Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19889 del 24/10/2013

Penale Sent. Sez. 5 Num. 19889 Anno 2014
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
A.A.
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Genova il 16/05/2012
visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Oscar Cedrangolo, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della
sentenza impugnata, ovvero la proposizione di questione di legittimità
costituzionale dell’art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006;
udito per il ricorrente l’Avv. Vittorio Fasce, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso, e l’annullamento della sentenza impugnata,
riportandosi in subordine alla questione di legittimità costituzionale prospettata
nel ricorso medesimo

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 24/10/2013

Il difensore di A.A. ricorre avverso la pronuncia emessa nei
confronti del suddetto imputato dalla Corte di appello di Genova in data
16/05/2012, in forza della quale veniva parzialmente riformata la sentenza del
Tribunale della stessa città dell’08/03/2010. In primo grado, il A.A. era stato
condannato alla pena di anni 3 e mesi 8 di reclusione, oltre alle pene accessorie
di legge, per delitti di bancarotta relativi alla gestione della Eurosystem Trading
s.r.l. (poi Energy Net s.p.a.), dichiarata fallita nel novembre 2002 e della quale il
prevenuto era stato prima membro del consiglio di amministrazione (dal

fallimento); all’esito del giudizio di secondo grado, la Corte territoriale riduceva
la pena inflitta ad anni 3 di reclusione.
Il ricorrente lamenta:
1. erronea applicazione di legge penale ed extrapenale, ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. b) cod. proc. pen., per non avere la Corte di appello
applicato nei confronti dell’imputato la norma più favorevole di cui all’art.
1 legge fall., come modificata ai sensi del d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs.
n. 169 del 2007, in tema di piccolo imprenditore
La difesa rappresenta che, per effetto della novella del 2006, risulta fra
l’altro essere stato abrogato l’istituto dell’amministrazione controllata, cui
– anche nella successiva interpretazione giurisprudenziale – ha fatto
seguito una abolitio criminis in ordine alle ipotesi criminose già previste
dall’art. 236 legge fall.: ciò perché, nella ricostruzione qui offerta, «il
legislatore, eliminando un elemento costitutivo del reato, mutava la
propria valutazione in ordine al disvalore dei fatti di cui all’art. 236 legge
fall., tra cui quelli previsti dall’art. 223 legge fall., non ritenendoli più
meritevoli e bisognosi di pena». Nel contempo, veniva altresì modificato
l’art. 1 dello stesso r.d. n. 267 del 1942, circa la disciplina della
assoggettabilità di una impresa a dichiarazione di fallimento: non di
meno, pur incidendo anche detta novella sulla portata precettiva di norme
penali (fra cui, in primis, quelle in tema di bancarotta), l’art. 150 del
d.lgs. n. 5 del 2006 prevedeva espressamente che le procedure
concorsuali già pendenti continuassero ad essere disciplinate dalla
normativa previgente, «non comportando la nuova legge una abrogazione
totale degli istituti come nel caso dell’amministrazione controllata, ma
una ridefinizione dei criteri valutativi in base ai quali era possibile una
dichiarazione della sentenza dichiarativa di fallimento, elemento
costitutivo del reato di bancarotta».
Intervenute nella materia de qua le Sezioni Unite di questa Corte, con la
sentenza n. 19601 del 2008 (ric. Niccoli), era stato affermato il principio

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24/01/2000), quindi amministratore unico (dal 17/07/2000 alla data del

della non sindacabilità da parte del giudice penale dei presupposti della
sentenza dichiarativa di fallimento, ritenendosi che l’art. 2 cod. pen.
(nella parte che prevede la retroattività della norma penale più
favorevole) non fosse applicabile alla problematica in esame; a tale
pronuncia risulta avere fatto espresso richiamo anche la sentenza
impugnata, in ossequio peraltro all’indirizzo già tracciato dalla Corte
Costituzionale, secondo cui il principio dell’applicazione della legge più
favorevole al reo – a differenza del principio di stretta legalità – non ha
rango costituzionale, e può dunque trovare limitazioni da parte del

