Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19743 del 21/03/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19743 Anno 2018
Presidente: DAVIGO PIERCAMILLO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 21/03/2018

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di Madonia Pietro, n. a Palermo il
06/04/1971, rappresentato e assistito dall’avv. Domenico Trinceri, di
fiducia, avverso la sentenza della Corte di appello di Trieste, prima
sezione penale, n. 740/2016, in data 02/10/2016;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Luca
Tampieri che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 02/10/2016, la Corte d’appello di
Trieste, confermava nei confronti di Pietro Madonia la pronuncia resa,
all’esito di giudizio abbreviato, dal giudice per le indagini preliminari
presso il Tribunale di Udine in data 28/10/2015 con la quale lo stesso
era stato condannato alla pena di anni sei, mesi sei di reclusione ed

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euro 2.000,00 di multa per i reati, unificati dal vincolo della
continuazione, di rapina aggravata in concorso (capo A) e di tentata
rapina aggravata in concorso (capo D), con condanna al risarcimento
danni a favore della parte civile costituita assegnataria di
provvisionale, con le pene accessorie e le misure di sicurezza come
per legge. Pena così calcolata: ritenuto come più grave il capo A),
pena base anni sei, mesi sei di reclusione ed euro 1.800,00 di multa,

aumentata per la recidiva qualificata a norma dell’art. 63, comma 4
cod. pen. ad anni sette, mesi sette di reclusione ed euro 2.400,00 di
multa, ulteriormente aumentata ex art. 81 cod. pen. per il capo D) ad
anni nove, mesi nove di reclusione ed euro 3.000,00 di multa,
diminuita per il rito ad ad anni sei, mesi sei di reclusione ed euro
2.000,00 di multa.
2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di Pietro Madonia,
viene proposto ricorso per cassazione, lamentando:
-violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 192
cod. proc. pen. e 628 cod. pen. con riferimento al capo A (primo
motivo);
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 56,
comma 3, 628 cod. pen., 192 cod. proc. pen. con riferimento al capo
D (secondo motivo);
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 99 cod.
pen. (terzo motivo);
-violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 63,
comma 4, 69, 99, 628, comma 3 cod. pen. (quarto motivo).
2.1. In relazione al primo motivo, si censura l’omessa risposta
alle doglianze difensive in punto riferibilità del fatto del reato di cui al
capo A al ricorrente, avendo la Corte territoriale usato rituali formule
di stile e generiche argomentazioni di mera condivisione dell’operato
del primo giudice. In particolare, il giudice di secondo grado ha
omesso di rilevare che, pur essendo stato il ricorrente attenzionato
con intercettazioni telefoniche ed ambientali, non era emerso
alcunchè in merito al suo coinvolgimento nella rapina in questione;
inoltre, nessun elemento indiziante risultava dagli altri esiti d’indagine
e segnatamente nessuna presenza del Madonia nel territorio friulano
nei giorni di perpetrazione della rapina.
2.2. In relazione al secondo motivo, si censura la sentenza

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impugnata che in relazione al capo D non ha riconosciuto un’ipotesi di
desistenza volontaria, come comprovato dalle intercettazioni in atti
(da cui risulta che l’interruzione dell’azione è dipesa da una
banalissima scusa/espediente di una fantomatica telefonata
millantata dal Madonia per convincere i complici dal desistere
dall’azione) e dalle investigazioni compiute (comprovanti l’inesistenza
di contatti tra il Madonia e personale della Squadra Mobile di

2.3. In relazione al terzo motivo, si censura l’applicato aumento
a titolo di recidiva, effettuato sulla base della sola risultanza
documentale dei precedenti penali dell’imputato senza alcuna
concreta verifica della posizione e della personalità dell’imputato al
fine di accertare se le condotte siano state o meno espressione di
maggiore pericolosità e colpevolezza.
2.4. In relazione al quarto motivo, si censurano i calcoli e gli
aumenti di pena operati dal giudicante in relazione alle ritenute
aggravanti ad effetto speciale effettuati in violazione del limite
previsto dall’art. 63, comma 4 cod. pen. ed in mancanza di
qualsivoglia motivazione in ordine all’aumento di pena apportato nella
misura di anni due e mesi uno di reclusione per la ritenuta recidiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, da

ritenersi inammissibile.
2.

