Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20460 del 27/01/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 20460 Anno 2015
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: NOVIK ADET TONI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GROSSALE DOMENICO N. IL 18/07/1978
avverso l’ordinanza n. 18337/2011 GIP TRIBUNALE di TORINO, del
02/04/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK;
lette/sontite le conclusioni del PG Dott.
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Uditi difensor Avv.;

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Data Udienza: 27/01/2015

RILEVATO IN FATTO
1. Con ordinanza del 2 aprile 2014 il giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Torino, investito della richiesta di dichiarazione di estinzione del reato
presentata da Domenico Roberto Grossale, revocava d’ufficio la sanzione
sostitutiva del lavoro di pubblica utilità concessa al medesimo con sentenza
depositata in data 11 gennaio 2013 e ripristinava l’originaria pena inflitta per il
reato di guida in stato di ebbrezza, di giorni 23 di arresto ed euro 530 di
ammenda, in quanto risultava dalla relazione della responsabile che il medesimo

“disprezzo e rabbia” per l’attività che stava compiendo. Il condannato aveva
ammesso di aver vissuto l’esperienza come una sostanziale “perdita di tempo”
che doveva essere compiuta per un mero calcolo di convenienza.
Ad avviso del giudicante, gli atti di disobbedienza e di improduttività
dimostrati si ponevano in contraddizione con la ratio del beneficio, richiedente la
presa di coscienza del disvalore del fatto compiuto e l’importanza del lavoro
svolto come presa di coscienza del pericolo causato con la guida in stato di
ebbrezza, cosicchè veniva ritenuta non computabile la pena già espiata quale
lavoro di pubblica utilità, con ripristino della pena sostituita e la sanzione
amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per il termine
originariamente fissato.
2. Avverso tale decisione, ha interposto ricorso per cassazione il prevenuto a
mezzo del difensore di fiducia, per dedurre:
2.1 violazione dell’art. 186 comma 9-bis d.lgs. 285/1992 e delle norme in
tema di sanzioni sostitutive; vizio di motivazione in riferimento alla relazione
redatta dalla responsabile. Il giudice non aveva applicato l’articolo 66 della legge
n. 689 del 1981 in tema di sanzioni sostitutive che, nel caso di violazioni delle
prescrizioni inerenti la libertà controllata o la semidetenzione dispone che si tenga
conto della pena già espiata. Viene sottolineato che le motivazioni addotte
nell’ordinanza richiamano il paradigma della messa alla prova nei procedimenti a
carico dei minorenni, e non è applicabile alla prestazione del lavoro di pubblica
utilità. Pertanto, il ripristino della pena sostituita previsto dall’art. 186 c. 9 bis del
codice della strada doveva essere effettuato computando come pene espiata il
periodo lavorativo eseguito positivamente.
2.2. Peraltro, non era stato considerato che il condannato aveva recuperato
le ore ritenute poco produttive e la stessa responsabile del centro aveva attestato
l’effettivo compimento delle ore lavorative. Il ripristino integrale della sanzione
sostituita avrebbe comportato una duplicazione della pena.
3. Il Procuratore generale ha chiesto di accogliere il ricorso.

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aveva sovente disobbedito alle regole che gli venivano poste, mostrando

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Questo Collegio ha già esaminato, sotto altro aspetto, la questione di diritto
sulla revoca della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, applicata quale
pena sostituiva ai sensi dell’art. 186, comma 9 bis, CdS, ed in particolare sulla
portata degli effetti del provvedimento di revoca della misura sostitutiva
eventualmente adottato. Si è in proposito affermato, con decisione che questo