legislatore.
Il quadro di riferimento deve tuttavia essere rivalutato, secondo il
ricorrente, alla luce della sentenza emessa dalla CEDU il 17/09/2009 (nel
caso Scoppola c. Italia), laddove si afferma la necessità di considerare
che «l’art. 7, par. 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della
irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il
principio della retroattività della legge penale meno severa»: tale arresto
comporta, ad avviso del difensore del A.A., che il principio
dell’applicabilità della legge più favorevole ha a sua volta assunto un
rango costituzionale.
La difesa segnala in particolare che la nuova previsione di cui all’art. 1
legge fall. comporta l’introduzione di norme penali di maggior favore:
premesso che la disposizione specifica oggi criteri oggettivi, applicabili a
tutte le società commerciali e non alle sole imprese individuali, circa
l’individuazione del soggetto nei cui confronti possa intervenire una
dichiarazione di fallimento, il ricorrente reputa si possa «tranquillamente
affermare che la nuova norma extrapenale che disciplina il piccolo
imprenditore, concretando nella dichiarazione di fallimento il presupposto
dei reati fallimentari, possa e debba considerarsi come norma successiva
più favorevole. Infatti, se il fallimento è stato dichiarato per un soggetto
che, alla luce della nuova normativa, non avrebbe dovuto essere
assoggettato a tale procedura, è evidente che, sotto il profilo penalistico,
vengono a difettare i presupposti del reato stesso. A questo punto, si
verrebbero a creare delle ingiustificate differenze di applicazione – e di
conseguenze – tra chi, piccolo imprenditore oggi in seguito alla nuova
legge, vede non perseguibili né perseguite condotte che, se commesse il
giorno prima, lo vedrebbero invece imputato di gravi reati fallimentari».
La tesi difensiva è dunque che “legge più favorevole” sia non solo quella
direttamente di natura penalistica, ma anche quella che incide – seppure
in forma mediata – su un presupposto della fattispecie incriminatrice: tesi
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A.b,y

fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, di cui vengono offerti
richiami, già in altre occasioni.
Ne deriva, stando alla ricostruzione offerta nel ricorso, che la società già
amministrata dal A.A. non avrebbe mai dovuto essere dichiarata fallita,
vuoi intendendo come reali le patrimonialità indicate in rubrica (per
acquisto di obbligazioni della Carro s.p.a.) vuoi assumendo che fossero
fittizie: nel primo caso, la società si sarebbe trovata a disporre di attività
«clamorosamente superiore rispetto all’esiguo stato passivo»; nel

per definire il piccolo imprenditore». Ove questa Corte non ritenesse di
aderire a tale prospettazione, la difesa ripropone questione di legittimità
costituzionale del citato art. 150, in ragione delle disparità di trattamento
che la norma, se ancora interpretata in senso adesivo alle indicazioni di
cui alla sentenza n. 19601 del 2008 delle Sezioni Unite, verrebbe a
perpetuare (peraltro, ingiustificatamente anche con riguardo alla
differente soluzione adottata dalle stesse Sezioni Unite in ordine alla
abrogazione del reato di bancarotta in costanza di amministrazione
controllata: sul punto, vengono riportati passi della motivazione della
pronuncia n. 24468 del 2009, ric. Rizzoli)
2. inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen., circa i
criteri adottati per la valutazione delle prove sulla responsabilità
dell’imputato, quale presunto amministratore di fatto
La Corte di appello, secondo la difesa, avrebbe confermato la declaratoria
di penale responsabilità del A.A. pronunciata dal Tribunale di Genova
sul presupposto che egli sarebbe stato amministratore di fatto della
società fallita già prima di assumervi cariche formali; tesi, questa,
apoditticamente desunta da alcune testimonianze – richiamate nel corpo
della motivazione – provenienti da soggetti che era stato dimostrato
avevano avuto divergenze con l’imputato, da loro descritto come «una
sorta di referente per la contabilità» e titolare di deleghe ad operare sui
conti bancari. Tali indicazioni, stando al ricorrente, sarebbero del tutto
generiche e neppure riferite ad una dimensione temporale esatta, sì da
rendere arbitraria la conclusione dei giudici di merito secondo cui il
A.A. avrebbe avuto quel ruolo prima di diventare amministratore
delegato della società (affermazione decisiva, giacché tutte le imputazioni
contestate risalgono in effetti a quel periodo anteriore); inoltre, i verbali
del collegio sindacale oggetto delle produzioni difensive – pretermessi
nella valutazione prima del Tribunale e poi della Corte di appello, che non

