Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 20093 del 31/10/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 20093 Anno 2015
Presidente: BRUNO PAOLO ANTONIO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Bonetti Paolo, nato a Brescia 31.8.1961, avverso l’ordinanza
emessa dal tribunale di Milano in data 19.6.2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale Massimo Galli, che ha concluso per l’annullamento senza
rinvio del provvedimento impugnato;
udito per il ricorrente, l’avv. Giacomo Umberto Lunghini, del Foro
di Milano, difensore di fiducia di Magnoni Luca, che ha concluso
chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 31/10/2014

1. Con ordinanza emessa il 19.6.2014 il tribunale di Milano, in
funzione di giudice del riesame, confermava il decreto con cui il
giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano, in
data 5.5.2014, aveva disposto il sequestro preventivo per valore
equivalente a fini di confisca, ex artt. 321, co. 2, c.p.p., 11, I. n.
146 del 2006, dei beni, mobili ed immobili, specificamente indicati
nel suddetto provvedimento, appartenenti a Bonetti Paolo per un
valore equivalente al profitto del reato di trasferimento
fraudolento di valori aggravato dalla transnazionalità, ex art. 4, I
16 marzo 2006, n. 146, per il quale egli risulta indagato in
concorso con altri soggetti (capo E2 dell’imputazione provvisoria).
La vicenda per cui si procede riguarda la presunta appropriazione
indebita (del pari contestata all’indagato nel capo E1
dell’imputazione provvisoria) dei fondi della Cassa di Previdenza e
Assistenza dei Ragionieri e dei Periti Commerciali (d’ora innanzi
CNPR), affidati in gestione ad “Adenium sgr spa”, che,
nell’impostazione accusatoria, accolta dai giudici del riesame,
sarebbero stati oggetto di distrazione e successivo occultamento,
mediante una serie di operazioni finanziarie effettuate all’estero e
culminate con il rientro dell’originaria provvista in Italia in favore
di diversi soggetti.
2. Avverso tale decreto, di cui chiede l’annullamento, ha proposto
tempestivo ricorso per cassazione il Bonetti, a mezzo del suo
difensore di fiducia, lamentando violazione di legge, in ordine agli
artt. 321, c.p.p., e 11, I. 146/2006, sotto diversi aspetti, in

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FATTO E DIRITTO

quanto: 1) il tribunale del riesame, nel procedere al sequestro
finalizzato alla confisca per valore equivalente della somma di 52
milioni di euro, individuando il profitto derivante direttamente dal
delitto di trasferimento fraudolento di valori, nel “vantaggio

successivo riciclaggio o reimpiego del denaro stesso”, ha
commesso un evidente errore di diritto, non considerando che,
alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, il
profitto oggetto della misura ablativa non è rappresentato da un
qualunque vantaggio economico perseguito dal reo, ma deve
trattarsi di un effettivo incremento patrimoniale, vale a dire di una
variazione positiva verificatasi nel patrimonio del reo, in rapporto
di stretta derivazione causale con la commissione di uno specifico
reato e non ad essa preesistente; 2) la somma di denaro in
precedenza indicata non può essere considerata profitto del reato
di cui all’art. 12 quinquies I. n. 356 del 1992, non potendosi
qualificare in termini di accrescimento patrimoniale conseguito dal
Bonetti in virtù della consumazione del reato di trasferimento
fraudolento di valori, trattandosi, piuttosto, di un’utilità della quale
il ricorrente, insieme con gli altri indagati per i medesimi fatti, era
già in possesso in conseguenza della commissione del diverso
reato di appropriazione indebita del pari loro attribuito, quindi già
presente nel patrimonio dei suddetti indagati prima della
consumazione del delitto per il quale è stato emesso il titolo
cautelare reale, ragione per la quale la suddetta somma deve, in
realtà, considerarsi profitto del delitto di appropriazione indebita
ed in quanto tale, dovendosi escludere che il profitto di un reato
possa corrispondere al profitto di un diverso reato (sia esso reatopresupposto, reato-fine ovvero in concorso formale o in

