Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19799 del 07/04/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 19799 Anno 2015
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: CASSANO MARGHERITA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LAMPADA FRANCESCO N. IL 27/03/1977
VALLE MARIA N. IL 16/01/1986
avverso l’ordinanza n. 18/2013 CORTE APPELLO di MILANO, del
30/06/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARGHERITA
CASSANO;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. r” –

c,,,

Uditi difensor Avv.;

c52,-; e.Ak- A

-ti.;

rito

Data Udienza: 07/04/2015

Ritenuto in fatto.

1.11 30 giugno 2014 la Corte d’appello di Milano rigettava la dichiarazione di
ricusazione presentata il 24 maggio 2013 da Francesco Lampada e Maria Valle nei
confronti del dott. Luigi Martino, Presidente del Collegio della quarta sezione
penale della Corte d’appello di Milano, investito della cognizione del procedimento

sono imputati del delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso
finalizzata alla commissione di delitti contro il patrimonio, la libertà individuale,
all’acquisizione, diretta e indiretta, alla gestione e al controllo di attività
economiche soprattutto nel settore edilizio, immobiliare, della ristorazione,
all’acquisizione di appalti privati, all’ostacolo del libero esercizio del diritto di voto.
In relazione a tale delitto gli imputati sono stati condannati in primo grado dal
Tribunale di Milano.
2.La Corte osservava che non sussistevano i presupposti per l’accoglimento
della ricusazione, atteso che i fatti oggetto del processo pendente dinanzi alla Corte
d’appello di Milano erano sostanzialmente diversi da quelli (associazione per
delinquere finalizzata alla commissione di reati di usura) per i quali Lampada e
Valle erano già stati in precedenza separatamente giudicati dal Collegio della quarta
sezione penale della Corte d’appello di Milano, presieduto dal dott. Luigi Martino,
ed era stata pronunziata sentenza ai sensi dell’art. 599, comma 4, c.p.p.
Rilevava, inoltre, che la sentenza pronunciata dal dott. Martino nei confronti di
Fortunato Valle in data 4 marzo 2008 atteneva a fatti commessi dagli anni ’90 fino
al 2002, dunque risalenti ad oltre cinque anni prima dei reati contestati a Fortunato
Valle nel procedimento penale pendente dinanzi alla Corte d’appello di Milano,
sezione quarta penale, presieduta dal dott. Martino, fatti contestati come commessi
dal 2006 al 2009.
Riteneva irrilevante la circostanza che parte offesa del reato di usura contestato
al capo 10) del procedimento nei confronti di Francesco Valle e Antonio Spagnuolo
fosse la stessa persona in danno della quale risultava consumato il delitto di usura
contestato nel procedimento in corso, trattandosi di fatti diversi che si assumono
commessi da soggetti diversi.
Evidenziava, poi, che la data di consumazione del reato di usura contestato al
capo 10) non poteva esplicare alcuna influenza sull’epoca di realizzazione del già
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penale n. 835/2013 R.G. App., nell’ambito del quale i predetti Lampada e Valle

giudicato reato di associazione di stampo mafioso, oggetto di sentenza passata in
giudicato nell’ambito della quale il giudici osservavano testualmente che, “pur
essendo stato contestata, quale data iniziale dell’associazione, quella del 1997,
tuttavia il periodo che può essere preso in considerazione decorre dal 2002, per
effetto del giudicato”.
La Corte d’appello di Milano aggiungeva che, nell’ambito del procedimento n.