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secondo, avrebbe per converso rispettato «i criteri individuati dalla norma

dedicano alcun riferimento a tali documenti – sconfessavano in radice gli
assunti dei testimoni de quibus.
3. inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento
alla condotta di “dissipazione” contestata al capo C) della rubrica
Ritiene la difesa che la Corte territoriale avrebbe offerto una
interpretazione “quasi estremistica” della nozione di dissipazione, che
secondo la giurisprudenza di legittimità ricorre quando sia stato realizzato
un comportamento del tutto estraneo alle esigenze dell’impresa e con la

incompatibili con il fisiologico esercizio delle attività della medesima; al
contrario, nel caso di specie sarebbe stata rilevata una condotta di
dissipazione in semplici spese sostenute per l’inizio di una attività
imprenditoriale non ancora in esercizio. Non potrebbe infatti convenirsi
con la soluzione implicitamente proposta dai giudici di merito, in base alla
quale «se l’impresa fallisce all’inizio delle attività, tutte le spese per
avviare l’impresa divengono automaticamente forme di dissipazione».

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
2. Con riguardo alla complessa problematica di cui al primo motivo di
doglianza, deve innanzi tutto condividersi l’interpretazione sostenuta dal
ricorrente a proposito della valenza costituzionale del principio della retroattività
di una norma penale di favore, accanto a quella (direttamente ricavabile dall’art.
25 Cost.) del correlato ed anzi presupposto principio di irretroattività della norma
penale sfavorevole.

Quand’anche il rango costituzionale della necessaria

retroattività della legge favorevole non si intendesse desumibile dal testo della
carta fondamentale del 1948, esso deve ormai considerarsi immanente
all’ordinamento (anche) per effetto delle indicazioni offerte a riguardo dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, rilevanti ai fini di un
parametro di costituzionalità da valutare ex art. 117 Cost., come imposto nelle
note pronunce del 2007 – nn. 348 e 349 – del giudice delle leggi.
Ergo, ben può trovare richiamo, ai fini appena illustrati, la sentenza della
Cedu del 17/09/2009 nel caso Scoppola c. Italia, invocata dall’odierno ricorrente;
va tuttavia fin d’ora chiarito che si tratta di una pronuncia di estrema rilevanza
soltanto laddove possa intendersi ravvisabile un problema di successione di leggi
penali nel tempo: presupposto che, nella fattispecie concreta oggetto dell’odierno
ricorso, non è dato riscontrare.

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chiara volontà dell’agente di diminuirne il patrimonio per scopi

2.1 Per meglio evidenziare i termini della questione sottoposta all’attenzione
del collegio, e delineare i confini nel cui ambito possono trovare applicazione i
principi anzidetti, è bene ricordare che il caso Scoppola riguardava una vicenda
di uxoricidio ed altri gravi delitti, con il protagonista condannato all’ergastolo in
sede di giudizio di appello: questi si era visto infliggere dal Gup, in sede di rito
abbreviato, la pena di 30 anni di reclusione, con successiva riforma in pejus in
forza di appello del P.M. essendo sopravvenuta – lo stesso giorno della prima
sentenza – la modifica normativa secondo cui, in caso di condanna ai sensi degli

diurno avrebbe dovuto essere sostituita con quella dell’ergastolo tout court.
Su tali presupposti, richiamate fonti di derivazione internazionale (l’art. 15
del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, l’art. 49 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 40 dello statuto della Corte penale
internazionale), nonché la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità
europee, la Cedu perviene ad una lettura aggiornata dell’art. 7 della
Convenzione, da non limitare alla sanzione del mero divieto di applicazione
retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato. Se infatti nel 1978
(caso X c. Germania) la Commissione europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto
che l’articolo 7 non sancisse il diritto di beneficiare dell’applicazione di una pena
meno severa prevista da una legge posteriore al reato, doveva non di meno
prendersi atto che negli anni successivi si era progressivamente formato un
consenso a livello europeo e internazionale per considerare che l’applicazione
della legge penale favorevole, anche se successiva rispetto al tempus commissi
delicti,

fosse divenuta un principio fondamentale del diritto penale,

implicitamente da ricomprendere nella portata del suddetto art. 7.
Tema, questo, direttamente incidente sul caso allora in esame, dovendosi
ritenere che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., per quanto norma contenuta in
un testo dettato per la disciplina di regole in rito, contenesse disposizioni di
diritto penale materiale, influendo sulla severità della pena da infliggere, e
dovesse dunque ricadere nel campo di applicazione dell’ultimo capoverso dell’art.
7, par. 1, della Convenzione.
2.2 Nella giurisprudenza di questa Corte, si è ritenuto configurabile un caso
di effettiva successione di leggi penali nel tempo (e dunque, ricorrendone le
condizioni, di eventuale abolitio criminis), in numerose situazioni: ad esempio, in
tema di liberalizzazione del prezzo di vendita del pane (v. Cass., Sez. III, n.
4176 del 29/01/1998, Sciacchitano) o di riperimetrazione di aree destinate a
riserva naturale (v. Cass., Sez. III, n. 9482 del 01/02/2005, Pitrella). Nelle
pronunce appena richiamate si segnala che per norma incriminatrice deve
intendersi quella che definisce la struttura essenziale e circostanziale del reato,

