Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19683 del 16/03/2018


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 19683 Anno 2018
Presidente: RAMACCI LUCA
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RANIOLO MARIA nato il 27/03/1968 a GELA

avverso la sentenza del 01/06/2017 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSIO SCARCELLA
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore dott. SANTE
SPINACI, che ha concluso per l’inannmissibilita’ del ricorso;

Data Udienza: 16/03/2018

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 1.06.2017, la Corte d’appello di Caltanissetta confermava la sentenza tribunale di Gela 10.03.2016, appellata dall’imputata, che era stata condannata alla pena di 7 mesi di reclusione ed C 400 di multa, pena condizionalmente
sospesa per entrambi e subordinata al versamento di C 300,00 in favore del Co-

contestate, per il reato edilizio contestato al capo 1) nonché per il reato di violazione di sigilli aggravata dalla qualità di custode contestato al capo 2), unificati gli
stessi sotto il vincolo della continuazione, in relazione a fatti del 21.08.2012, contestati come commessi secondo le modalità esecutive e spazio-temporali meglio
descritte nei due capi di imputazione.

2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputata Raniolo, a
mezzo del difensore di fiducia iscritto all’Albo speciale ex art. 613, cod. proc. pen.,
deducendo tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la
motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, in relazione al capo 1) della rubrica, violazione
di legge e vizio di motivazione.
Anzitutto, contesta la ricorrente la natura di reato permanente del reato edilizio,
sostenendo trattarsi di reato istantaneo con effetti permanenti, ciò che inciderebbe
anche sulla prescrizione; quanto, poi, ai lavori contestati, si sostiene che non necessiterebbero di rilascio preventivo del titolo abilitativo; si contesta, poi, l’affermazione della Corte d’appello circa l’ultimazione dei lavori che, per i giudici di
appello, ricorre solo quando si è in presenza di un edifico concretamente funzionale, che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità. Ne consegue che il reato
è estinto per prescrizione, il cui onere probatorio non deve gravare sull’imputato,
come invece sosterrebbe erroneamente la sentenza impugnata. Nel caso di specie,
mancando la prova del momento di consumazione del reato, non poteva non essere applicato il principio del favor rei, in considerazione del diverso stato dell’immobile rispetto agli accertamenti effettuati in precedenza, donde era necessaria
l’esatta indicazione del momento consumativo, ciò per consentire all’imputata di
potersi difendere confutando un termine diverso da quello risultante dagli atti,
nella specie mancante. In difetto di tale dato, il termine di prescrizione decorrerebbe dal 29.09.2010, data dell’ultimo accertamento effettuato prima di quello del
21.08.2012. Sul punto, pertanto, la sentenza sarebbe anche affetta dal vizio di

mune di Gela, con il concorso di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti

insufficienza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione quanto all’individuazione del momento consunnativo del reato, ciò che avrebbe dovuto indurre la
Corte, in base al principio del favor rei, a prosciogliere l’imputata per intervenuta
estinzione del reato per prescrizione.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, in relazione poi al capo 2) della rubrica, vio-

Si sostiene che i giudici avrebbero ancorato il giudizio di condanna valorizzando la
funzione dei sigilli apposti in sede di sequestro penale, sub specie di immodificabilità della situazione dell’immobile in relazione alle esigenze cautelari sottese al
provvedimento, donde qualsiasi condotta volta ad alterare tale condizione ben potrebbe essere ritenuta idonea a realizzare la violazione dei sigilli. Diversamente,
sostiene la ricorrente, sarebbero da ritenere poste in violazione dei sigilli solo
quelle condotte tali da comportare una sostanziale immutazione della consistenza
del bene, non anche semplici lavori di completamento insuscettibili di incidere
sull’effettiva identità del bene stesso. Inoltre, si afferma che vi sarebbe mancanza
della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato,
avendo richiamato la Corte territoriale solo una pronuncia di questa Corte, senza
ancorarla alla situazione concreta. Infine, si insiste per l’intervenuta estinzione
anche di tale reato per prescrizione, trattandosi peraltro di reato di natura istantanea.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’art. 133, c.p., all’art. 131 bis, c.p. ed all’intervenuta subordinazione del
beneficio di cui all’art. 163, c.p. al pagamento della somma di 300 € in favore del
Comune di Gela.
In particolare, le censure attingono la sentenza con riferimento alla affermazione
secondo cui la pena sarebbe proporzionata e correttamente determinata, tenuto
conto del reato, dei limiti della pena e della non incensuratezza, segnatamente
dell’imputata, ma, secondo’ la difesa, si tratterebbe di affermazione di mero stile.
Analogamente le censure attingono la sentenza laddove ha rigettato la richiesta di
riconoscimento della speciale causa di non punibilità dell’art. 131 bis, c.p., che
sarebbe del tutto immotivata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

