Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19917 del 23/03/2018


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 19917 Anno 2018
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: MENGONI ENRICO

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
PERONE CARLO nato il 28/03/1955 a ROMA

avverso la sentenza del 09/11/2016 della CORTE APPELLO di ROMA
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO MENGONI;

Data Udienza: 23/03/2018

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 9/11/2016, la Corte di appello di Roma confermava la
pronuncia emessa il 17/7/2014 dal Tribunale di Civitavecchia, con la quale Carlo
Perone era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 178, comma 1, lett.
b), e 2, d. Igs. 22 gennaio 2004, n. 42 e condannato alla pena di sei mesi di
reclusione e 400,00 euro di multa.
2. Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore,

Giudice, avrebbe affermato la responsabilità del Perone sul mero presupposto
che questi detenesse, in un locale attiguo al suo atelier, beni archeologici privi
dell’indicazione di riproduzione; orbene, dalla lettera dell’art. 179, decreto citato,
emergerebbe invece evidente che il reato può configurarsi soltanto all’atto della
vendita dell’oggetto o della sua esposizione, mentre nessun rilievo rivestirebbe la
sola detenzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il gravame risulta manifestamente infondato.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv.
265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte,
osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento
impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di
una violazione di legge o di un vizio motivazionale, lo stesso di fatto tende ad
ottenere in questa sede una nuova ed alternativa lettura delle medesime
emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito, sollecitandone una
valutazione diversa e più favorevole.
Il che, come riportato, non è consentito.
4. La doglianza, inoltre, oblitera che la Corte di appello – pronunciandosi
proprio sulla questione qui riprodotta – ha steso una motivazione del tutto
congrua, fondata su oggettive risultanze dibattimentali e non manifestamente
illogica; come tale, quindi, non censurabile. In particolare – e pacifica la natura di
riproduzione (peraltro ottima) di beni archeologici, propria dei reperti in esame,

chiedendo l’annullamento della pronuncia. La Corte di appello, al pari del primo

in nessun modo segnalata -, la sentenza ha evidenziato che: a) detti oggetti si
trovavano nel luogo di lavoro del Perone, sebbene non esposti in vetrina, ed
erano di facile reperimento per l’eventuale vendita; b) l’occultamento degli stessi
nel vano annesso al laboratorio, peraltro con approssimativo imballaggio, ne
evidenziava ulteriormente la destinazione alla vendita; c) del pari, la
frammentazione di alcuni vasi appariva realizzata con il fine di ingannare
potenziali clienti circa l’origine dei reperti; d) la qualità delle riproduzioni – si
ribadisce, molto buona – era di certo idonea a trarre in inganno possibili

Un argomento adeguato, quindi, che sfugge in toto alle censure proposte in
questa sede, volte – come premesso – ad ottenere una diversa valutazione dei
medesimi elementi fattuali già esaminati dalla Corte di merito, le cui citate
considerazioni, peraltro, il gravame medesimo neppure menziona.
5. Lo stesso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 23 marzo 2018

DEPOSITATA
IN CANCE.I.A_ERIA

acquirenti.

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