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economico di avere del denaro schermato e pronto per il

continuazione con il primo), non suscettibile di sequestro
finalizzato alla confisca per valore equivalente ai sensi dell’art. 11,
L n. 146 del 2006, di cui difettano i presupposti, in relazione sia al
requisito della gravità del reato cui attribuire il carattere della

alla presenza di un beneficio patrimoniale aggiunto di diretta
derivazione dalla commissione del suddetto delitto di
trasferimento fraudolento di valori; 3) il tribunale del riesame ha
omesso di indicare le ragioni per le quali non sarebbe stato
possibile nel caso in esame individuare i beni che costituiscono
direttamente il prodotto, il profitto o il prezzo del reato,
necessario presupposto da cui dipende l’adozione del
provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca per valore
equivalente, la cui sussistenza non spetta al ricorrente
dimostrare, omettendo di rilevare, inoltre, anche la carenza delle
motivazioni addotte nel decreto emesso dal giudice per le indagini
preliminari sul punto.
3. Il ricorso non può essere accolto.
4.

Infondato appare il primo motivo di ricorso, peraltro

rappresentato anche in termini estremamente generici.
La censura dedotta, infatti, prende spunto da un passaggio della
motivazione dell’ordinanza impugnata in cui il profitto del reato di
cui all’art. 12 quínquies, I. 7 agosto 1992, n. 356, oggetto del
sequestro preventivo finalizzato alla confisca per valore
equivalente ex artt. 321, co. 2, c.p.p., 11, L 16 marzo 2006, n.
146, viene individuato in un preciso “vantaggio economico”
conseguito dall’indagato, quello “di avere del denaro schermato e
pronto per il successivo riciclaggio o reimpiego di denaro stesso”,

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transnazionalità, ex art. 3, I. n. 146 del 2006, sia, come già detto,

costituito dalla somma di somma di 52 milioni di euro,
proveniente dai fondi della CNPR.
Il ricorrente, tuttavia, omette di considerare, non solo il
complesso percorso motivazionale seguito dal tribunale del

con logica coerenza l’affermazione censurata, ma, soprattutto,
che la nozione di profitto come “vantaggio economico derivante
da reato”, appartiene ormai ad un consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità.
Già a partire dalla nota sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite
penali il 27.3.2008 (n. 26654; rv. 239927), in sede di
interpretazione della particolare ipotesi di confisca prevista
dall’art. 19, d. Igs. 8 giugno 2001 n. 231, la giurisprudenza di
legittimità ha chiarito che il profitto del reato, termine utilizzato
senza ulteriore specificazione, dall’art. 240, co. 1, c.p., va inteso
come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a
questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare
concreto significato operativo a tale nozione, l’utilizzazione di
parametri valutativi di tipo aziendalistico.
All’espressione “vantaggio economico”, precisano le Sezioni Unite,
inserendosi nel solco di precedenti arresti della giurisprudenza di
legittimità (si veda, ad esempio, Cass., sez. U., 3.7.1996, n.
9149, rv. 205707), non va, tuttavia, attribuito il significato di
“utile netto” o di “reddito”, bensì quello di “beneficio aggiunto di
tipo patrimoniale”, in quanto il termine “profitto” non può essere
inteso, riduttivamente, solo come espressione di una grandezza
residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il
confronto tra componenti positive e negative del reddito.

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riesame, in cui si inserisce, come si vedrà meglio nel prosieguo,

Tale orientamento risulta ribadito, tra le altre, da un’importante
decisione delle Sezioni Unite (la n. 38691 del 25.6.2009; rv. 2009,
rv 244191), in cui la Suprema Corte, nell’interpretare la nozione
di profitto accolta dal legislatore ai fini della corretta applicazione

per valore equivalente, ha anche riaffermato il principio, del pari
enunciato nell’arresto in precedenza citato, secondo cui il profitto
del reato deve essere identificato col vantaggio economico
ricavato in via immediata e diretta dal reato stesso, in una
prospettiva di correlazione diretta del profitto con il reato e di
stretta affinità con l’oggetto di questo, dovendosi escludere da
tale nozione solo qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione
indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa
comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità,
dall’illecito.
Più di recente, nel tentativo di dotare di maggiore concretezza e
specificità la nozione di profitto, si è opportunamente precisato, a
proposito della particolare ipotesi di confisca per valore
equivalente prevista, in tema di responsabilità amministrativa
degli enti, dall’art. 19, co. 2, d. Igs. 8 giugno 2001 n. 231, che, il
“profitto” del reato si identifica con il vantaggio economico di
diretta e immediata derivazione causale dal reato-presupposto, da
cui dipende, consistendo, pertanto, nel beneficio aggiunto di tipo
patrimoniale o nel complesso dei vantaggi di natura economica
tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, anche se non
di immediata percezione. Il profitto va, pertanto, considerato
come un effettivo arricchimento, che si traduce in un vantaggio
effettivamente conseguito o da conseguirsi con certezza e
previsione, dovendosi escludere da tale ambito quelle utilità non