finalizzata alla commissione di reati di usura, mentre nel procedimento in corso
viene contestato il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso.
Sottolineava che i reati contestati a Francesco Valle e Antonio Spagnuolo hanno
in comune, rispetto al delitto di usura per il quale Fortunato Valle è stato giudicato
con sentenza emessa a norma dell’art. 599, comma 4, c.p.p., unicamente la parte
lesa, ma riguardano imputati diversi e un episodio differente sia da un punto di vista
oggettivo che sotto un profilo temporale.
La Corte argomentava, infine, che il dott. Martino, con la sentenza pronunziata
ai sensi dell’art. 599, comma 4, c.p.p., si era limitato a prendere atto della rinunzia
ai motivi da parte di Fortunato Valle e della insussistenza di cause di
proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., ma non aveva in alcun modo accertato
la fondatezza della contestazione ex art. 416 c.p.p., preclusa dall’intervenuta
rinunzia al relativo motivo d’appello.
3.Avverso il suddetto provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione,
con un unico atto a firma del comune difensore di fiducia, Francesco Lampada e
Maria Valle, i quali formulano le seguenti censure.
Deducono inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 34, comma 2, e 37,
comma 1, c.p.p., così come modificati a seguito delle pronunce della Corte
Costituzionale inoltre.
Rilevano che, nel presente giudizio, sono state acquisite e hanno contribuito a
fondare il giudizio sulla sussistenza della contestata associazione per delinquere di
stampo mafioso le sentenze emesse il 22 marzo 2005, all’esito di giudizio
abbreviato, dal gup del Tribunale di Vigevano e il 4 marzo 2008 dalla Corte
d’appello di Milano – di cui faceva parte il dott. Martino – pronunziata, ai sensi
dell’art. 599 c.p.p. nei confronti di Fortunato Valle e di Francesco Valle,
rispettivamente padre e nonno di Maria Valle. Osservano che tutte le parti motive
della sentenza del Tribunale di Milano n. 8629/2012, dedicate alla tematica della
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5709/06, a Fortunato Valle viene contestato il delitto di associazione a delinquere

sussistenza dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, riprendono e
apprezzano i medesimi fatti giudicati dalle sentenze di Vigevano.
Lamentano il travisamento dell’episodio di usura con apparente parte offesa
Pecoraro che, a prescindere dalla diversa strutturazione dell’addebito, è identico nei
due procedimenti e il mancato esame dei capi 41) della rubrica, definito in appello
con la sentenza n. 963/2008), e n. 7) del procedimento attuale, in tema di esercizio

Eccepiscono il mancato esame delle argomentazioni sviluppate nella memoria
difensiva del 30 maggio 2014 con la quale erano stati ripercorsi i principi enunciati
dalla Corte Costituzionale con numerose decisioni (sentenza n. 283/2013, n.
113/2000, 283/2000) dai quali si ricava che sussiste la violazione del principio di
terzietà ogniqualvolta il giudice sia chiamato ad esprimere una valutazione di
merito collegata alla decisione finale della causa.
4.Con successiva memoria del 22 gennaio 2015 la difesa chiedeva la riunione
dei ricorsi proposti, da un lato, da Francesco Lampada e Maria Valle e, dall’altro,
da Fortunato Valle, ribadiva la identità delle associazioni oggetto dei due separati
processi, evidenziava la rilevanza probatoria attribuita nel presente processo alle
risultanze emergenti dal processo trattato in primo grado dal gup del Tribunale di
Vigevano e in appello dalla Corte d’appello di cui faceva parte il dott. Martino,
l’omesso apprezzamento della identità degli episodi di usura trattati nei distinti
processi e di esercizio abusivo del credito.

Osserva in diritto.

1.Va preliminarmente respinta, per assenza dei presupposti, l’istanza di
riunione proposta dal difensore dei due ricorrenti nell’ambito della memoria
difensiva, attesa l’autonomia delle posizioni e la diversità degli stadi di sviluppo
procedurale dei differenti ricorsi dinanzi a questa Corte.
2.Ciò posto, il ricorso proposto dai due ricorrenti è manifestamente infondato.
A seguito della declaratoria di parziale illegittima dell’art. dell’art. 37, comma
1, c.p.p., nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il
giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia
espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo
stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto (cfr. Corte Costituzionale
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abusivo del credito, anch’essi identici,

sentenza n. 283 del 2000), è stata introdotta nell’ordinamento giuridico una nuova
causa di ricusazione. Nell’ambito della predetta sentenza la Consulta ha
argomentato che è affidato all’elaborazione giurisprudenziale il compito di
definire i vari casi di applicazione della predetta causa di ricusazione, così come è
avvenuto per le altre cause di astensione e ricusazione già previste dal codice. Con
tale affermazione la Corte Costituzionale non ha invitato il giudice ordinario ad