Sentenza n. 42505 del 23/09/2014 Cc. (dep. 10/10/2014 ) Rv. 260131), che la
normativa contenuta nel decreto legislativo 28.8.2000, n. 274 prevede, all’art.
58, che per ogni effetto giuridico la pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e
del lavoro di pubblica utilità si considerano come pene detentive della specie
corrispondente a quella della pena originaria. Si ha dunque riguardo a pene
detentive e non a misure alternative alla detenzione, quali quelle previste
dall’Ordinamento penitenziario, in cui la revoca della misura alternativa consegue
all’accertamento della inidoneità del condannato ad essere risocializzato, essendo
stata smentita la prognosi di rieducabilità formulata al momento della
concessione della misura.
2. Così come non è richiesto che il detenuto accetti di buon grado di
scontare la pena inflittagli – salvo i riflessi che ne possono derivare in relazione ai
benefici penitenziari -, allo stesso modo non è richiesto che chi è sottoposto allo
svolgimento di lavoro di pubblica utilità presti una adesione maggiore, rispetto a
quella la cui inosservanza può integrare violazione, penalmente sanzionata,
degli obblighi alla pena del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’articolo 56,
comma 2, d.lgs. 274/2000.
3. Ciò detto, viene fatto di sottolineare che la soluzione al quesito va trovata
attraverso la considerazione preliminare che la revoca ex tunc del lavoro di
pubblica utilità con ripristino integrale di quella sostituita, ponendo nel nulla una
parte di pena già espiata si risolve in una duplicazione di pena, in contrasto con
l’art. 13 Cost.. Il non tener conto del trascorso periodo di esecuzione del lavoro
di pubblica utilità equivale, invero, all’applicazione di una sanzione per il
comportamento tenuto dal condannato, in casi non previsti dalla legge (l’art. 56
cit. punisce il condannato che viola reiteratamente senza giusto motivo gli
obblighi o i divieti inerenti alle pene della permanenza domiciliare o del lavoro di
pubblica utilità). Ma in un sistema costituzionale nel quale la libertà personale é
solennemente qualificata come inviolabile e soffre restrizioni solo in presenza di
particolari garanzie – puntualmente dettate nello stesso art. 13 ed in una serie di
altre disposizioni (artt. 24, secondo comma, 25, secondo e terzo comma, 27 e
2

Collegio nell’impostazione della questione condivide e fa propria (Sez. 1,

111, primo e secondo comma Cost.) – l’irrogazione di sanzioni che si aggiungano
a quelle ritenute originariamente proporzionate al grado di responsabilità del
soggetto non può avvenire in assenza di un’ulteriore condotta violatrice,
addebitabile a costui, che razionalmente le giustifichi (così Corte Costituzionale
n. 343 del 1987). Occorre allora porre in rilievo due norme: quella (art. 58 o,
alternativamente, l’art. 186, comma 9-bis CdS) che, collegata all’art. 54 d.lgs.
274/2000, prescrive i criteri di ragguaglio tra la pena detentiva ed il lavoro di
pubblica utilità, e quella dell’art. 66 della Legge n. 689 del 1981, che pur

esprime il principio generale, valido per tutte le misure alternative alla
detenzione, secondo cui la violazione di una prescrizione inerente la specifica
misura, comporta la conversione della restante parte di pena nella pena
detentiva sostituita. Le direttrici delineate dalle due previsioni suindicate
impongono di concludere nel senso che in caso di non corretta esecuzione -in
termini di improduttività- delle prescrizioni in materia di lavoro di pubblica utilità,
che non raggiungono il livello che determina l’applicazione della sanzione penale
prevista dall’art. 56 decreto suindicato, l’attività di lavoro compiuta in
precedenza, con esito favorevole, dovrà essere apprezzata come espiazione della
pena in quel particolare intervallo temporale; il periodo di lavoro residuo dovrà
essere tradotto in pena detentiva alla luce dei criteri di ragguaglio previsti dalla
norma applicabile al caso concreto; la pena detentiva residua dovrà essere
espiata dall’interessato, una volta riconosciuta come non più eseguibile la misura
sostitutiva. In questo senso, l’utilizzo del sintagma “ripristino” contenuto nell’art.
186 c. 9-bis cit. deve intendersi relativo alla natura della pena che dovrà essere
eseguita -cioè, l’arresto-, ma non al

quantum

da eseguire, dovendosi

considerare il periodo di lavoro di pubblica utilità già espiato, che ha comportato
significative limitazioni all’esercizio di una serie di diritti costituzionalmente
garantiti. Soluzione tanto più necessaria nel caso in esame in cui, come emerge
indirettamente dall’ordinanza e espressamente dalla relazione inviata all’Ufficio
U.E.P.E., anche se con alcune incomprensioni, vi è stato un integrale
compimento delle ore lavorative, nella durata stabilita nel provvedimento (25
giorni per 50 ore complessive).
4. L’ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.
Così deciso in Roma, 27 gennaio 2015
Il Consigliere estensore

Il Presidente

disciplinando due diversi istituti -la semidetenzione e la libertà controllata-

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