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delle disposizione di cui all’art. 322 ter, c.p., in tema di confisca

ancora percepite dall’ente ma soltanto attese (cfr. Cass., sez. V,
03/04/2014, n. 25450).
Sull’esistenza di un imprescindibile nesso di derivazione causale
diretta ed immediata tra il vantaggio economico conseguito dal

(cfr. Cass., sez. VI, 20/12/2013, n. 3635; Cass., sez. II,
04/12/2013, n. 2228; Cass., sez. II, 12/11/2013, n. 8339, rv.
258787; Cass., sez. VI, 17/06/2010, n. 35748), in sede di
interpretazione delle diverse disposizioni normative che prevedono
l’istituto della confisca per valore equivalente, tra le quali, per
l’appunto, va ricompresa la previsione di cui al combinato disposto
degli artt. 11 e 3, I. 16 marzo 2006 n. 146, evidenziandosi,
peraltro, in alcuni condividibili arresti, come per profitto
confiscabile debba intendersi non solo un positivo incremento del
patrimonio personale ma qualsiasi vantaggio patrimoniale
direttamente derivante dal reato anche se consistente, ad
esempio, in un risparmio di spesa (cfr., ad esempio, Cass., sez.
III, 16/05/2012, n. 25677; Cass., sez. III, 23/10/2012, n.
45849).
Va, tuttavia, evidenziato, come al tempo stesso le Sezioni Unite
della Suprema Corte abbiano dato vita ad un orientamento che,
pur mantenendo inalterato il rapporto di derivazione immediata
dal reato del profitto, tende a ricornprendere in tale ultima
nozione anche le trasformazioni, soggettivamente attribuibili al
reo, che il bene immediatamente e direttamente derivante dal
reato (nella specie il denaro) subisce, in una prospettiva che
valorizza l’effettivo vantaggio ottenuto dal reo, facendo rientrare
nella nozione di profitto, non soltanto i beni che l’autore del reato
apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato

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reo e l’illecito, si è ormai attestata la giurisprudenza di legittimità

dell’illecito, ma anche ogni altra utilità (come i beni in cui il denaro
è stato investito), che lo stesso realizza come effetto anche
mediato ed indiretto della sua attività criminosa (cfr. Cass., sez.
U. 25/10/2007, n. 10280, nonché, nello stesso senso, Cass., sez.

Punto di arrivo di questo “andamento estensivo della
giurisprudenza in tema di profitto”, che ad avviso del Supremo
Collegio nella sua espressione più autorevole, va “ripreso ed
ampliato”, è l’affermazione, contenuta in un recentissimo arresto
delle Sezioni Unite, secondo cui è il “vantaggio” a rappresentare
“il nucleo essenziale dell’idea normativa di profitto”, per cui, pur in
assenza di un incremento patrimoniale di segno positivo (come è
lecito desumere implicitamente dalla lettura della motivazione),
costituisce profitto del reato commesso in violazione della
disciplina in materia di prevenzione degli infortuni sui luoghi di
lavoro, quel “vantaggio che si concreta, tipicamente, nella
mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura
cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione
che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di
quanto dovuto” (cfr. Cass., sez. U., 24.4.2014, n. 38343, rv.
261117).
Sicché appare non conforme al significato che il profitto del reato
ha assunto nell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di
legittimità, limitarne la nozione ai soli incrementi positivi in senso
stretto del patrimonio del reo, vale a dire esclusivamente alle
conseguenze della condotta illecita che aumentano la consistenza
di tale patrimonio, in termini meramente reddituali o di utile
netto, dovendosi includere, viceversa, in tale nozione qualsiasi
utilità o vantaggio, suscettibile di valutazione patrimoniale ovvero