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artt. 438 e seguenti del codice di rito, la pena dell’ergastolo con isolamento

comprese le fonti extrapenali o sub-primarie che contribuiscono ad integrare la
fattispecie.
Ancora a titolo esemplificativo, si è invece escluso che sia disegnato un
fenomeno rilevante ex art. 2 cod. pen. in caso di «vicende successorie di norme
extra-penali che non integrano la fattispecie incriminatrice, né quelle di atti o
fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate
condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale,
che resta, pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la successione

del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e
che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente
commesso» (Cass., Sez. III, n. 5457 del 19/03/1999, Arlati, Rv 213465, in tema
di attività venatoria disciplinata da leggi regionali). Analogamente, si è
affermato che «la disciplina relativa alla successione delle leggi penali (art. 2
cod. pen.) si applica qualora la disposizione richiamata da una “norma penale in
bianco” sia modificata o abrogata, ovvero nell’ipotesi in cui venga modificata una
norma “definitoria” – ossia una disposizione attraverso la quale il legislatore
chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici,
concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale – oppure, infine, nel
caso in cui una disposizione legislativa commini una sanzione penale per la
violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa, che venga
abrogata in tutto o in parte» (Cass., Sez. II, n. 4296 del 02/12/2003, Stellaccio,
Rv 228152: in quest’ultima pronuncia risulta confermata la condanna di un
sindaco in ordine ad una ipotesi criminosa ex art. 323 cod. pen., pure in
presenza di modifiche normative circa la competenza ad emettere provvedimenti
in materia urbanistica).
2.3 Tanto premesso, deve ricordarsi che nella specifica materia oggi in
esame, ed in particolare quanto alla eventuale incidenza delle modifiche
introdotte nel 2006 e nel 2007 sul precetto di cui alla norma incriminatrice
contestata all’odierno ricorrente, le Sezioni Unite di questa Corte hanno già
escluso la ravvisabilità di un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo,
in quanto «il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex
artt. 216 e seguenti r.d. 16 marzo 1942, n. 267, non può sindacare la sentenza
dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di
insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni
previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicché le modifiche apportate all’art. 1
r.d. n. 267 del 1942 dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e dal d.lgs. 12 settembre
2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 cod. pen. sui

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di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto

procedimenti penali in corso» (Cass., Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli,
Rv 239398).
La motivazione della pronuncia del massimo organo di nomofilachia,
richiamati i contrasti di giurisprudenza – interni a questa stessa Sezione – che
avevano determinato l’ordinanza di rimessione ex art. 618 del codice di rito,
contiene spunti che consentono già di superare la tesi qui nuovamente sostenuta
nell’interesse del A.A., ed al contempo di ritenere manifestamente infondata la
paventata questione di costituzionalità. Osservano infatti le Sezioni Unite –

assume dovrebbe intendersi anche nel caso odierno, l’impresa nella cui gestione
si erano verificate le condotte criminose non sarebbe stata più soggetta a
fallimento alla stregua dei nuovi parametri normativi – che «se fosse vero che la
definizione normativa dei presupposti per la dichiarazione di fallimento di
un’impresa costituisce una norma extrapenale integratrice della fattispecie
penale, dovrebbe essere verificato se, in virtù di abolitio criminis (parziale), il
fatto ascritto all’imputato non sia più previsto dalla legge come reato»: ergo, e
più in particolare, «occorre verificare se la norma extrapenale incida su un
elemento della fattispecie astratta, non essendo di per sé rilevante una mutata
situazione di fatto che da quella norma derivi».
Elemento fondamentale di valutazione, allora, è che «nella struttura delle
fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e s. della legge fall., il presupposto
formale perché possano essere prese in considerazione, ai fini della
responsabilità penale, le condotte specificamente contemplate dalle norme non
richiama le condizioni di fatto richieste per il fallimento (o l’ammissione alle altre
procedure concorsuali) di un’impresa, consistendo invece nella esistenza di una
sentenza dichiarativa di fallimento […]. In altri termini […], nella struttura dei
reati di bancarotta “la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua
natura di provvedimento giurisdizionale”, e non per i fatti con essa accertati.
Sicché, in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la
sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale; né la disciplina
delle questioni pregiudiziali prevista dal codice di rito agli artt. 2 e 3 “vale a
spostare le premesse di diritto sostanziale”, perché i presupposti di fatto
accertati nella sentenza richiamata dalla fattispecie penale non sono una
“questione pregiudiziale” della quale possa ritenersi investito il giudice penale,
dato che essi sono stati appunto accertati da detta sentenza, “la quale vincola il
giudice penale (purché esistente e non revocata) come elemento della fattispecie
criminosa, e non quale decisione di una questione pregiudiziale” implicata dalla
fattispecie».

