Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19902 del 23/03/2018


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 19902 Anno 2018
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: MENGONI ENRICO

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
GIOVAZZI MASSIMILIANO nato il 24/06/1977 a ROMA

avverso la sentenza del 10/03/2017 della CORTE APPELLO di ROMA
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO MENGONI;

Data Udienza: 23/03/2018

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 10/3/2017, la Corte di appello di Roma confermava la
pronuncia emessa il 12/7/2016 dal locale Tribunale, con la quale Massimiliano
Giovazzi era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 73, d.P.R. 9
ottobre 1990, n. 309, e condannato – con rito abbreviato – alla pena di tre anni,
otto mesi di reclusione e 12.000,00 euro di multa.
2. Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore,

confermato la condanna pur in presenza di plurimi elementi idonei a sostenere la
tesi dell’uso di gruppo; gli elementi indiziari indicati nell’ottica della rubrica,
inoltre, risulterebbero illogici e fallaci, sol considerando che il quantitativo di
sostanza altro non avrebbe costituito che la scorta personale per poco più di un
mese. Il vizio motivazionale, poi, riguarderebbe anche il mancato riconoscimento
dell’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, così come il
trattamento sanzionatorio e la confisca del danaro.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il gravame risulta manifestamente infondato.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv.
265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte,
osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento
impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di
una violazione di legge o di un vizio motivazionale, lo stesso di fatto tende ad
ottenere in questa sede una nuova ed alternativa lettura delle medesime
emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito, sollecitandone una
valutazione diversa e più favorevole.
Il che, come riportato, non è consentito.
4. La doglianza, inoltre, oblitera che la Corte di appello – pronunciandosi
proprio sulla questione qui riprodotta – ha steso una motivazione del tutto
congrua, fondata su oggettive risultanze dibattimentali e non manifestamente
illogica; come tale, quindi, non censurabile. In particolare, la sentenza ha

chiedendo l’annullamento della pronuncia. La Corte di appello avrebbe

ritenuto provata la destinazione della sostanza allo spaccio a fronte di più che
solidi elementi in fatto, quali: a) il notevole andirivieni di persone, nel giro di
poche ore, presso l’abitazione del ricorrente; b) le dichiarazioni del Corda; c)
l’obiettiva quantità di cocaina rinvenuta, da cui erano ricavabili ben 717 dosi
medie singole; d) la presenza di tutto il materiale “di ordinanza” di uno
spacciatore (bilancino di precisione, sacchetti per il confezionamento, coltelli per
il taglio, ecc.); e) la presenza di una lista con nomi e cifre, peraltro all’interno di
una scatola con la scritta “cassa”; f) la somma di 13.000,00 euro rinvenuta, del

una liquidazione ricevuta ben sei anni prima.
Argomenti non censurabili, attesa la forza logica ed evidenza probatoria.
5. Alle medesime conclusioni, poi, giunge la Corte quanto all’ipotesi di cui
all’art. 73, comma, d.P.R. n. 309 del 1990, che la sentenza ha negato in ragione
del significativo quantitativo di cocaina sequestrata e delle specifiche modalità
del fatto; sì da far buon governo del costante principio per cui la circostanza
attenuante speciale del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n.
309 del 1990, oggi fattispecie autonoma di reato, può essere riconosciuta solo in
ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato
qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione
(mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli
indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra
considerazione resta priva di incidenza sul giudizio (Sez. U, n. 35737 del
24/6/2010, Rico, Rv. 247911; successivamente, per tutte, Sez. 3, n. 23945 del
29/4/2015, Xhihani, Rv. 263651).
6. Quanto, poi, al trattamento sanzionatorio, questo è stato individuato con
caratteri non certo elevati, previa concessione delle circostanze attenuanti
generiche ed esclusione della contestata recidiva.
7. Da ultimo, in ordine alla confisca, la Corte ha congruamente rimesso alla
sede esecutiva, non potendosi stabilire – in quella di cognizione – l’an ed il
quantum della parte di danaro eventualmente di lecita origine.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 3.000,00.

2

tutto incompatibile con la condizione di disoccupato e ben difficilmente residuo di

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 23 marzo 2018

nsigliere estensore

Il

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