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lazione di legge e vizio motivazionale.

3. Seguendo l’ordine suggerito dalla struttura dell’impugnazione proposta in sede
di legittimità, si procederà all’esame dei singoli motivi, secondo l’ordine di illustrazione supra svolto, dovendosi premettere all’esame che gli stessi, complessivamente, hanno in comune un vizio di fondo, prestando il fianco al giudizio di genericità per aspecificità, non tenendo conto delle ragioni esposte dai giudici di primo
grado e di appello a confutazione delle identiche doglianze esposte nei motivi di

sta Corte, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi
non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni
già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti
della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del
09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).

4. I motivi si appalesano, peraltro, manifestamente infondati.

5. Ed invero, quanto al primo motivo, con cui si deduce violazione di legge e vizio
di motivazione, si osserva: a) quanto alla natura permanente del reato edilizio,
che sarebbe da ritenere reato istantaneo con effetti permanenti, trattasi di affermazione errata in diritto perché è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che
il reato di costruzione in assenza di concessione edilizia, previsto dall’art. 44, lett.
b), d.p.r. n. 380 del 2001 (come già il previgente art. 20, lett. b), legge 28 febbraio
1985 n. 47), ha natura permanente e la relativa consumazione perdura fino alla
cessazione dell’attività abusiva (Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002 – dep.
08/05/2002, Cavallaro, Rv. 221399; b) quanto, poi, all’obiezione secondo cui i
lavori contestati non necessiterebbero di rilascio preventivo del titolo abilitativo è
del tutto priva di pregio; ed infatti, come risulta dalla stessa imputazione, si trattava del completamento degli impianti tecnologici, nella posa della pavimentazione, nell’installazione degli infissi esterni e delle porte interne e nella posa delle
ringhiere dei balconi, il tutto relativamente ad un immobile abusivo oggetto di
precedente sequestro e procedimenti penale; è indubbio che si tratta quindi di una
fase ulteriore di prosecuzione die lavori del fabbricato in questione, risultando in
particolare la collocazione degli infissi esterni e l’ultimazione degli impianti realizzata in epoca successiva al 24.09.2010 data del sequestro e dell’apposizione dei
sigilli. Come ben evidenzia la Corte territoriale, nel caso in esame risulta contestato uno stato di definizioni dell’immobile diverso e successivo rispetto a quello
contestato nell’ambito dei precedenti procedimenti.

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appello. Deve quindi essere fatta applicazione del principio, già affermato da que-

Correttamente, pertanto, richiama la Corte d’appello la giurisprudenza di questa
Corte secondo cui II divieto di un secondo giudizio per il reato di abuso edilizio di
cui all’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, riguarda soltanto la condotta posta
in essere nel periodo indicato nell’imputazione ed accertata con la sentenza irrevocabile, ma non anche l’eventuale prosecuzione o la ripresa degli interventi edificatori in un periodo successivo, attesa la natura permanente della fattispecie e

putato (Sez. 3, n. 19354 del 21/04/2015 – dep. 11/05/2015, Alfiero, Rv. 263514).
A ciò va aggiunto, inoltre, come, al fine di destituire di fondamento la tesi difensiva
secondo cui si sarebbe trattato di interventi di minima entità non necessitanti di
alcun titolo abilitativo, che trattandosi comunque di intervenni eseguiti su immobile già abusivo, era del tutto irrilevante la circostanza che si trattasse o meno di
interventi soggetti a permesso di costruire, atteso che in tema di costruzioni edilizie, il regime di favore previsto per gli interventi edilizi non è applicabile all’intervento edilizio che acceda ad un manufatto principale abusivo, atteso che il bene
accessorio ripete le proprie caratteristiche dall’opera principale a cui è intimamente
connesso, risultando così anch’esso in contrasto con l’assetto urbanistico del territorio (v., ad esempio, in materia di pertinenze: Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006
– dep. 06/10/2006, Rossi, Rv. 235383).