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muovendo dalla considerazione che in quella fattispecie concreta, come si

La disamina offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza Niccoli prosegue
rilevando che «l’atto giuridico richiamato in una fattispecie penale conta per gli
effetti giuridici che esso produce e non per i fatti con esso definiti, sicché, se
muta, per jus superveniens, la definizione legale dei presupposti (che possono a
loro volta consistere in dati di fatto o anche in atti giuridici) perché un certo atto
giuridico possa essere legittimamente adottato, non può dirsi che le norme
sopravvenute, che quei presupposti mutino, incidano sulla struttura del reato. E’
il caso poi di precisare che quando un atto giuridico è assunto quale dato della

condizione di punibilità), esso è sindacabile dal giudice penale nei soli limiti e con
gli specifici mezzi previsti dalla legge». Il che comporta, visto che nel caso di
specie l’atto giuridico consiste in un provvedimento giudiziale, l’impossibilità di
riconoscere al giudice penale «alcun potere di sindacato, dovendo limitarsi a
verificare l’esistenza dell’atto e la sua validità formale. Così, a titolo di esempio,
certamente non può essere sindacata la “sentenza di condanna” o il
“provvedimento del giudice civile” evocati, con i contenuti ivi precisati,
rispettivamente, dai commi primo e secondo dell’art. 388 cod. pen., o la
sentenza di separazione legale con addebito (art. 151, comma secondo, cod.
civ.) agli effetti di quanto previsto dall’art. 570 cpv., n. 2, cod. pen. […], o quella
che pronuncia la cessazione degli effetti civili del matrimonio di cui agli artt. 5 e
6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, richiamati dalla fattispecie penale
contemplata dall’art. 12-sexies della medesima legge […]. Quando elemento
della fattispecie è una sentenza, il giudice penale non è abilitato a compiere
alcuna valutazione, neppure incidentale, sulla legittimità di essa, perché le
sentenze, a prescindere dalla loro definitività, hanno un valore erga omnes che
può essere messo in discussione solo in via principale, con i rimedi previsti
dall’ordinamento per gli errori giudiziari (e cioè con i mezzi ordinari o straordinari
di impugnazione previsti dalla disciplina processuale)».
Avuto riguardo al precetto disegnato dagli artt. 216 e 217 legge fall., infine,
le Sezioni Unite spiegano che nelle norme de quibus «il termine “imprenditore”
non rileva di per sé ma solo in quanto individua il soggetto “dichiarato fallito”:
esso compone cioè un’endiadi che ha lo stesso valore connotativo del più breve
riferimento al “fallito” contenuto nell’art. 220 legge fall., del tutto analogo alla
espressione “società dichiarate fallite” usata negli artt. 223 e 224 legge fall. per
il caso dei “reati commessi da persone diverse dal fallito”; e nessun indizio
logico-giuridico può desumersi da dette fattispecie acché possa a ragione
ritenersi che al giudice penale sia demandato il compito di accertare in capo
all’imputato la veste di “imprenditore” ovvero, per la ipotesi di bancarotta
impropria, di sindacare la veste societaria assunta dalla fallita. D’altro canto,

