Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20257 del 28/04/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 20257 Anno 2015
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: CARRELLI PALOMBI DI MONTRONE ROBERTO MARIA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
CONVERSANO GIUSEPPE N. IL 28/09/1967
avverso la sentenza n. 575/2010 CORTE APPELLO di MILANO, del
26/02/2014
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROBERTO MARIA
CARRELLI PALOMBI DI MONTRONE;

Data Udienza: 28/04/2015

R.G. 21369/2014
Considerato che:
Conversanti) Giuseppe ricorre avverso la sentenza della Corte di Appello di
Milano del 26/2/2014, confermativa della sentenza di condanna resa dal
Tribunale di Milano in data 1/10/2009 per il reato di ricettazione, chiedendone
l’annullamento ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.; deduce la
carenza e l’illogicità della motivazione con riguardo alla sussistenza degli
elementi costitutivi del reato ed in particolare all’elemento psicologico nonché

Quanto al primo motivo di ricorso proposto, la Corte territoriale, nel
confermare la sentenza di primo grado, si è adeguata al costante orientamento
della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, ai fini della configurabilità del
delitto di ricettazione è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita
del bene ricevuto, senza che sia peraltro indispensabile che tale consapevolezza
si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di
modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove
indirette, allorché siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura
intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza
illecita di quanto ricevuto. E ciò appare in linea con quanto più volte affermato da
questa Corte laddove si è ritenuto che la conoscenza della provenienza delittuosa
della cosa può desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche
dal comportamento dell’imputato che dimostri la consapevolezza della
provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata – o non attendibile
– indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente
rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto
in mala fede (Sez. 2 n. 25756 del 11/6/2008, Nardino, Rv. 241458; sez. 2 n.
29198 del 25/5/2010, Fontanella, Rv. 248265). Nella sentenza impugnata
l’assenza di plausibili spiegazioni in ordine alla legittima acquisizione del
ciclomotore risultato rubato, che si presentava privo di certificato di conformità e
di copertura assicurativa, si pone come coerente e necessaria conseguenza di un
acquisto illecito.
Tutto ciò vale ad escludere, anche attraverso il richiamo alla sentenza di
primo grado, qualsiasi vizio della motivazione anche in ordine alla qualificazione
giuridipa-del fatto ai sensi dell’art. 648 cod. pen., non potendo il fatto, per le
considerazioni sopra svolte, essere inquadrato nell’ipotesi dell’incauto acquisto di
cui all’art. 712 cod. pen. Difatti, sulla base di quanto sopra detto, la Corte
territoriale ha dato atto, con argomentazioni prive di contraddittorietà logiche e
conformi alle risultanze processuali, che la qualificazione giuridica operata dal
giudice di primo grado era corretta, sussistendo l’elemento materiale e quello

con riferimento alla determinazione della pena.

psicologico del delitto di ricettazione. E la scelta effettuata dai giudici di merito
si pone in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal
Collegio, in base alla quale in tema di ricettazione, il dolo può ricorrere anche
nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio
che la cosa accettata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad
una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che
invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta
provenienza (sez. 2 n. 45256 del 22/11/2007, Rv. 238515).

che il giudice di appello ha ritenuto adeguata la pena determinata dal giudice di
primo grado considerandola bene perequata rispetto al reale disvalore del fatto,
non essendo risultati altri elementi altri di fatto per determinare in senso più
favorevole al ricorrente il trattamento sanzionatorio.
Le considerazioni sopra imposte impongono di dichiarare inammissibile il
ricorso proposto. Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in € 1000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle
ammende.

Roma 28 aprile 2015

Quanto, infine, al secondo motivo di ricorso proposto, occorre evidenziarsi

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