corte di
appello avrebbe irrogato una pena troppo elevata, peraltro muovendo da
una base eccessivamente lontana dal minimo edittale, senza tener in
debito conto i parametri di cui all’art. 133 cod. pen.;
Mazzoleni:
inosservanza di norme processuali. La Corte avrebbe respinto l’eccezione
relativa all’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche con argomento
non soddisfacente, senza valutare appieno le considerazioni espresse
dalla difesa;
vizio motivazionale; erronea applicazione della legge penale. La sentenza
avrebbe confermato la responsabilità del Mazzoleni quale organizzatore
del traffico di stupefacenti, salvo poi descriverne un ruolo di fatto del
tutto marginale; il giudizio, inoltre, sarebbe stato fondato
esclusivamente su una telefonata (n. 636 del 25/4/2009), mentre la
Corte non avrebbe tenuto in considerazione le doglianze relative a
numerose altre conversazioni di rilievo, delle quali era stata fornita dalla
difesa una lettura alternativa. Infine, sarebbe stata immotivatamente
disattesa la richiesta di rinnovazione dibattimentale, invero fondata;
vizio motivazionale in punto di pena. La sentenza avrebbe applicato una
pena troppo elevata, muovendo da una base eccessiva e non applicando
le circostanze attenuanti generiche nella massima estensione, pur
ricorrendone i presupposti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Occorre muovere – così come nella sentenza impugnata – dall’eccezione
proposta dal Mazzoleni con riguardo all’inutilizzabilità delle intercettazioni

particolare, attesa l’assoluta mancanza di cocaina o di danaro in

telefoniche, fondata sul presupposto che le stesse sarebbero state raccolte in
altro procedimento poi conclusosi con archiviazione, e senza inoltro delle relative
bobine; orbene, la questione risulta manifestamente infondata. Ed invero, la
Corte di appello – al pari del primo Giudice – ha richiamato sul punto il costante
e condiviso orientamento di legittimità in forza del quale, in tema di
intercettazioni, non dà luogo ad inutilizzabilità la circostanza che il reato
ipotizzato al momento dell’attivazione delle operazioni sia diverso da quello per il
quale poi si sia proceduto, sempre che quest’ultimo rientri nella tipologia dei

del 4/11/2014, De Col, Rv. 261837; Sez. 6, n. 28622 del 2/7/2013, Di Giovine,
Rv. 256176; in termini analoghi, Sez. 6, n. 49745 del 4/10/2012, Sarra Fiore,
Rv. 254056). Del pari, e con effetto dirimente, la Corte di merito ha richiamato
per relationem le considerazioni svolte dal G.i.p. in ordine alla effettiva diversità
dei procedimenti, invero negata, ed ha specificato che – in ogni caso – il rilievo
riguarderebbe soltanto le intercettazioni relative a Pasquale Cicala e Luigi
Patellaro fino al dicembre 2008, non anche tutte le altre, comprese quelle
concernenti il Mazzoleni.
Orbene, a fronte di questa compiuta motivazione, la doglianza sollevata con
il presente gravame risulta oltremodo generica; ed invero, il ricorrente riportato l’argomento appena citato – si limita ad affermare che la decisione
«non appare condivisibile e questa difesa richiama integralmente le deduzioni già
proposte nell’interesse del Mazzoleni rappresentando altresì come la motivazione
a sostegno del rigetto non appare soddisfacente».
5. Con riguardo, poi, al merito, tutti i ricorsi risultano manifestamente
infondati.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione delle vicende (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009,
Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo
di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a
norma dell’art. 606, comma 1, lett

e), cod. proc. pen., è soltanto quella

evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocull; ciò in quanto
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi,
per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico

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reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza (tra le altre, Sez. 6, n. 53418

apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv.
226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine

altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il
giudizio della Suprema Corte, le censure che tutti i ricorrenti muovono al
provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la
parvenza di una violazione di legge o di un difetto motivazionale, gli stessi
invocano di fatto una nuova ed alternativa lettura delle medesime risultanze
istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (a muover dalle numerosissime
intercettazioni in atto), sollecitandone una valutazione alternativa e più
favorevole.
Quel che, come appena indicato, non è consentito in questa sede.
A ciò si aggiunga, peraltro, che gli atti di gravame disattendono del tutto la
motivazione stesa dalla Corte di appello proprio in punto di responsabilità, con la
quale è stata confermata la colpevolezza dei ricorrenti in forza di un ampio ed
adeguato percorso argomentativo, fondato su oggettive risultanze istruttorie (in
particolare, le conversazioni) e su un’interpretazione delle stesse non certo
illogica, oltre che suffragata dai numerosi sequestri di cocaina realizzati nel
medesimo periodo. Un percorso argomentativo congruo e privo di ogni
contraddizione o carenza, a fronte del quale, peraltro, gli atti di gravame si
distinguono per la evidente genericità delle censure, che – come tale – impedisce
di assegnare alle stesse un effettivo ruolo di doglianza.
In particolare, con riferimento ai capi 5), 6) ed 8), la sentenza – anche
richiamando la pronuncia del primo Giudice, alla quale si lega in un continuum
motivazionale, attesa la cd. doppia conforme – ha evidenziato la sequenza degli
accordi volti all’importazione dalla Spagna di ingenti quantitativi di cocaina, tutti
interessanti i medesimi soggetti (Merico, Antonio e Salvatore Ruberto, Valentino,
oltre che Guglielmo Di Giovine, giudicato separatamente), coinvolti in numerose
conversazioni dal significato «criptico ed allusivo», ma giammai giustificato dagli
stessi in differenti termini attendibili o riscontrabili (come – proprio in ordine al
Merico – il riferimento alle autovetture in luogo della droga). Ancora, la

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giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e

pronuncia impugnata – sempre riportando le intercettazioni via via ritenute
rilevanti – ha precisato il ruolo ricoperto dai vari imputati, ed il legame, anche
parentale, corrente tra alcuni di essi (come tra il Merico ed il Di Giovine); in
particolare, con riguardo al capo 5) (importazione di quantitativo non precisato
di cocaina), la Corte ha evidenziato che i fratelli Ruberto si erano accordati con
Di Giovine, fornitore, ed avevano acconsentito all’ingresso nell’affare del Merico,
che aveva finanziato parte dell’operazione, così ottenendo parte dello
stupefacente.

cocaina), la sentenza ha individuato un modus operandi simile alla precedente
operazione, infatti andata a buon fine, tratto a) dal diretto coinvolgimento ancora
di entrambi i Ruberto, del Valentino, di Guglielmo e Rosario Di Giovine e del
Merico, b) dal viaggio in Spagna dagli stessi effettuato nell’aprile del 2009, al
fine di perfezionare l’accordo criminoso; c) dal quantitativo di cocaina in tal modo
trattato, pari ad oltre 10 kg. Ciò, fino all’arresto del corriere, Gianfranco Benzi,
avvenuto ad Avigliana (To) il 22/4/2009, ed al nervosismo corrente tra numerosi
dei soggetti citati – in particolare, Guglielmo Di Giovine, Antonio Ruberto e
Merico – in ordine al fallimento dell’operazione ed alle effettive responsabilità,
addebitate al Benzi ed a Nicola Moro (successivamente deceduto), individuati
come soggetti non affidabili. Trattando, poi, la specifica posizione del Mazzoleni,
imputato per questo solo reato, la Corte di appello ha evidenziato la fragilità
della tesi difensiva in forza della quale questi si sarebbe recato in Spagna con il
Merico soltanto per svago, sottolineando che questa 1) risulta smentita da una
lettura completa e congiunta delle intercettazioni; 2) risulta negata dallo stesso
ricorrente nell’interrogatorio del 15/2/2013, allorquando aveva fatto cenno a
differenti ragioni, quale la ricerca di un impiego, in ciò “appoggiandosi” ai due Di
Giovine, che già abitavano in Spagna. Ancora, la sentenza ha valorizzato la
conversazione n. 636 del 25/4/2009 – successiva all’arresto del corriere Benzi,
avvenuto il 22/4 – nella quale il Mazzoleni, parlando con Pierluigi Menna, che gli
chiede 500 euro, afferma di non averli, ed anzi che «nessuno li ha…siamo rimasti
senza…è successo un casino, quando vieni ti spiego…abbiamo perso un casino di
soldi…poi ti spiego quando vieni qua…ora non posso»; al riguardo, la Corte ha
sottolineato che il tono ed il tenore della conversazione, con la cautela impiegata
dal ricorrente, evidenziano che il relativo oggetto non poteva che coincidere con
la grossa partita di cocaina perduta (oltre 10 kg.), e che la tesi alternativa
sostenuta dalla difesa – ritardata cessione di una Peugeot del Mazzoleni – non
avrebbe giustificato né l’uno né l’altro. Ancora, la sentenza ha richiamato in tal
senso anche altre conversazioni, specificamente indicate, da leggere in modo
congiunto tutte nel medesimo senso; al pari, così, dell’uso del termine “olio”,