6. Con riferimento, ancora alla censura rivolta all’affermazione della Corte d’appello circa l’ultimazione dei lavori (che, per i giudici di appello, ricorre solo quando
si è in presenza di un edifico concretamente funzionale, che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità), si tratta di censura del tutto sfornita di pregio,
essendo pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che deve ritenersi “ultimato”
solo l’edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o
abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorchè accompagnato
dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l’ultimazione dell’immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed
esterni (Fattispecie relativa ad immobile privo di infissi, impianti elettrici e imbiancatura, nella quale la Corte ha specificato che spetta al ricorrente l’onere di dimostrare di avere non solo sospeso l’attività edilizia, ma anche di aver voluto lasciare
volutamente l’opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta; Sez. 3, n. 48002
del 17/09/2014 – dep. 20/11/2014, Surano, Rv. 261153).

7. Con riferimento, poi, alla questione relativa alla prescrizione del reato edilizio,
non v’è dubbio che nel caso in esame non possa essere applicato il principio del
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la conseguente scomponibilità giuridica dei comportamenti posti in essere dall’im-

favor rei invocato dalla difesa. Ed invero, come ben ricorda la Corte territoriale, in
tema di prescrizione, grava sull’imputato, che voglia giovarsi di tale causa estintiva
del reato, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso dai quali poter desumere
la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti (tra
le tante: Sez. 3, n. 27061 del 05/03/2014 – dep. 23/06/2014, Laiso, Rv. 259181);
onere di allegazione, nella specie, non assolto dall’imputato, con conseguente cor-

mazione del reato in quella dell’accertamento del 21.08.2012, senza che sia ravvisabile alcuno dei vizi, anche di motivazione, denunciati.

8. Manifestamente infondata è la doglianza che attinge il capo 2) della rubrica; ed
invero, non può dolersi la difesa del fatto che i giudici abbiano ancorato il giudizio
di condanna valorizzando la funzione dei sigilli apposti in sede di sequestro penale,

sub specie di immodificabilità della situazione dell’immobile in relazione alle esigenze cautelari sottese al provvedimento. Sul punto i giudici di appello correttamente replicano alla censura difensiva osservando come la funzione dei sigilli, apposti in sede di sequestro penale, avrebbe dovuto essere quella di cristallizzare la
situazione dell’immobile posto sotto sequestro, ovvero di garantire l’immodificabilità in relazione alle esigenze cautelari sottese al provvedimento, di natura meramente processuale e probatoria/preventiva, a seconda della natura dello stesso.
Va richiamata a tal proposito la giurisprudenza di questa Corte secondo cui con
l’apposizione dei sigilli si attua una custodia meramente simbolica mediante la
quale si manifesta la volontà dello stato di assicurare cose, mobili o immobili,
contro ogni atto di disposizione di persone non autorizzate. Pertanto, il fatto costitutivo del reato di cui all’art. 349 cod. pen. consiste in qualsiasi atto che renda
vana la predetta volontà manifestata dall’ufficio che ne aveva il potere (nella specie è stato ritenuto configurabile il reato nella attività di completamento di un
villino, con intonaci e pavimentazione di una veranda esterna, dopo che era stata
ordinata la sospensione dei lavori ed erano stati apposti i sigilli: Sez. 6, n. 8293
del 19/06/1984 – dep. 06/10/1984, Palmeri, Rv. 166001).
Dunque sono da considerare come poste in violazione dei sigilli non solo quelle
condotte tali da comportare una sostanziale immutazione della consistenza del
bene, ma anche semplici lavori di completamento apparentemente insuscettibili di
incidere materialmente sull’effettiva identità del bene stesso.

