Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20140 del 29/01/2016


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 20140 Anno 2016
Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO
Relatore: DOVERE SALVATORE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ASSUMMA CRISTOFARO N. IL 18/01/1954
MINISTERO ECONOMIA E FINANZE
avverso l’ordinanza n. 66/2013 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 15/01/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SALVATORE
DOVERE;
lette/sen e le conclusioni del PG Dott. AUP 4-iXatar,;, oert
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1105 9A-<, ,54 C■1:5 tA~AP5 Uditi difens Avv.; Csacd-~- yets1/4»„.4.1>o

Data Udienza: 29/01/2016

RITENUTO IN FATTO
1. Assumma Cristofaro, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per
cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, con la quale è stata rigettata
la sua istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione subita per custodia in
carcere per 209 giorni, in relazione al delitto di estorsione aggravata dall’art. 7 I.
n. 203/1991, per il quale era stato prosciolto con sentenza passata in giudicato
il 18.11.2011.
La Corte territoriale ha ravvisato l’insussistenza dei presupposti del diritto alla

comportamento dell’Assumma aveva dato corso all’ordinanza di custodia
cautelare, individuando gli estremi della colpa grave, preclusiva al
riconoscimento dell’indennizzo richiesto.
La Corte di Appello ha rammentato che per l’istante era stata disposta la
custodia in carcere nell’ambito del procedimento promosso a carico
dell’Assumma medesimo nonché di Gioacchino Campolo, titolare della ditta
A.R.E., della quale l’Assumma era un tecnico, e di Gaetano Andrea Zindato,
quale esponente della cosca ZINDATO/LIBRI, per estorsione continuata
aggravata dall’art. 7 della legge 203/91 ai danni di Carlo e Santina Giuffrè,
nonché degli imprenditori Cedro, per essere stati questi costretti a rimuovere
dall’esercizio commerciale dei primi gli apparecchi da gioco forniti dai Cedro per
installare quelli del Campolo. Il quadro indiziario a carico dell’Assumma era
rappresentato da alcune conversazioni captate dagli inquirenti dalle quali
emergeva, tra l’altro, che questi aveva offerto anche lo spunto per un’altra
“operazione”, relativa questa volta ad un tabacchino, così manifestando un
atteggiamento tutt’altro che da mero esecutore delle direttive del suo datore di
lavoro. Il Tribunale del riesame aveva poi confermato integralmente il
provvedimento rimarcando che la specifica vicenda era intimamente connessa ad
altre similari, sempre relative a delitti posti in essere nell’ambito della medesima
strategia “espansionistica” della ditta A.R.E. del Cannpolo. Oltre a far esplicito
riferimento al contenuto di talune intercettazioni attinenti all’Assumma, il
Tribunale aveva fatto anche rinvio alle dichiarazioni di Polinneni Pasquale che, in
altro ambito processuale, aveva indicato l’Assunnnna quale soggetto presente
allorché si discusse di altra analoga vicenda estorsiva posta in essere dal
Cannpolo, a dimostrare la fiducia che l’Assumma godeva presso questi. Ulteriore
episodio richiamato dal Tribunale distrettuale era stato quello concernente il
colloquio in carcere tra l’Assuma ed il figlio, che utilizzò nell’occasione espressioni
denotanti il credito acquisito dall’Assumma a seguito della vicenda oggetto di
indagine ed il supporto economico ricevuto anche dalla moglie del Campolo per i
“servizi” resi al marito.

riparazione di cui all’art. 314, 1° comma, cod. proc. pen., in quanto il

La Corte di Appello ha completato la premessa narrativa esplicitando che nella
sentenza assolutoria del giudice di primo grado si era ritenuto che gli elementi
valorizzati ai fini cautelari non fossero idonei a sostenere un’affermazione di
penale responsabilità dell’Assumma; pur essendo accertato che questi fosse
stato fedele esecutore degli ordini (anche dal contenuto illecito) del Campolo e
fosse stato perfettamente consapevole dei metodi anche illeciti adoperati da
costui per imporre la sua supremazia nei confronti delle ditte concorrenti, doveva
ritenersi che l’Assumma non aveva prestato alcun contributo materiale per la

il giorno dopo la sua commissione.
A fronte di tale quadro la Corte di Appello ha ritenuto che la consapevolezza dei
metodi illeciti adoperati dal Campolo per imporre la sua supremazia nei confronti
delle ditte concorrenti, anche in forza dell’intervento di esponenti mafiosi, e
l’atteggiamento propositivo con riferimento ad altri possibili obiettivi nonché la
condivisione del modo di fare impresa concretassero la colpa grave ostativa.