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U., 30/01/2014, n. 10561, rv. 258648)

economica, che abbia determinato un arricchimento, cioè un
aumento, per il reo della capacità di accrescimento, godimento ed
utilizzazione del suo patrimonio, purché causalmente derivante,
direttamente o indirettamente, dal reato.

del vantaggio nei termini in precedenza indicati, sia l’intensità del
nesso causale che lo lega all’illecito, nel senso che vanno esclusi
dalla nozione di “profitto” del reato solo quei vantaggi che,
apparendo come risultati meramente ipotetici o potenziali della
condotta illecita o che in essa hanno un antecedente non
necessario in termini di stretta conseguenzialità, non possono
considerarsi causalmente derivanti dal reato.
5. Se ciò è vero, come è vero, si tratta, allora di fornire adeguata
risposta al rilievo formulato nel secondo motivo di ricorso circa
l’impossibilità di configurare la somma di 52 milioni di euro
oggetto del provvedimento ablativo, come “profitto” del reato di
cui all’art. 12 quinquies, I. 7 agosto 1992, n. 356, in difetto del
necessario nesso pertinenziale tra il reato in questione e la
suddetta somma, che, ad avviso del ricorrente, deve, in realtà,
ritenersi profitto del distinto delitto di appropriazione indebita, la
cui consumazione, nel caso in esame, precede, cronologicamente
e logicamente, la condotta di trasferimento fraudolento di valori.
Orbene l’assunto difensivo non può condividersi.
Giova, al riguardo, soffermarsi brevemente sulle modalità con cui
si sono svolte le condotte illecite contestate al Bonetti ed agli altri
indagati, come emerse dalle risultanze investigative, la cui
ricostruzione in punto di fatto e di diritto da parte del tribunale del
riesame il ricorrente non ha contestato.

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Ciò che connota il profitto del reato, in altri termini, è sia la natura

La somma di denaro di cui si discute proviene dai fondi della
società “Adenium Sicav” (già “Sopaf Capital Management SGR
spa”), società di gestione del risparmio di diritto lussemburghese,
di cui quattro comparti, acquistati dalla CNPR, venivano gestiti a

era uno dei manager.
In due occasioni dai comparti della “Sicav” lussemburghese, ove
erano depositati, venivano prelevati fondi della CNPR, per poi farli
transitare estero su estero in conti off-shore, finché non
rientravano in Italia, nella disponibilità di due società riconducibili
ai coindagati Selvi e Zappaterra, per essere, infine destinati ad
una pluralità di soggetti, costituiti da persone fisiche e giuridiche,
come compiutamente indicato nel capo E2) dell’imputazione
provvisoria (cfr. p. 10 dell’ordinanza impugnata)
Evidenzia, al riguardo, il tribunale del riesame, come già detto,
che “con la condotta posta in essere consistita nel trasferire
fraudolentemente il denaro, gli indagati hanno mascherato la
provenienza dello stesso dai fondi Adenium (e quindi da CNPR)
con il vantaggio di natura patrimoniale di poterne disporre per il
successivo riciclaggio o reimpiego di denaro”.
Pertanto, ad avviso del giudice dell’impugnazione cautelare, “il
beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, inteso come
l’accrescimento del patrimonio degli indagati, va ravvisato….nel
denaro, pari a 52 mln di euro, derivante dall’attività di
mascheramento, con cui gli indagati ottenevano la disponibilità
della somma di denaro”, di cui, peraltro, solo una parte rientrava
in Italia, a nulla rilevando che la suddetta somma di denaro sia
pari al profitto del reato di appropriazione indebita(cfr. p. 19
dell’ordinanza impugnata).

