Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20535 del 19/04/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 20535 Anno 2016
Presidente: RAMACCI LUCA
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Lemma Manolo, nato a Roma il 27/2/1988

avverso la sentenza del 1°/7/2015 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Pietro Gaeta, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore del ricorrente, Avv. Angelo Staniscia, che ha concluso
chiedendo l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 1°/7/2015, la Corte di appello di Roma, in parziale
riforma della pronuncia emessa il 5/9/2014 dal locale Giudice per le indagini
preliminari, ritenuta in ordine al delitto di cui al capo b) l’ipotesi di cui all’art. 73,
comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, rideterminava la pena inflitta a Manolo
Lemma – quanto ai reati sub a) e b) – in due anni di reclusione e 6.000 euro di
multa, e – quanto ai reati di cui ai capi c), d), e) – in due anni, sei mesi di

Data Udienza: 19/04/2016

reclusione e 600 euro di multa; allo stesso erano ascritti due episodi di
detenzione di stupefacenti a fine di cessione, nonché le condotte di detenzione
abusiva di una pistola con matricola abrasa, provento di contraffazione, e di
detenzione abusiva di 48 cartucce per la medesima arma.
2. Propone ricorso per cassazione il Lemma, a mezzo del proprio difensore,
deducendo i seguenti motivi:
– vizio motivazionale ed inosservanza di norme processuali quanto al vincolo
della continuazione. La Corte di appello avrebbe negato l’istituto in esame –

motivazione illogica e contraddittoria; in particolare, non avrebbe valutato che la
pistola ed il munizionamento erano finalizzati a difendersi dai pericoli propri
dell’ambiente degli stupefacenti, e che il fatto che l’arma non fosse stata
custodita unitamente alla droga non rivestiva alcun significato, come invece
ritenuto dalla sentenza impugnata;
– mancanza di motivazione ed erronea applicazione di legge penale con
riguardo al trattamento sanzionatorio. La Corte di merito, riconosciuta quanto al
delitto sub b) l’ipotesi di cui al citato comma 5, avrebbe individuato la pena base
nella fattispecie di cui al capo a), quantificandola però in termini
proporzionalmente molto più rigorosi rispetto a quanto compiuto dal primo
Giudice. Ne deriverebbe una sanzione non illegittima, ma eccessivamente severa
e non supportata da adeguata motivazione;
– mancanza di motivazione ed erronea applicazione di legge penale in ordine
alle circostanze attenuanti generiche. Queste, infatti, sarebbero state concesse
dal G.i.p. con incidenza minima sulla pena, ed in tali termini confermate dalla
Corte di appello; la quale, però, sul punto si sarebbe espressa con motivazione
illogica ed erronea, senza considerare plurimi elementi di rilievo, tra i quali la
resipiscenza, la personalità del ricorrente ed il comportamento processuale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo, innanzitutto, al vincolo della continuazione tra le condotte in
tema di stupefacenti e quelle afferenti alla pistola ed alle cartucce, rileva la Corte
che l’art. 81 cpv. cod. pen. stabilisce che è punito con la pena che dovrebbe
infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo chi, con più azioni
od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in
tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge; rado
della norma – per interpretazione pacifica in giurisprudenza e dottrina – consiste
nel sanzionare meno severamente, rispetto al cumulo materiale, colui che abbia

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invocato tra le condotte di cui all’art. 73 citato e quelle in materia di armi – con

assunto un’unica, iniziale determinazione criminosa avente ad oggetto una
pluralità di condotte, integranti ciascuna un’ipotesi di reato, le quali, quindi,
risultano tutte riferite a quell’originaria volontà illecita e ne costituiscono
momento esecutivo. Ne consegue che l’individuazione dell’unitaria

voluntas

contra legem deve esser compiuta con particolare rigore, al fine di evitare che la
norma venga di fatto piegata nel proprio fine, e si trasformi in un indebito
istituto premiale nei confronti di delinquenti recidivi; per costante indirizzo di
legittimità, infatti, grava in capo all’interessato l’onere di allegare elementi