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fattispecie penale (non importa se come elemento costitutivo del reato o come

anche se ciò fosse, il giudice penale avrebbe, in tesi, solo il compito di accertare
una generica qualità di “imprenditore”, ma non quella di verificare se, in base
alla legge fallimentare, un “imprenditore”, quale che sia, “possa essere
dichiarato fallito”, posto che le norme penali qui considerate non si esprimono in
questi termini, ma ancorano la operatività della fattispecie a una dichiarazione di
fallimento e non a un accertamento del giudice penale sulla esistenza delle
condizioni per le quali quell’imprenditore poteva essere dichiarato fallito.
L'”imprenditore” evocato dalle fattispecie in questione altri non è, dunque, che il

fallimento è inscindibilmente legata all’esercizio di una impresa, e la norma
penale, ponendo a dato strutturale della fattispecie l’esistenza di una
dichiarazione di fallimento, non può che richiamarsi a quella condizione
soggettiva (“imprenditore”) che la dichiarazione di fallimento implica
necessariamente».
Esclusa poi la rilevanza in subjecta materia delle previsioni normative in
tema di questioni pregiudiziali, le Sezioni Unite di questa Corte pervengono alla
conclusione che «i nuovi contenuti dell’art. 1 legge fall. non incidono su un dato
strutturale del paradigma della bancarotta (semplice o fraudolenta) ma sulle
condizioni di fatto per la dichiarazione di fallimento, sicché non possono dirsi
norme extrapenali che interferiscono sulla fattispecie penale. E il giudice penale,
che non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento sulla base della
normativa all’epoca vigente, allo stesso modo non può escluderne gli effetti sulla
base di una normativa sopravvenuta».
2.4 L’excursus seguito dalla pronuncia Niccoli, in definitiva, consente già di
ribadire che non si rende necessaria una rivalutazione del problema della
rilevanza delle modifiche introdotte alla legge fallimentare per effetto delle
novelle del 2006 e del 2007, indipendentemente dalla pur doverosa presa d’atto
di una nuova e più penetrante estensione da riconoscere al principio della
retroattività di norme penali di favore, in base agli arresti della giurisprudenza
sovranazionale: ciò perché, come appena illustrato, non si pongono nel caso in
esame questioni esegetiche da risolvere alla luce di una più o meno ampia,
ovvero costituzionalmente orientata, lettura dell’art. 2 cod. pen.
Va del resto tenuto presente che i principi di diritto affermati dalle Sezioni
Unite risultano costantemente ribaditi nelle pronunce successive (v. ad esempio
Cass., Sez. V, n. 40404 dell’08/05/2009, Melucci, Rv 245427, secondo cui «il
giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e
seguenti r.d. 16 marzo 1942, n. 267 non può sindacare la qualità di imprenditore
assoggettabile alla procedura fallimentare […] accertata con la sentenza
dichiarativa di fallimento»), anche con implicazioni ulteriori: ad esempio, è stato

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“soggetto dichiarato fallito”, giacché nel nostro ordinamento la dichiarazione di

affermato che «il giudice penale, investito del giudizio relativo al reato di cui
all’art. 216 legge fall., non può sindacare la qualità di socio di fatto ritenuta
decisiva dal giudice fallimentare ai fini della declaratoria di fallimento
dell’imputato» (Cass., Sez. V, n. 47017 dell’08/07/2011, Di Matteo, Rv 251446).
2.5 Né possono ricavarsi spunti di interesse, in vista dell’opposta
interpretazione suggerita dal ricorrente, dall’ulteriore intervento delle Sezioni
Unite sul diverso problema della abrogazione delle ipotesi di rilievo penale già
contemplate dalla legge fallimentare nei casi di società ammesse ad

degli stessi canoni ermeneutici, le Sezioni Unite offrano con la sentenza n. 24468
del 26/02/2009, ric. Rizzoli, elementi di conferma della tesi qui sostenuta.
Nella motivazione della sentenza Rizzoli si ribadisce infatti che «è attraverso
la fattispecie legale astratta che il legislatore individua i fatti ritenuti meritevoli
del presidio penale o, specularmente, rinuncia a punire determinati fatti, non più
considerati, in base a scelte politico-criminali, in linea col “giudizio di disvalore
astratto espresso dalla legge precedente” LI Se l’intervento legislativo
posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che sopprime un
elemento strutturale della stessa e, quindi, la figura di reato in essa descritta, ci
si trova – di norma – di fronte ad una ipotesi di abolitio criminis, il fatto cioè, già
penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante per effetto dell’abrogazione
di quell’elemento, quale conseguenza del mutato giudizio di disvalore insito nella
scelta di politica criminale; in questo caso, non può non trovare applicazione la
disciplina prevista dal secondo comma dell’art. 2 cod. pen.». E questo, a
differenza di quanto riscontrato per le ipotesi di bancarotta prese in esame dalla
sentenza Niccoli, è appunto quel che risulta essersi verificato per la fattispecie
incriminatrice già prevista dall’art. 236, comma secondo, n. 1, legge fall., in
relazione ai precedenti artt. 216 e 223, come puntualmente spiegato dalle
Sezioni Unite nella pronuncia del 2009.
Infatti, ferma restando l’autonomia delle diverse ipotesi di bancarotta in
relazione alle diverse procedure concorsuali di riferimento, in quanto il legislatore
«ha inteso sottolineare la diversa intensità dell’offesa all’interesse protetto,
secondo il contesto concorsuale in cui la stessa si realizza», dal che deriva che
«la bancarotta impropria connessa all’amministrazione controllata non può
essere omologata alla corrispondente figura concordataria», di cui la novella ha
non a caso inteso confermare il rilievo penale, non può che rilevarsi come l’art.
147 del d.lgs. n. 5 del 2006 abbia eliminato dal precetto di cui al ricordato art.
236 legge fall. ogni e qualsivoglia riferimento all’elemento normativo
“amministrazione controllata”: il legislatore, diversamente da quanto accaduto in
ordine al precetto sanzionato dall’art. 216, «non si è limitato ad intervenire sulla