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scopo di investimento dalla “Adenium SGR spa”, di cui il Bonetti

La prospettiva indicata dal giudice del riesame deve ritenersi
corretta, pur abbisognando di un ulteriore approfondimento che
ne chiarisca meglio le implicazioni.
Ed invero occorre tener presente che la condotta

indagati, va considerata alla luce dei singoli segmenti in cui si è
articolata; da questo punto di vista esiste una distinzione
concettuale e di fatto tra l’appropriazione indebita realizzata
attraverso le due operazioni finanziarie iniziali, vale a dire la
sottoscrizione del fondo “Harrington” e la sottoscrizione dello
strumento finanziario “Agate” (capo E1), e le successive
operazioni di trasferimento fraudolento di valori, consistenti in una
serie di bonifici estero su estero, che hanno consentito di far
giungere una parte considerevole dei fondi originariamente
appartenenti alla CNPR, alla pluralità di destinatari operanti in
Italia, in modo tale da non farne emergere la provenienza, perché
schermata da una serie continua di passaggi tra diversi operatori
economici (capo E2).
Alle diverse fasi della condotta, sia pure unitariamente
considerate, perché poste in essere in evidente esecuzione di un
medesimo disegno criminoso, corrispondono, dunque, i due
distinti delitti, che, legittimamente, possono essere ascritti agli
stessi soggetti.
Come chiarito, infatti, da un recente e condivisibile arresto del
Supremo Collegio nella sua espressione più autorevole, è
configurabile il reato di cui all’art. 12 quinquies del d.l. 8 giugno
1992, n. 306, conv. in I. 7 agosto 1992, n. 356, in capo all’autore
del delitto presupposto, il quale attribuisca fittiziamente ad altri la
titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità, di cui

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complessivamente posta in ,essere dal Bonetti e dagli altri

rimanga effettivamente “dominus”, al fine di agevolare una
successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e
produttivo, poiché la disposizione di cui all’art. 12 quinquies citato
consente di perseguire anche i fatti di “auto” ricettazione,

rv. 259590).
Dall’autonomia concettuale delle suddette fattispecie delittuose
discende, come logica conseguenza, la capacità delle stesse di
produrre un distinto “profitto” per il reo, consistente, in entrambi i
casi, in un beneficio economico per quest’ultimo, causalmente
derivante, nei sensi in precedenza chiariti, da ciascuno degli illeciti
a lui ascrivibili.
Beneficio che, per il reato di appropriazione indebita, è costituito
dall’incremento positivo ottenuto dal patrimonio del reo in virtù
delle illecite acquisizioni, già consumatesi, come si è detto, con le
sottoscrizioni del fondo “Harrington” e dello strumento finanziario
“Agate”; per il reato di trasferimento fraudolento di valori, dal
vantaggio insito nella possibilità di disporre della somma di denaro
oggetto della complessiva appropriazione indebita secondo
modalità di schermatura tali da rappresentare una realtà fittizia in
ordine alla lecita provenienza dei fondi e, quindi, da facilitarne
oggettivamente il godimento e la stessa disponibilità da parte
degli autori dell’indebita appropriazione, in quanto le diverse
operazioni finanziarie poste in essere dopo la consumazione delle
due appropriazioni indebite innanzi indicate, sono state finalizzate,
da un lato al rientro in Italia dei capitali illecitamente sottratti alla
CNPR, distribuiti “a pioggia” ad una serie di soggetti, dall’altro a
conservarne la disponibilità all’estero.

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riciclaggio o reimpiego (cfr. Cass., sez. U. 27.2.2014, n. 25191,

In conclusione, dunque, il sequestro preventivo finalizzato alla
confisca per valore equivalente è stato legittimamente disposto in
relazione alla somma di denaro di 52 milioni di euro, che, per le
ragioni illustrate, in relazione alle diverse fasi in cui si è sviluppata

costituisce sia il profitto del reato ex art. 646, c.p., sia il profitto
del reato di cui all’art. 12 quinquies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306,
conv. in I. 7 agosto 1992, n. 356.
Tale conclusione non sembra affatto in contrasto con il principio
affermato in altro arresto di questa stessa sezione, secondo cui ai
fini della individuazione del profitto suscettibile di confisca è
necessario verificare la stretta relazione causale e patrimoniale fra
il reato commesso e il beneficio procurato, sulla base del criterio
della pertinenzialità, che impone la sussistenza di un profitto da
intendersi in senso concreto, materiale e patrimoniale, e non
quale generico vantaggio dalla commissione dell’illecito (cfr.
Cass., sez. V, 28/11/2013, n. 10265).
Come si è dimostrato, infatti, il vantaggio per gli indagati
derivante dal delitto di trasferimento fraudolento di valori è stato
tutt’altro che generico, incidendo specificamente sul godimento e
sulla disponibilità concreta della somma di denaro illecitamente
appresa.
D’altro canto va rilevato che il profitto del reato di cui si discute
presenta una struttura composita, in quanto al mutamento di
segno positivo della situazione patrimoniale del beneficiario, che
ne rappresenta una delle componenti, mentre da solo integra ed
esaurisce il profitto del delitto di appropriazione indebita, si
aggiungono le particolari modalità di fraudolento trasferimento
che hanno assicurato il godimento e la disponibilità del bene