egli deve individuare i casi concreti di ricusazione, nell’ambito del quadro
generale delineato dalla legge.
Sulla base di questa premessa generale è evidente che, affinché sussista
l’ipotesi di ricusazione sopra richiamata. occorre che vi sia stata una precedente
valutazione di merito sullo stesso fatto e nei confronti dello stesso soggetto.
3.11 provvedimento impugnato, con motivazione esauriente, immune da vizi
logici e giuridici, ha messo in luce una serie di elementi obiettivi, idonei a
dimostrare l’insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della richiesta di
ricusazione.
La sentenza pronunziata dal Collegio (composto, tra gli altri, dal dott.
Martino) della Corte d’appello di Milano in data 4 marzo 2008 nell’ambito del
proc. pen. n. 5709/2006 riguarda persone diverse dagli attuali ricorrenti, in quanto
è stata pronunziata nei confronti di Fortunato Valle e Francesco Valle, accusati di
essere i promotori ed organizzatori del delitto di associazione per delinquere (cui,
secondo la contestazione, concorrevano Carmine Valle, Angela Valle, Leonardo
Valle, Bartolomeo Bartolotta), finalizzato alla commissione di plurimi reati di
usura e di abusiva attività finanziaria commessi dall’anno 1998 sino al 2002.
Al contrario, nel distinto processo pendente dinanzi alla quarta sezione penale
della Corte d’appello di Milano Lampada Francesco e Valle Maria sono chiamati
a rispondere, insieme con altri, tra cui Francesco e Fortunato Valle, del delitto di
associazione di stampo mafioso, commesso a partire dal 2008, finalizzato alla
commissione di una pluralità di reati contro il patrimonio, la libertà individuale
estorsioni, usura, abusivo esercizio di attività finanziaria, intestazione fittizia di
beni, frodi attraverso l’esercizio di videogiochi, nonché all’acquisizione e al
controllo di attività economiche, in particolare nel settore edilizio, immobiliare,
della ristorazione, ad acquisire appalti, ad ostacolare il libero esercizio del voto..

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un’interpretazione estensiva dei casi di ricusazione, ma ha soltanto ribadito che

E’ indiscutibile, come evidenziato nel provvedimento impugnato, la totale
diversità delle due contestazioni, contestate a soggetti diversi e riconducibili a
distinte fattispecie incriminatrici, contraddistinte da piena autonomia e differenza
dei rispettivi elementi costitutivi.
In tale contesto è stata, altresì, ritualmente richiamata la diversa epoca di
consumazione degli illeciti.

argomentativi delle sentenze, ha spiegato, con motivazione coerentemente
sviluppata in adesione ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, le
ragioni per le quali i brani estrapolati dalla difesa sulla evoluzione criminale del
gruppo Valle non hanno comportato la conoscenza e la valutazione del medesimo
materiale probatorio nei distinti processi, e ha in proposito correttamente
richiamato la circostanza che le considerazioni sul rapporto tra i delitti ex artt. 416
e 416 bis c.p. rappresentavano la risposta alle difese degli imputati che avevano
posto la questione per dimostrare l’insussistenza degli elementi costitutivi del
delitto di associazione mafiosa e sollecitavano la diversa qualificazione giuridica
del fatto ai sensi dell’art. 416 c.p.
La motivazione è, all’evidenza, esente da censure anche nella parte in cui ha
messo in luce l’ontologica differenza esistente tra il delitto di abusivo esercizio di
attività finanziarie e quello di usura, la diversità dei vari episodi di usura
contestati nei distinti processi a soggetti diversi – episodi tutti tenuti presenti nel
contesto argomentativo – e l’irrilevanza, in tale ottica, della coincidenza della
parte offesa rispetto ad alcuni fatti realizzati in tempi non coincidenti da imputati
differenti. In tale prospettiva è stato giustamente rilevato che nel procedimento
definito in primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, dal gup del Tribunale di
Vigevano e deciso in appello con la sentenza del 4 marzo 2008, Fortunato Valle
era imputato del delitto di usura in danno di Roberto Pecoraro, commesso in S.
Pietro all’Olmo tra marzo e aprile del 1999, mentre nel processo in corso
Francesco Valle e Antonio Spagnuolo sono chiamati a rispondere, in concorso fra
loro, del delitto di usura, aggravato ai sensi dell’art. 7 I. n. 203 del 1991,
commesso in danno di Roberto Pecoraro in Milano dal 1999 al 2001 (capo 10),
L’ordinanza della Corte d’appello di Milano è immune da vizi logici e
giuridici anche nella parte in cui ha argomentato che la sentenza pronunziata il 4
marzo 2008 è stata emessa ai sensi dell’art. 599 c.p.p. e, quindi, non ha
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La Corte d’appello, con puntuale richiamo dei principali passaggi