alla contiguità cronologica degli addebiti ovvero all’identità o analogia dei titoli di
reato, in quanto indici sintomatici non di attuazione di un progetto criminoso
unitario quanto, piuttosto, di una abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate
alla sistematica e contingente consumazione di illeciti (per tutte, Sez. 1, n. 2298
del 25/11/2009, Marianera, Rv. 245970).
Orbene, ritiene la Corte che la sentenza di appello abbia fatto buon governo
di questi principi, negando il vincolo in esame sul presupposto che non vi fosse
alcuna prova dell’esistenza di un unico disegno criminoso “preposto” ai diversi
delitti, né vi fosse alcun elemento di collegamento tra la detenzione dell’arma e
quella degli stupefacenti. Con l’ulteriore rilievo, peraltro, che lo stesso Lemma,
quanto alla pistola, si era limitato ad affermare di detenerla per difesa personale,
senza alcun riferimento all’attività illecita di spaccio; quel che costituisce un
adeguato percorso argomentativo per negare il beneficio, privo di illogicità
manifeste o di contraddizioni, anche senza il riferimento al luogo di custodia degli
stessi beni, invero ininfluente. Sviluppo motivazionale che, peraltro, il ricorrente
intende contrastare in questa sede soltanto con considerazioni astratte,
apodittiche ed assertive, ovvero assumendo che «il contemporaneo possesso di
un’arma e di sostanza stupefacente, oltre ad essere un evento che si verifica non
infrequentemente a dimostrazione della sussistenza dell’unicità del progetto
criminoso, appare logico e coerente in un’ottica di difesa sia della sostanza come
del denaro ricavato dalla vendita sia, infine, dello stesso detentore».
4. Del tutto priva di fondamento, poi, risulta anche la seconda doglianza.
Come affermato nel ricorso, la Corte di appello – riconosciuta quanto alla
detenzione di cocaina (capo b) la fattispecie di cui all’art. 73, comma 5 – ha
determinato il trattamento sanzionatorio muovendo dalla condotta in tema di
hashish e marijuana (capo a), punita con la reclusione da due a sei anni (e con
la multa); in tali termini, quindi, la sentenza ha quantificato la pena base in tre
anni, nove mesi di reclusione (oltre alla multa), poi aumentata ex art. 81 cpv.
cod. pen.. Ciò premesso, la questione sollevata dal Lemma – ovvero che, in
primo grado, il Giudice era partito dal minimo edittale di cui al comma 1 (sei anni

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specifici e concreti a sostegno dell’istanza, non essendo sufficiente il riferimento

di reclusione), mentre quello di appello si sarebbe discostato da tale parametro risulta palesemente infondata, atteso che la Corte di merito non era tenuta a
rispettare alcuna proporzione con il trattamento sanzionatorio determinato dal
Tribunale, specie a fronte dell’individuazione di un diverso reato quale fattispecie
più grave (capo a in luogo del capo b), ma era chiamata soltanto ad offrire una
congrua e logica motivazione in ordine alla pena come quantificata. Quel che,
invero, ben emerge dalla sentenza impugnata, nella quale si richiama il rilevante
dato quantitativo rinvenuto quanto alle droghe cd. leggere (2458 dosi medie), la

argomento adeguato, come tale incensurabile in questa sede.
5. Da ultimo, le circostanze attenuanti generiche quanto ai reati in tema di
armi.
Orbene, osserva la Corte che la sentenza impugnata risulta ancora
sostenuta da motivazione congrua e non censurabile, con la quale ha confermato
la pena individuata dal primo Giudice – anche in punto di riduzione ex art. 62 bis

cod. pen. – perché rispettosa dei canoni di cui all’art. 133 cod. pen.; ciò, in
particolare, con riguardo alla gravità dei reati, «trattandosi di un’arma da sparo
con matricola abrasa perfettamente efficiente e munita di perfezionamento, e
alla personalità dell’imputato, quale emerge dai precedenti e dalle circostanze di
fatto del caso». E senza tacere, da ultimo, l’assenza di elementi valorizzabili in
senso contrario.
Un logico percorso argomentativo, dunque, come tale non censurabile con la
doglianza in esame, che si limita a riproporre la medesima questione rigettata
dalla Corte di merito.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.500,00.

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presenza anche di droga cd. pesante, oltre alla personalità dell’imputato; un

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 19 aprile 2016

UZ…._.–^

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