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concretamente la complessiva condotta illecita degli indagati,

illecitamente acquisito in termini di ulteriore e diverso vantaggio
per il beneficiario stesso.
L’approdo interpretativo che si propone non appare, peraltro,
estraneo alla giurisprudenza di legittimità, come sottolineato dallo

Si è, infatti, affermato, in relazione ad un caso in cui si procedeva
nei confronti di una pluralità di imputati anche per il reato di
riciclaggio transnazionale aggravato, avente ad oggetto, tra
l’altro, i proventi delle frodi I.V.A. ed i reati di frode fiscale, che a
loro volta costituivano reati-fine di un’associazione a delinquere,
non contestati in concorso nei confronti del medesimo soggetto,
stante la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 648 bis co. 1,
c.p., che i proventi delle frodi fiscali costituiscono il profitto anche
del reato di riciclaggio in relazione ai soggetti che sono autori solo
di tale ultimo delitto transnazionale (cfr. Cass., sez. III
24/02/2011 n. 11970, rv. 249761, nonché, nello stesso senso,
Cass., sez. II, 09/10/2012, n. 42120, rv. 253831).
6. Inammissibile, infine, deve ritenersi il terzo motivo di ricorso.
Al riguardo si osserva che, come è stato affermato in un recente e
condivisibile arresto della Suprema Corte nella sua espressione
più autorevole, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per
equivalente può essere disposto anche quando l’impossibilità del
reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia
transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della
richiesta e dell’adozione della misura, non essendo necessaria la
loro preventiva ricerca generalizzata (cfr. Cass., sez. U.,
30.1.2014, n. 10561, rv. 258648).
Tale profilo, come correttamente ritenuto dal tribunale del
riesame (cfr. p. 20 dell’impugnata ordinanza), è stato

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stesso tribunale del riesame.

espressamente preso in considerazione dal giudice per le indagini
preliminari, che ha evidenziato come, al momento della richiesta
di applicazione della misura cautelare reale, non era possibile
procedere alla precisa e definitiva individuazione del profitto

proprio in ragione della complessità, del numero, dell’articolazione
e della reiterazione delle condotte illecite poste in essere secondo
l’assunto accusatorio (cfr. p. 10 del decreto si sequestro), per cui,
non potendosi procedere per tale ragione al sequestro preventivo
dei beni costituenti tale profitto, del tutto legittimamente è stato
disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per valore
equivalente.
Il tribunale del riesame, nel fare proprie le motivazioni del giudice
per le indagini preliminari, ha sottolineato, in particolare, come la
complessità delle operazioni finanziarie sia da mettere in stretta
connessione con i numerosi Stati, oltre l’Italia, in cui sono state
eseguite, nonché con il numero e l’articolazione delle condotte di
mascheramento, a conclusione delle quali di una parte del denaro
sottratto si perdeva addirittura la traccia.
Sul punto, pertanto, il provvedimento impugnato non può dirsi né
adottato in violazione dell’art. 11, I. n. 146 del 2006, né dotato di
motivazione apparente, appalesandosi i rilievi del ricorrente sul
punto estremamente generici, risolvendosi in una mera
affermazione tautologica secondo la quale il giudice per le indagini
preliminari, senza per questo incorrere nella censura del tribunale
del riesame, avrebbe adottato il provvedimento di sequestro
oggetto di ricorso senza verificare la concreta possibilità di
procedere al sequestro diretto del profitto del reato, che, peraltro,

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derivante dai reati commessi in capo a ciascuno degli indagati,

e significativamente, nemmeno il ricorrente è in grado di
individuare.
7. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto
nell’interesse del Bonetti va, dunque, rigettato, con condanna del

del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma il 31.10.2014

ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese

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