2. Il ricorrente ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata, in primo
luogo per violazione dell’art. 314 cod. proc. pen., rilevando che confligge con la
nozione di colpa grave il ritenere sussistente la medesima in ragione di
“comportamenti dai quali l’autorità procedente abbia a suo tempo, più o meno
fondatamente, ritenuto di poter trarre elementi indizianti a carico del soggetto
inquisito”. Assume l’esponente che la colpa grave “riguarda la condotta
processuale dell’imputato che, essendo a conoscenza del procedimento a suo
carico, si comporti, nel difendersi, con rilevante imprudenza e grossolana
incruia”. Inoltre la Corte di Appello dimostra di confondere ciò che é penalmente
rilevante con ciò che é moralmente riprovevole.
Trattandosi di comportamento connivente, la Corte di Appello avrebbe dovuto
dimostrare che essa fosse indice del venir meno di elementari doveri di
solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle
cose, o che essa si fosse concretata nel tollerare che il reato fosse consumato,
pur avendo il potere di impedirlo, oppure che essa avesse oggettivamente
rafforzato la volontà criminosa dell’agente.
Aggiunge, l’esponente, che l’assoluzione dell’Assumma non fu dovuta
all’emergere di alcun elemento diverso da quelli valutati dal Giudice per le
indagini preliminari che ne dispose l’arresto. E contesta che sia riconoscibile una
norma di cautela che imponesse all’Assumma di astenersi dal commentare
eventuali attività delittuose del Campolo. Rimarca la posizione di lavoratore
subordinato del ricorrente.

realizzazione dell’estorsione in questione, essendo venuto a conoscenza del fatto

3. Con memoria depositata il 5.10.2015, l’Avvocatura Generale dello Stato, in
rappresentanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha chiesto la
conferma dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è infondato.
4.1. A fronte dei rilievi mossi con il ricorso che si esamina è opportuno
premettere, con estrema sintesi, l’indicazione delle linee portanti della disciplina
dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, così come delineata dalla

In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare
se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave,
deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori
disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino
eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o
regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se
adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 34559 del
26/06/2002 – dep. 15/10/2002, Min. Tesoro in proc. De Benedictis, Rv. 222263).
In particolare, quanto al compendio degli elementi valutabili, il S.C. ha
ripetutamente puntualizzato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno
della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per
ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa
grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia
cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che
successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento
della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. U,
n. 32383 del 27/05/2010 – dep. 30/08/2010, D’Ambrosio, Rv. 247664; nel
medesimo senso già Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro
ed altri, Rv. 203636).
Una risalente pronuncia ha sostenuto che “la condizione ostativa al
riconoscimento del diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione rappresentata
dall’aver dato causa, da parte del richiedente, all’ingiusta carcerazione, non può
consistere in circostanze relative alla condotta già oggetto della pronuncia
assolutoria, ma deve concretarsi in comportamenti esterni ai temi
dell’incolpazione, di tipo processuale, come un’autoincolpazione, un silenzio
cosciente su di un alibi, una fraudolenta creazione di tracce o prove a proprio
danno” (Sez. 6, n. 1401 del 28/04/1992 – dep. 22/05/1992, Zenatti, Rv.
190488). Essa però è stata presto disattesa dalla successiva giurisprudenza, che
si è attestata sul principio per il quale “in tema di riparazione per l’ingiusta
detenzione, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo,

giurisprudenza di legittimità.

rappresentata dall’avere il richiedente dato causa, all’ingiusta carcerazione, deve
concretarsi in comportamenti che non siano stati esclusi dal giudice della
cognizione e che possano essere di tipo extra-processuale (grave leggerezza o
macroscopica trascuratezza tali da aver determinato l’imputazione), o di tipo
processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi); il
giudice è peraltro tenuto a motivare specificamente sia in ordine all’addebitabilità
all’interessato di tali comportamenti, sia in ordine all’incidenza di essi sulla
determinazione della detenzione. (Sez. 4, n. 8163 del 12/12/2001 – dep.

