Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19744 del 19/04/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19744 Anno 2018
Presidente: DE CRESCIENZO UGO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
BERTERA MARCO, nato il 17/06/1969, contro la sentenza del 04/11/2016 della
Corte di Appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mario
Maria Stefano Pinelli, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
uditi i difensori, avv.to Alfredo De Francesco (per le parti civili: Lanucara
Leonardo; Silano Lorella; Bazzi Romano; Rasero Alessandra; Vago Gabriella;
Carozzi Adriana; Maffia Roberto; Barbieri Lorenza; Maffia Cristina; Morelli
Renata; Pizzagalli Mauro), che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso
e avv.to Claudio Rea che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Bertera Marco – condannato per una serie di truffe aggravate – ha
proposto ricorso per cassazione contro la sentenza in epigrafe deducendo:
1.1.

L’ERRATA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL FATTO:

la difesa, in punto di fatto,

ha premesso che il ricorrente era stato rinviato a giudizio per il reato di truffa
aggravata, ma condannato, a seguito di giudizio abbreviato, per il reato di

Data Udienza: 19/04/2018

appropriazione indebita, così riqualificato il fatto da parte del giudice dell’udienza
preliminare. A seguito dell’appello, la Corte aveva ritenuto, però, di riqualificare
nuovamente il fatto come truffa, pur mantenendo la pena nei limiti di quelli
stabiliti dal primo giudice. Ad avviso della difesa, era invece, corretta la
qualificazione giuridica ritenuta dal giudice dell’udienza preliminare perché
l’imputato non aveva mai posto in essere artifizi e raggiri nel momento iniziale
del contratto, ma solo in un momento successivo e cioè per celare le perdite e
ritardare la scoperta degli ammanchi. Sul punto, in particolare, la Corte aveva

dell’imputato che aveva riferito che il Bertera aveva utilizzato tutto il suo
patrimonio personale e poi quello dei genitori per cercare di pagare i creditori
(motivo sub 2, pag. 7 ss del ricorso);
1.2.

L’INSUSSISTENZA DEI REATI DI FALSO:

il ricorrente fu rinviato a giudizio e

condannato per un serie di falsi ex art. 485 cod. pen. A seguito della
depenalizzazione, la Corte di Appello ha assolto l’imputato da tutte le suddette
imputazioni perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, eliminando
la pena (in continuazione) che gli era stata inflitta dal primo giudice.
Sul punto, la difesa sostiene che, in realtà, quei falsi non erano sussistenti
trattandosi di scritture private ideologicamente false e, quindi, non punibili.
L’interesse a proporre la suddetta censura, consisterebbe, secondo la difesa,
nella circostanza che, essendo l’intera ridefinizione del fatto scevra da dieci capi
d’imputazione inerenti a reati non commessi, la Corte di Appello avrebbe potuto
rideterminare la pena in misura più equa e cioè entro i limiti della sospensione
condizionale.
1.3.

OMESSA MOTIVAZIONE:

la difesa, infine, ha censurato la sentenza

impugnata nella parte in cui la Corte Territoriale aveva, da una parte, omesso di
pronunciarsi sul secondo motivo di appello (con il quale era stato dedotto che il
ricorrente non aveva commesso il falso di cui al capo sub H) e sulla revoca delle
statuizioni civili in ordine ai reati dichiarati depenalizzati.
1.4. Con memoria depositata il 05/04/2018, la difesa, oltre che ribadire ed
ulteriormente illustrare i suddetti motivi, ha sostenuto che la pena, così come
rideterminata dalla Corte di Appello, sarebbe errata perché, a titolo di
continuazione erano stati considerati anche i reati di falso depenalizzati: pag. 9
ss della memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. L’ERRATA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL FATTO

La censura è manifestamente infondata.

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del tutto omesso di prendere in considerazione la testimonianza della sorella

La Corte Territoriale ha preso in esame la suddetta questione (pag. 5) e,
sulla base anche dei principi di diritto enunciati da questa Corte di legittimità, ha
puntualmente motivato, in punto di fatto, sulle ragioni per cui i fatti commessi
dall’imputato andavano qualificati come truffe e non come appropriazioni
indebite.
Sul punto, la stessa difesa propone un motivo del tutto generico, nulla
avendo obiettato sul punto dirimente dell’intera vicenda contrattuale focalizzato
dalla Corte Territoriale nella «[…] prospettazione di investimenti, a condizioni

altri scopi [….]».
Quanto alla circostanza secondo la quale la Corte non aveva preso in esame
la testimonianza della sorella dell’imputato, la stessa difesa non chiarisce quale
rilevanza avrebbe potuto avere ai fini della qualificazione giuridica del fatto:
invero, il fatto che l’imputato, dopo avere commesso i fatti addebitatigli, cercò di
porvi rimedio, è un semplice post factum che indica la volontà di risarcire il
danno, e cioè una circostanza che può influire ai fini della determinazione della
pena e del riconoscimento delle attenuanti generiche che, infatti, gli furono
concesse (cfr pag. 30 sentenza di primo grado).