comportato alcun esame del merito del thema probandum a seguito della rinuncia
a tutti i motivi d’appello, salvo quelli inerenti il trattamento sanzionatorio e che
l’ambito della valutazione ex art. 129 c.p.p. ha come esclusivo parametro di
valutazione l’insussistenza, sulla base degli atti, delle condizioni legittimanti il
proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p., non essendo il giudice tenuto ad
affrontare il pieno merito della responsabilità penale secondo i canoni di

giugno 2014; Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995; Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992).
L’ordinanza ha correttamente argomentato l’irrilevanza, nella prospettiva di
cui all’art. 37 c.p.p., della identità della persona fisica che è parte lesa del delitto
di usura – contestato al capo 10 del processo in corso nei confronti di persone
diverse (Francesco Valle e Antonio Spagnuolo ) dagli odierni ricorrenti – e altresì
del delitto del processo in corso, sottolineando la diversità dei fatti e la loro
ascrivibilità soggettiva a imputati diversi
Il provvedimento impugnato è pure, all’evidenza, esente da censure nella parte
in cui ha messo in luce l’irrilevanza, rispetto al giudicato formatosi in ordine al
delitto di associazione mafiosa, dell’epoca di commissione del reato di cui al capo
10 (dal 1999 al 2001), di per sé inidoneo a incidere, modificandola, sull’epoca di
realizzazione del reato ex art. 416-bis c.p.
Sulla base di quanto sin qui esposto è possibile affermare che, oltre alla non
identità dei soggetti imputati nei distinti processi, non sussiste neppure l’identità
del “fatto”, inteso, ai fini dell’applicazione dell’art. 37 c.p.p., come
corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in
tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso casuale) e con riguardo
alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. Un., 28 giugno 2005, n.
34655; Sez. I, 21 aprile 2006, n. 19787; Sez. II, 18 aprile 2008, n. 21035).
4.Le norme sulla ricusazione, derogando in nome dell’imparzialità al principio
del giudice naturale, non ammettono interpretazione estensiva o analogica, e,
quindi, non autorizzano una lettura degli artt. 36 e 37 c.p.p., che pretenda di
assimilare interessi emergenti dal caso concreto – non espressamente considerati
dall’ordinamento – a quelli oggetto di specifica regolamentazione.
In conformità con i principi espressi dalla Corte Costituzionale (cfr. in
particolare, ordinanza n. 368 del 2000 e sentenza n. 283 del 2000), correttamente
richiamati nel provvedimento impugnato, è, quindi, possibile affermare che la
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valutazione imposti dall’art. 530 c.p.p. (v. tra le altre Sez. U., n. 36847 del 26

funzione pregiudicante può essere ravvisata non già in qualsiasi attività
processuale precedentemente svolta dallo stesso giudice nel medesimo o in altro
procedimento penale, a carico dello stesso imputato, bensì soltanto in una
valutazione di merito espressa dal giudice, sia sulla sussistenza del medesimo
fatto-reato, sia sulla colpevolezza dello stesso imputato. E’, pertanto evidente che,
i prospettati presupposti di ricusazione evocati dalla difesa esulano, nel caso in

ricusato espresso il proprio giudizio contenutistico di merito in una precedente
decisione sugli stessi fatti-reato, relativamente ai medesimi imputati.
5.Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di
prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost.
sent. n. 186 del 2000), al versamento ciascuno della somma di mille euro alla cassa
delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e, ciascuno, al versamento della somma di mille euro alla cassa
delle ammende.
Così deciso, in Roma, il 7 aprile 2015.

esame, da quelli tassativamente previsti dall’ordinamento, non avendo il giudice

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