Va preliminarmente evidenziato come, secondo la

giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., Sez. 6, n. 10951 del
15/03/2006, Casula, Rv. 233708), anche alla luce della nuova
formulazione dell’art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen.,
dettata dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di
legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato
deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”,
ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante
ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente
illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni
non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della

Palermo).

logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da
insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da
inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non
logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una
autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro
rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal
giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da

vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione
(nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente,
che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può
limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti del processo” non
esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non
correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare,
con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale
o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta
incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento
impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati,
nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione,
indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo
decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).
2.1. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati
dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari
accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione
complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano
astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di
quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di
elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di
quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra
loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di
superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il
convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in
termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori
razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del
processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio
della motivazione siano autonomamente dotati di una forza
esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in

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grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e
determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o
da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la
motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere
un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva,
non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle
deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”.

2.2. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una
valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla
reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della
“resistenza” logica del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di
controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi
di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti,
preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti
maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa.
Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione
assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la
motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le
parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre
uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art.
606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della

L. n. 46 del

2006, art. 8, “mentre non è consentito dedurre il travisamento del
fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre
la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta
nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di
travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di
merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non
esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello
reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli
elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione,
ma di verificare se detti elementi sussistano” (Sez. 5, n. 39048 del
25/09/2007, Casavola e altri, Rv. 238215).

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2.3. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la
revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica
del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla
valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla
competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema
Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una
diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa.

Nè la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle
prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento
impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli
elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento
impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di
legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole
della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza
espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, Ciavarella, Rv. 241214).
2.4. La medesima giurisprudenza di legittimità considera,
inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che
si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in
appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli
stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non
assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza
oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, n. 25559 del 15/06/2012,
Pierantoni; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, p.m. in proc. Candita,
Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, Giagnorio, Rv.
231708). In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una
sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame,
la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per
cassazione non può essere considerata come critica argomentata
rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi,
pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui
all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni
richiesta (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838).
Sulla base di questi principi va esaminato l’odierno ricorso.
3. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.
Si è all’evidenza in presenza di mere censure in fatto come tali
inammissibili nel giudizio di legittimità, attenendo a “vizi” diversi dalla

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mancanza di motivazione, dalla sua “manifesta illogicità”, dalla sua
contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando
esistente, o affermato quando mancante) su aspetti essenziali
astrattamente idonei ad imporre diversa conclusione del processo.
Inammissibili sono, pertanto, tutte le doglianze che “attaccano” la
“persuasività”, l’inadeguatezza, la mancanza di “rigore” o di
“puntualità”, la stessa “illogicità” quando non “manifesta”, così come

quelle che – come nella fattispecie – sollecitano una differente
comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove
(valutate con i medesimi esiti colpevolisti in entrambi i gradi del
giudizio di merito) ovvero che evidenziano ragioni in fatto per
giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della
credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo
elemento. Tutto ciò è “fatto”, riservato al giudice del merito. Invero,
quando il giudice del merito ha espresso il proprio apprezzamento, la
ricostruzione del fatto è definita, e le sole censure possibili nel
giudizio di legittimità sono quelle dei soli tre tassativi vizi indicati
dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., ciascuno dotato di
peculiare oggetto e struttura: sicchè è altro costante insegnamento di
questa Suprema Corte che la deduzione alternativa di vizi, invece
assolutamente differenti, è per sè indice di genericità del motivo di
ricorso e, in definitiva, “segno” della natura di merito della doglianza
che ad essi solo strumentalmente tenta di agganciarsi (cfr., Sez. 6, n.
13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).
4. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso.
Questa Corte Suprema, al riguardo, ha già avuto modo
reiteratamente di chiarire che “ai fini della punibilità del tentativo,
rileva l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento
dell’obiettivo delittuoso nonché la univocità della loro destinazione, da
apprezzarsi con valutazione “ex ante” in rapporto alle circostanze di
fatto ed alle modalità della condotta, al di là del tradizionale e
generico “discrimen” tra atti preparatori e atti esecutivi” (Sez. 5, n.
7341 del 21/01/2015, Sciuto, Rv. 262768) e, ancora, che “per la
configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e
propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori,
facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente

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approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad
attuarlo, che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire
l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il
verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo”
(Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012, D’Angelo e altri, Rv. 254106; v.
anche, Sez. 2, n. 40912 del 24/09/2015, Amatista, Rv. 264589).
Infatti, anche un cd. “atto preparatorio” può integrare gli estremi del

tentativo punibile, purché sia idoneo e diretto in modo non equivoco
alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla
base di una valutazione – per l’appunto ex ante – e in relazione alle
circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale
risultato sia univocamente diretto. In realtà, la “disputa” sulla
rilevanza dei soli atti cd. esecutivi ovvero anche di quelli cd.
preparatori perde di significato una volta correttamente inteso il
requisito della idoneità degli atti, il quale deve essere valutato in
termini oggettivi, nel senso che gli atti considerati, esaminati nella
loro oggettività e nel contesto in cui si inseriscono, devono possedere
– come nella fattispecie – l’intrinseca attitudine a denotare il
proposito criminoso perseguito rivelando la sua attuazione (Sez. 6, n.
25065 del 17/02/2011, Alfano e altri, Rv. 250421).
La sentenza impugnata dimostra di aver fatto buon governo di
questi principi in presenza di una qualificazione giuridica attribuita al
reato di cui al capo D) del tutto corretta.
Infatti, proprio la situazione adeguatamente descritta nella
sentenza impugnata porta ragionevolmente a credere che

l’iter

dell’azione criminosa era già ampiamente in corso, avendo le azioni in
corso – in ragione della misura della loro esplicitazione e della loro
idoneità alla realizzazione dello scopo criminoso – già raggiunto la
soglia del tentativo punibile. Scrivono i giudici di secondo grado: “gli
imputati non solo avevano già pianificato in maniera puntuale e
dettagliata la rapina al Monte dei Paschi di Siena, stabilito anche il
sequestro delle dipendenti di un’agenzia che lavoravano in un ufficio
vicino alla porta posteriore della banca, compiuto un gran numero di
perlustrazioni e sopralluoghi presso l’istituto al fine di controllare gli
addetti, le vie di fuga, predisposto le tute, le maschera da carnevale, i
passamontagna per il travisamento … preparato gli strumenti da

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scasso e … avevano già iniziato ad attuare il piano delittuoso …
(essendo) … stati osservati e filmati mentre manomettevano la porta
posteriore della banca al fine di poter penetrare indisturbati nella
stessa …”.
Inoltre, da escludersi nella fattispecie è la dedotta desistenza
volontaria – che, come è noto, presuppone la volontarietà (qui
inesistente) dell’atteggiamento del soggetto che scelga di

interrompere l’azione criminosa spontaneamente, non già per il
sopravvenire di elementi esterni o perché la continuazione
dell’impresa possa comportare svantaggi o rischi – atteso che, come
riconosciuto dai giudici di secondo grado, risulta invece dimostrato
che “…

gli imputati non portarono a termine l’azione criminosa

(perché) erano stati effettivamente avvisati telefonicamente da una
talpa presente nella Questura di Palermo che le forze dell’ordine
erano sulle loro tracce …”.
Avverso queste conclusioni il ricorso evita di “misurarsi”
limitandosi ad offrire una lettura alternativa dei fatti, come detto del
tutto impedita nella presente sede di legittimità.

5. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso.
Nella fattispecie, la Corte territoriale riconosce nel significativo
curriculum

criminale del Madonia

un’escalation

a comprova di

un’accresciuta pericolosità testimoniata dal progressivo affinamento
nel tempo della professionalità delinquenziale: trattasi di valutazione
di merito, assistita da congruità logica-giuridica, insindacabile nella
presente sede di legittimità.

6. Manifestamente infondato è il quarto motivo di ricorso.
Il trattamento sanzionatorio operato dal primo giudice non viene
rivisto dal giudice di secondo grado.
Il calcolo di pena effettuato dal giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Udine appare del tutto conforme a
legge. Lo stesso è partito dal considerare come violazione più grave
quella di cui al capo A) ed ha individuato come pena base quella di
anni sei, mesi sei di reclusione ed euro 1.800,00 di multa; ha poi
operato l’aumento per la recidiva qualificata ex art. 63, comma 4 cod.

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pen., ad anni sette, mesi sette ed euro 2.400,00 di multa; ha quindi
ulteriormente aumentato la pena ex art. 81 cod. pen. in relazione al
capo D) ad anni nove, mesi nove di reclusione ed euro 3.000,00; ha
infine diminuito la pena di un terzo per la scelta del rito abbreviato,
determinandola in anni sei, mesi sei di reclusione ed euro 2.000,00 di
multa.

proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle
ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti
dal ricorso, si determina equitativamente in euro duemila

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila a
favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 21/03/2018

Il Consigliere estensore
Andrea Pellegrino

Il Presidente
Pierc millo Davigo

7. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod.

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