Vale anche precisare che idonea ad escludere la sussistenza del diritto
all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – è non solo
la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi
termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma
anche “la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del
procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit”
secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una
situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a
tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo. Poiché inoltre, anche
ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve
ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del
predetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur
tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza,
imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme
disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile,
ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un
provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno
già emesso” (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro ed
altri, Rv. 203637).
Nella prospettiva del sindacato di legittimità è decisivo rimarcare che esso è
limitato alla correttezza del ragionamento logico giuridico con cui il giudice è
pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio,
mentre resta nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a
motivare adeguatamente e logicamente il proprio convincimento, la valutazione
sull’esistenza e la gravità della colpa o del dolo (Sez. 4, n. 21896 del
11/04/2012 – dep. 06/06/2012, Hìlario Santana, Rv. 253325).
Dovendosi tener conto del fatto che va tenuta distinta l’operazione logica propria
del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un
reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del
giudice della riparazione. Questi, pur dovendo operare, eventualmente, sullo

5

28/02/2002, Pavone, Rv. 220984).

stesso materiale, deve seguire un “iter” logico-motivazionale del tutto autonomo,
perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno
reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel
concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento “detenzione”; ed in
relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare
il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di
controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica),
sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa

43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro ed altri, Rv. 203638).
4.2. Tanto premesso, va ritenuto che l’ordinanza impugnata vada esente dalle
censure indirizzatele dal ricorrente.
Non risponde al vero che la condotta gravemente colposa, ostativa alla
riparazione per l’ingiusta detenzione, deve concretarsi in comportamenti
processuali. Si é rammentato in precedenza che la questione, già oggetto di un
contrasto giurisprudenziale, é stata risolta in senso opposto. Si é riportato nella
superiore parte narrativa quali condotte siano state individuate dalla corte
distrettuale quale nucleo di una condotta gravemente colposa.
Neppure coglie il segno la censura di aver indebitamente valutato fatti
moralmente riprovevoli: in realtà da un canto non devono essere valutati solo
fatti penalmente rilevanti, dall’altro si tratta di valutare il comportamento, a
prescindere dalla sua eticità, per la attitudine a far ipotizzare un reato per il
quale é prevista una grave restrizione della libertà personale. Il giudizio
formulato dalla Corte distrettuale concerne l’attitudine della condotta a
concorrere all’errore dell’A.G.
A riguardo della connivenza, si può condividere con il ricorrente che la
connivenza non é di per sé significativa anche ai fini del giudizio riparatorio. Ma
nel caso di specie é persino ultroneo andare a verificare se ricorra taluna delle
condizioni che rendono la connivenza comportamento ostativo alla riparazione,
perché la Corte di Appello ha rimarcato il comportamento propositivo avuto, tra i
comportamenti passivi, dall’Assunnnna. Il che esclude in radice che possa
ipotizzarsi una condotta caratterizzata dalla mera passività.
Quanto all’esser stata l’assoluzione fondata sui medesimi elementi che
giustificarono l’ordinanza cautelare genetica, la prospettazione – sia pure in
modo implicito – sembra avere il senso di rimarcare la marginalità della
l’eventuale colpa grave dell’istante, per l’insussistenza “ab origine” delle
condizioni di applicabilità della misura (cfr., ex multis, Sez. 4, n. 51726 del
13/11/2013 – dep. 23/12/2013, Boselli, Rv. 258231). Ma la ricorrenza dell’ipotesi
di cui all’art. 314, co. 2 cod. proc. pen. richiede – tra l’altro – che sia stata

di esclusione del diritto alla riparazione (in tal senso, espressamente, Sez. U, n.

accertata con provvedimento definitivo quella insussistenza; e nel caso in esame
il ricorrente non ha documentato l’esistenza di tale essenziale presupposto.
Ben diversamente da quanto esposto dal ricorrente, la Corte di Appello ha
chiaramente descritto la condotta doverosa che si sarebbe dovuta tenere, in
relazione ad una regola cautelare che può qui sintetizzarsi come prescrittiva di
una particolare prudenza nel trattenere rapporti con soggetti che si sa condurre
le proprie attività con modalità illecite (il consapevole orbitare in un contesto
malavitoso del quale parla la Corte di Appello), in specie se tali rapporti sono

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al
pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese processuali
in favore del Ministero resistente che liquida in mille euro.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali, dip nonché alla rifusione delle spese processuali in favore del Ministero
resistente che liquida in mille euro.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29/1/2016.

inevitabili per essere di natura lavorativa.

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