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amministrazione controllata: deve piuttosto rilevarsi che, facendo corretto uso

normativa “esterna” relativa a tale istituto, ma ha eliminato ogni riferimento a
questo presente nella disposizione incriminatrice, risultata, quindi, amputata di
un suo elemento strutturale; né è stata emanata contestualmente una
disposizione transitoria che disciplini gli effetti dell’abrogazione di questo
elemento sulle disposizioni incriminatici. Ed allora, se […] il provvedimento
giurisdizionale di ammissione all’amministrazione controllata è elemento
costitutivo del reato, la soppressione di ogni riferimento ad esso coinvolge
necessariamente la cancellazione dell’art. 236 legge fall., nella parte in cui

punibilità delle condotte. È agevole concludere che l’intervento demolitorio, in
aderenza ai principi generali del nostro sistema, ha prodotto, a far data dal
16/07/2006 (entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006), l’effetto dell’abolitio
criminis tipica e dunque retroattiva (art. 2, comma 2, cod. pen.) […]. Il testo
vigente dell’art. 236, comma 2, n. 1 r.d. n. 267/1942 descrive un “fatto” diverso
da quello indicato nel precedente testo; circoscrive, invero, l’area di punibilità
alle sole ipotesi di bancarotta così detta concordataria e toglie rilevanza penale a
quelle connesse all’amministrazione controllata; ne consegue che, data la
ritenuta autonomia di queste ultime rispetto alle prime, l’effetto abrogativo,
limitatamente ai fatti espunti dal perimetro del novum, si pone come conclusione
ineludibile ed opera retroattivamente».
E non è chi non veda come il fenomeno descritto sia esattamente opposto
rispetto a quanto accaduto, per effetto della medesima novella, quanto al reato
ex art. 216 legge fall., dove la sentenza dichiarativa di fallimento appare invece
rimasta, come atto giuridico consistente in un provvedimento giudiziale per sua
natura non sindacabile dal giudice penale, elemento integrativo della norma
incriminatrice.
Ne deriva la necessità di disattendere il primo motivo di ricorso, e – come
già anticipato – di ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dedotta in ricorso, cui il P.g. risulta essersi associato in via
subordinata nel rassegnare le proprie conclusioni. L’art. 150 del d.lgs. n. 6, più
volte citato, non comporta sul piano penale delle disparità di trattamento fra chi
si trovava ieri in condizione di essere dichiarato fallito e chi, oggi, non lo sia più:
il discrinnine da tenere presente è quello non già della verifica dei presupposti per
la dichiarazione di fallimento, bensì della sussistenza di una dichiarazione
siffatta, ancora oggi richiesta dalla struttura della fattispecie. E, come un
sindaco resosi responsabile di reati contro la pubblica amministrazione non può
invocare a propria difesa una modifica normativa per cui, dopo la condotta
contestatagli, la competenza all’adozione di certi atti risulti trasferita ad altre
figure funzionali, così un imprenditore legittimamente dichiarato fallito,