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Per quanto, poi, attiene al capo 6) (importazione di 10,1 kg. circa di

impiegato anche in altre intercettazioni, che nessun diverso significato poteva
avere se non quello di stupefacente.
Di seguito, con riguardo al capo 8) (importazione di 6,7 kg. di cocaina),
contestato al solo Merico, la sentenza ha evidenziato – ancora con logico e
congruo percorso argomentativo – numerosi elementi a conferma della
responsabilità del ricorrente medesimo; in particolare, 1) le conversazioni tra
Guglielmo Di Giovine ed il Merico, il cui tenore evidenziava un accordo,
sviluppatosi con la consegna di danaro da parte del secondo; 2) la concitazione

flagrante il 29/10/2009, con sequestro dello stupefacente; 3) la necessità,
manifestata dai due soggetti in esame, di incontrarsi a seguito del fallimento
dell’operazione, all’evidente fine di comprenderne le ragioni e discuterne.
Con riguardo, poi, al capo 9) (trasporto e detenzione di 815 grammi di
cocaina), ascritto soltanto ai fratelli Ruberto, la sentenza – al pari di quella di
prime cure – ha evidenziato la concertata divisione dei ruoli, con diretta
partecipazione all’acquisto della sostanza e, successivamente, la ricerca della
stessa dopo che Salvatore Angì e la moglie – che la trasportavano in Calabria da
Roma – se ne erano disfatti (sul punto, la pronuncia cita una conversazione del
2/2/2010, nella quale Salvatore Ruberto fa esplicito riferimento a qualcosa che
«chissà dove cavolo l’ha buttato», visto che «ha detto che camminava a 60-70»
all’ora); al riguardo, peraltro, la Corte di appello ha evidenziato che «i fratelli
Ruberto hanno seguito la vicenda in stretto e costante contatto telefonico, e
nell’ambito dei traffici di droga che, come emerso in precedenza, entrambi
andavano svolgendo di comune intesa». Con la precisazione, poi, che se nelle
precedenti occasioni era stato Antonio Ruberto a spostarsi, mentre Salvatore era
rimasto prevalentemente a casa, con riguardo alla vicenda di cui al capo 9) era
accaduto il contrario. In forza di questi elementi, e di quanto già riportato sub
posizione del Merico, la sentenza ha quindi evidenziato il ruolo – e lo spessore
criminale – dei due Ruberto, specificando che Antonio, sia pur incensurato, era
emerso come colui che aveva organizzato, insieme al fratello (con ruolo di lieve
minore spicco), le importazioni illecite di cui ai capi 5) e 6) della rubrica, e quindi
anche l’operazione di cui al capo 9); ed ha sottolineato che entrambi i fratelli
avevano mostrato di gestire rapporti con criminali del peso di Guglielmo Di
Giovine, fornitore, nonché con trafficanti italiani «sull’asse Roma-Calabria», di
cui al capo 9), ancora alla luce del compendio intercettivo in atti. E con la
precisazione ulteriore – di rilievo, atteso il tenore delle odierne doglianze – che,
per un verso, la contestazione mossa ai Ruberto non ha ad oggetto una forma di
concorso morale, ma materiale, attraverso concreti comportamenti, e che
l’attività ascritta ai due fratelli nei vari capi non concerne – come dedotto –

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che precedeva il momento dell’arrivo del corriere Walter Tarzia, poi arrestato in

l’offerta in vendita della sostanza, ma il concorso nell’importazione e trasporto
dall’estero (capi 5 e 6), così come il concorso nel trasporto, in vista della
detenzione della stessa cocaina (capo 9).
Infine, la Corte di appello ha preso in esame – confutandola – la tesi
formulata dalla difesa con riguardo alla lecita attività che, diversamente da
quanto contestato, i ricorrenti avrebbero svolto quali garagisti in Bologna;
attività, peraltro, con riguardo alla quale la sentenza evidenzia la cessazione
almeno dal marzo 2009, dal che la conclusione che «entrambi, privi di