2. INSUSSISTENZA DEI REATI DI FALSO

Al di là di ogni disquisizione giuridica sul punto, resta il fatto che l’imputato,
stante l’intervenuta depenalizzazione (che non lo pregiudica sotto alcun profilo)
dei falsi di cui all’art. 485 cod. pen., non ha alcun interesse a riproporre, in
questa sede, la suddetta questione.
Infatti, l’interesse ipotizzato (pena più mite) è insussistente perché è la
stessa difesa che si limita a prospettare una mera eventualità priva di ogni
concreto ed oggettivo riscontro non solo giuridico ma anche fattuale laddove si
tenga presente che l’imputato, alla fin fine, per quattordici reati, è stato
condannato alla pena di anni due, mesi cinque e giorni 10 di reclusione ed C
1.466,00 di multa.

3. OMESSA MOTIVAZIONE

Quanto all’omessa motivazione in ordine al reato sub H), vale quanto si
appena detto sulla carenza di interesse.
Quanto all’omessa revoca delle statuizioni civili va osservato quanto segue.
Dalla lettura della sentenza di primo grado (pag. 30) si evince agevolmente
che il primo giudice limitò il risarcimento ai soli reati patrimoniali e non anche ai
reati di falso tant’è che, da una parte, respinse la domanda di risarcimento del
danno di una delle parti civili (Lanucara Viviana) «in relazione al capo sub L)
(ndr: art. 485 cod. pen.) poiché la condotta contestata ha per oggetto un falso

3

molto favorevoli, di fatto inesistenti al solo fine di acquisire denaro destinato ad

E….]» e, dall’altra, rinviò al giudice civile per l’esatto conteggio dei «rapporti di
debito-credito relativi a capitale e interessi, e la corretta ripartizione degli
interessi corrispettivi e di mora», ad eccezione delle somme che lo stesso
imputato aveva riconosciuto come dovute e che, perciò, vennero liquidati
direttamente in dispositivo.
E’ vero che, a seguito della depenalizzazione del reato di cui all’art. 485 cod.
pen., l’eventuale risarcimento del danno dovuto alle parti civili costituite, va
revocato (SSUU 46688/2016), ma, nel caso di specie, la revoca sarebbe disposta

stato concesso alcun risarcimento del danno avente come titolo il reato di falso.
Correttamente, quindi, la Corte, si è limitata a rideterminare la pena,
confermando nel resto la sentenza impugnata.

4. CALCOLO DELLA PENA

La censura dedotta con la memoria difensiva è manifestamente infondata in
quanto non è affatto vero che la Corte Territoriale conteggiò, nella pena inflitta a
titolo di continuazione, anche i reati di falso depenalizzati. Infatti, nella nota 3 a
pag. 8 della motivazione della sentenza impugnata, la Corte scrive: «le singole
condotte truffaldine contestate al capo DD) sono temporalmente scandite dai
falsi indicati sub capo EE) sicchè il calcolo della pena interna può essere così
esplicato: [….]»: ma, è chiaro che il rinvio ai falsi di cui al capo EE) fu effettuato
solo ed esclusivamente per l’individuazione delle date di consumazione delle
singole truffe; la pena, infatti, si riferisce al capo sub DD) (sia come pena base
che per la continuazione interna) con il quale erano state contestate, ex art. 81
cod. pen., al ricorrente una serie di truffe.

5. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma
dell’art. 606/3 c.p.p, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria
consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa
delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti
dal ricorso, si determina equitativamente in C 2.000,00.
La declaratoria di inammissibilità preclude la rilevabilità delle eventuali
prescrizioni maturate successivamente al giudizio di appello, in applicazione del
principio di diritto secondo il quale «l’inammissibilità del ricorso per cassazione
dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un
valido rapporto d’impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e
dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.»: ex
plurimis SSUU 22/11/2000, De Luca, Riv 217266 – Cass. 4/10/2007, Impero;

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inutilmente, perché, per quanto si è detto, non risulta che, alle parti civili sia

Sez. un., 2 marzo 2005, n. 23428, Bracale, rv. 231164; Sez. un., 28 febbraio
2008, n. 19601, Niccoli, rv. 239400; SSUU, 12602/2016, Ricci.

P.Q.M.
DICHIARA
inammissibile il ricorso e
CONDANNA
il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila

nel grado dalla_costituitaQparte civile che liquida nella complessiva somma di C
3.000,00 oltre rimborso spese generali al 15%, Cpa ed Iva
Così deciso il 19/04/2018
Il Consigliere este sore
Geppino Rago

in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute

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