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richiama il detto istituto e fa dipendere dalla operatività del medesimo la

indipendentemente dalle mutate previsioni sulla possibilità di pervenire a una
dichiarazione di fallimento in casi analoghi, dovrà continuare a rispondere delle
eventuali distrazioni, dissipazioni e/o irregolarità contabili a lui ascrivibili.
3. Quanto alle carenze motivazionali della sentenza impugnata in ordine alla
riconosciuta veste di amministratore di fatto in capo al A.A., è innanzi tutto
necessario ricordare che – stando alla rubrica, e come ricordato in precedenza la società di cui si discute venne dichiarata fallita il 28/11/2002, e che l’imputato

diventandone poi amministratore unico (sino al fallimento) a far data dal
17/07/2000. L’addebito di bancarotta documentale, pertanto, deve comunque
ed in prima battuta intendersi ascritto al ricorrente nella qualità formale di legale
rappresentante, assumendo precipua rilevanza ai fini della responsabilità penale
per il reato de quo la data della dichiarazione di fallimento, ed è soltanto ad
abundantiam che – con assoluta linearità e congruenza di argomentazioni – i
giudici di merito sottolineano come, ancor prima che egli divenisse
amministratore di diritto, l’imputato si fosse già pesantemente ingerito nella
gestione dell’impresa: ciò perché, quanto meno dal 24/01/2000, in base fra
l’altro alle dichiarazioni del presidente del collegio sindacale dimissionario e
dell’originario coindagato Vittorio Rollero, il A.A. era divenuto ben più di un
semplice socio di riferimento della Energy Net s.p.a., come da nuova ragione
sociale assunta.
Le censure mosse a riguardo nel corpo del ricorso sollecitano una
rivalutazione delle risultanze istruttorie, operazione in linea di principio non
consentita in sede di legittimità: del resto, il ricorrente si limita ad evidenziare il
presunto maggior peso che avrebbe dovuto essere riconosciuto ad elementi di
prova documentale rispetto a contributi testimoniali offerti da soggetti che la
difesa indica come in attrito con il A.A.. Nel fare ciò, non si avvede peraltro
che alcuni degli elementi di riscontro all’impianto accusatorio hanno invece
natura documentale, come il verbale del collegio sindacale – v. pag. 4 della
sentenza impugnata – in cui si attesta che le istruzioni relative a talune
operazioni correlate agli addebiti

sub

a) erano state impartite proprio

dall’imputato. Verbale, guarda caso, recante data anteriore (il 23/06/2000)
rispetto all’assunzione da parte del A.A. della carica di amministratore unico.
4. In ordine, infine, alle doglianze relative alla concreta ravvisabilità di una
condotta di dissipazione, deve prendersi atto che – a fronte della estrema
sinteticità della motivazione della sentenza di appello – i profili di responsabilità
dell’imputato risultavano già chiaramente affermati nella pronuncia di primo
grado, dove, a fronte della inconfutabile inattività della società nel periodo in cui

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ne fu componente del consiglio di amministrazione dal 24/01/2000,

vennero assunte spese a titolo di presunto start up per oltre 43.000,00 euro, il
A.A. aveva «dissipato in parte il patrimonio sociale con spese in residence, in
alberghi, in ristoranti ed in viaggi. Spese sproporzionate rispetto all’esiguo
patrimonio sociale e soprattutto non correlate allo scopo della Energy Net, che
nel periodo, in sostanza, rimase non operativa». Argomentazioni, queste, che
sul piano logico appaiono già sufficienti a confutare la tesi – pur sempre in fatto
– esposta dal ricorrente, secondo cui si era trattato di mere spese per
pagamento di bollette o arredi, trasferte, rappresentanza od affitto locali,

Deve per completezza ricordarsi che, per consolidata giurisprudenza,
«quando non vi è difformità di decisione, le motivazioni della sentenza di primo e
di secondo grado possono integrarsi a vicenda in modo da formare un tutto
organico ed inscindibile. Il giudice di appello, pertanto, non ha l’obbligo di
procedere ad un riesame degli argomenti del primo giudice che ritenga
convincenti ed esatti purché dimostri, anche succintamente, di aver tenuto
presenti le doglianze dell’appellante e di averle ritenute prive di fondamento»
(Cass., Sez. IV, n. 1198 del 24/11/1992, Pelli, Rv 193013); è stato altresì
affermato che «in tema di sentenza penale di appello, non sussiste mancanza o
vizio della motivazione allorquando i giudici di secondo grado, in conseguenza
della completezza e della correttezza dell’indagine svolta in primo grado, nonché
della corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del discorso del primo
giudice. Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello,
fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed
inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della
congruità della motivazione» (Cass., Sez. III, n. 4700 del 14/02/1994, Scauri,
Rv 197497; v. anche Sez. II, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino).
5. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del A.A. al pagamento delle
spese del presente giudizio di legittimità.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 24/10/2013.

piuttosto da contenere in misura assai inferiore.

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