dalla attività illecita, di cui si tratta».
In termini analoghi, poi, la sentenza gravata si è espressa con riguardo alla
posizione del Valentino, rispondendo alle censure mosse – le stesse poi ribadite
in questa sede – con riguardo alla posizione ricoperta nella vicenda in esame (in
particolare, la posizione di finanziatore) ed alla sua partecipazione psicologica
(che non avrebbe superato la semplice connivenza o adesione morale). In
particolare, il Collegio di merito ha sottolineato che il Valentino ha partecipato
alle condotte di cui ai capi 5) e 6) con il ruolo di «concorrente “attivo”, che, come
tale, ha “attivamente” partecipato alle operazioni suindicate, recandosi in
Spagna, se pure con un ruolo lievemente meno centrale, in particolare rispetto al
concorrente Ruberto Antonio». Ancora, la sentenza ha richiamato le
intercettazioni di rilievo – anche sul punto, già diffusamente indicate dal primo
Giudice – ed ha evidenziato che, nel corpo di queste, il ricorrente aveva deciso di
aumentare i quantitativi da acquistare, così come aveva dimostrato di presentare
un diretto, personale interesse economico alla riuscita dell’importazione. Sì da
concludere – ancora con motivazione logica e fondata su oggettive risultanze
investigative, qui non diversamente valutabili – che lo stesso aveva attivamente
partecipato alla due operazioni di importazione di ingenti quantitativi di cocaina
dalla Spagna, anche entrando in contatto diretto con i fornitori. E con l’ulteriore,
rilevante precisazione per cui il Valentino, al pari del fratelli Ruberto, all’epoca
non disponeva di redditi leciti propri, sì da doversi ragionevolmente concludere
che traesse dal traffico illecito di sostanze i propri mezzi di sostentamento.
Un complesso motivazionale congruo, dunque, fondato su oggettive
risultanze investigative (non certo esaurite nella cd. “droga parlata”) e privo di
ogni illogicità, come tale non censurabile in questa sede; soprattutto – si
ribadisce – attraverso una nuova valutazione di plurime intercettazioni, riportate
analiticamente ed in modo diffuso nei singoli ricorsi, che Merico, i Ruberto,
Valentino e Mazzoleni vorrebbe fossero fatte oggetto in questa sede di una
lettura alternativa e nuova, per sostituire il significato ad esse attribuito in fase

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occupazione, abbiano tratto sintomaticamente i loro mezzi di sostentamento

di merito con altro più favorevole, maggiormente rispondente al’interpretazione
fornita dai ricorrenti medesimi.
Quel che – per quanto sopra esposto – non è consentito alla Corte di
legittimità.
Ancora, un complesso motivazionale in ordine al quale la richiesta di
rinnovazione istruttoria proposta dal Mazzoleni (escussione della fidanzata, Erika
Colombo) risulta del tutto infondata, perché irrilevante; la stessa, infatti,
avrebbe dovuto rispondere con riguardo all’effettivo orario di un appuntamento

risulta all’evidenza di limitatissimo significato nella complessiva vicenda in
esame. Del resto, deve esser precisato che la completezza e la piena affidabilità
logica dei risultati del ragionamento probatorio seguito dalla Corte territoriale
giustificano la decisione implicitamente contraria alla rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale sul rilievo che, nel giudizio di appello, essa costituisce un istituto
eccezionale fondato sulla presunzione che l’indagine istruttoria sia stata
esauriente con le acquisizioni del dibattimento di primo grado, sicché il potere
del Giudice di disporre la rinnovazione è subordinato alla rigorosa condizione che
egli ritenga, contro la predetta presunzione, di non essere in grado di decidere
allo stato degli atti (per tutte, Sez. U, n. 2780 del 24 gennaio 1996, Panigoni,
Rv. 203974). Orbene, atteso che l’esercizio di un simile potere è affidato al
prudente apprezzamento del Giudice di appello, restando incensurabile nel
giudizio di legittimità se adeguatamente motivato (Sez. 6, n. 32336 del
18/6/2003, Apruzzese, Rv. 226309; Sez. 4, n. 4981 del 5/12/2013, Ligresti, Rv.
229666), deve sottolinearsi che la motivazione della sentenza impugnata dà
conto, in modo inequivoco, delle ragioni per le quali non è stata accolta la
richiesta di rinnovazione parziale, ritenendo che gli elementi probatori disponibili
risultassero completi e concludenti per la formazione del convincimento; la
pronuncia, pertanto, ha fatto buon governo del principio per cui il rigetto della
richiesta di rinnovazione istruttoria in appello può essere motivato anche
implicitamente, in presenza di un quadro probatorio definito, certo e non
bisognevole di approfondimenti indispensabili (per tutte, Sez. 6, n. 11907 del
13/12/2013, Coppola, Rv. 259893).
I motivi in punto di responsabilità, pertanto, risultano del tutto infondati.
Alle stesse conclusioni, poi, si perviene quanto alle circostanze attenuanti
generiche.
Al riguardo, occorre premettere che – per costante e condiviso orientamento
di legittimità – nel motivare il diniego della concessione delle circostanze ex art.
62 bis cod. pen. non è necessario che il Giudice prenda in considerazione tutti gli

elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è

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tra il ricorrente e Guglielmo Di Giovine (8 di mattina, anziché 20), quel che

sufficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti,
rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (per tutte, Sez. 3,
n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899); orbene, la Corte di merito ha fatto
buon governo di questo principio, negando il beneficio alla luce della negativa
personalità dell’imputato, tratta in particolare dai numerosi precedenti a carico
dell’imputato, «che risulta gravemente e specificamente pregiudicato». Una
motivazione, dunque, del tutto congrua, che non apre certo superabile con il
riferimento – di cui al ricorso – al buon comportamento processuale e la

Quanto, poi, alla doglianza in punto di trattamento sanzionatorio, sollevata
dai Ruberto e dal Valentino, ritiene la Corte che la stessa risulti del tutto
infondata. Ed invero – e contrariamente a quanto dedotto sul punto negli atti di
gravame – la sentenza impugnata contiene una congrua e completa motivazione
anche con riguardo alla pena irrogata, determinata tenendo conto – quanto ai
Ruberto – delle concesse circostanze attenuanti generiche (ritenute equivalenti
alle contestate aggravanti), dell’incensuratezza e «dei possibili condizionamenti
che possono aver subito dall’essere stati, entrambi, disoccupati al momento del
fatto»; sì da pervenire ad una pena congruamente motivata (e differenziata, alla
luce della prevalenza del ruolo di Antonio Ruberto sulla figura del fratello), anche
in ragione del quantitativo trattato, di certo non modesto, nonché contenuta in
termini non certo elevati (anche per l’aumento ex art. 81 cpv. cod. pen., limitato
a pochi mesi di reclusione, oltre la multa) o lontani dal minimo, sì da non
imporre un obbligo motivazionale di rilevata intensità. Negli stessi termini, poi, la
Corte ha motivato la pena irrogata al Valentino, al quale sono state riconosciute
le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante contestata; del
pari, la sentenza ha valutato l’incensuratezza dello stesso, irrogando ancora una
pena base non certo eccessiva o lontana dai minimi, così come l’aumento per la
continuazione (contenuto in tre mesi di reclusione, oltre la multa). Con pieno
rispetto, quindi, dei canoni di cui all’art. 133 cod. pen., tenuti adeguatamente
presenti dalla Corte, a differenza di quanto dedotto anche con questo atto di
impugnazione.
Analogamente, sul punto, quanto al ricorso del Mazzoleni, che denuncia
l’eccessività del trattamento e la mancata applicazione delle circostanze
attenuanti generiche nella misura massima. La Corte di appello, infatti, ha dato
atto dell’incensuratezza del ricorrente, così come della sua pregressa estraneità
all’ambiente criminoso in cui sono maturati i fatti per cui è processo, ritenuti
comunque gravi; in forza di ciò, ed escluse tutte le aggravanti contestate, sono
state riconosciute le circostanze

ex art.

62-bis cod. pen. con giudizio di

prevalenza, non nella più elevata portata in ragione dell’entità del traffico di

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sottoposizione del Merico ad un programma di recupero dalla tossicodipendenza.

cocaina in esame. E senza che, pertanto, possa ravvisarsi il dedotto vizio
motivazionale, peraltro fondato su un duplice presupposto – incensuratezza e
carattere isolato della condotta – già motivatamente considerato dalla Corte di
merito.
I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di

norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle
spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore
della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.500,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 ciascuno in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, il 19 aprile 2016

nsigliere estensore

inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a

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