9. Infine, quanto alla asserita mancanza della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, del tutto correttamente la Corte territoriale richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di violazione
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retta determinazione, in assenza di elementi a favore del reo, della data di consu-

dei sigilli, l’elemento soggettivo del reato è integrato dal dolo generico, per la cui
sussistenza è sufficiente che il soggetto attivo si rappresenti e voglia realizzare la
violazione dei sigilli apposti per legge o sulla base di un provvedimento dell’autorità competente per garantire la conservazione o l’identità di un bene, senza che
sia necessario il fine specifico di recare un “vulnus” alla conservazione o all’identità
della cosa sequestrata (Sez. 3, n. 1743 del 20/09/2016 – dep. 16/01/2017, Milani,

E, nel caso di specie, il dolo generico era agevolmente desumibile proprio dalla
prosecuzione dei lavori da parte dell’imputata, aggravato dalla qualità di custode
della stessa, che rendeva chiara la consapevolezza di modificare lo stato dei luoghi
rispetto all’apposizione dei sigilli; con riferimento alla prescrizione del reato, infine,
il momento consumativo del reato di violazione di sigilli può essere ritenuto coincidente con quello dell’accertamento – sulla base di elementi indiziari, di considerazioni logiche, ovvero di fatti notori e massime di esperienza – salvo che venga
rigorosamente provata l’esistenza di situazioni particolari o anomale, idonee a confutare la valutazione presuntiva e a rendere almeno dubbia l’epoca di cor’nmissione
del fatto (giurisprudenza costante: Sez. F, n. 34281 del 30/07/2013 – dep.
08/08/2013, Franzese e altro, Rv. 256644): prova rigorosa nella specie non fornita
dall’imputata.

10. Infine, quanto alle residue doglianze di cui al terzo motivo (violazione di legge
e vizio di motivazione in ordine all’art. 133, c.p., all’art. 131 bis, c.p. ed all’intervenuta subordinazione del beneficio di cui all’art. 163, c.p. al pagamento della
somma di 300 € in favore del Comune di Gela), si osserva quanto segue.

11. Quanto alle censure con riferimento alla affermazione contenuta in sentenza
secondo cui la pena sarebbe proporzionata e correttamente determinata, tenuto
conto del reato, dei limiti della pena e della non incensuratezza dell’imputata, lungi
dal trattarsi di affermazione di mero stile, in realtà è idonea a soddisfare l’onere
motivazionale richiesto dalla legge; sul punto, il ricorrente non tiene conto del
fatto che, in ragione dei limiti edittali della pena prevista dal comma 1 dell’art.
349, c.p. (limiti da assumere come riferimento, atteso il giudizio di equivalenza
operato dal giudice di primo grado), la pena inflitta rientra nel c.d medio edittale
(reclusione da sei mesi a tre anni e multa da centotre euro a milletrentadue euro),
con la conseguenza che trova applicazione il principio secondo cui in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della
media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte
del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena,
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Rv. 269358).

nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412
del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283).

12. In secondo luogo, con riferimento alle censure relative al rigetto della richiesta
di riconoscimento della speciale causa di non punibilità dell’art. 131 bis, c.p., che
sarebbe del tutto immotivata, i giudici di appello escludono la sussistenza dei pre-

vazione sufficiente, alla stregua del complesso degli elementi emersi, atteso che
se, da un lato, è ben vero che in tema di particolare tenuità del fatto, il reato
permanente, in quanto caratterizzato dalla persistenza, ma non dalla reiterazione,
della condotta, non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale che preclude l’applicazione di cui all’art. 131-bis cod. pen., è altrettanto vero che lo stesso
importa una attenta valutazione con riferimento alla configurabilità della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza è tanto più difficilmente rilevabile quanto
più a lungo si sia protratta la permanenza (Fattispecie relativa a reati edilizi e
paesaggistici: Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015 – dep. 27/11/2015, P.M. in proc.
Derossi, Rv. 265448).
E, nel caso di specie, la condotta illecita si è protratta ininterrottamente, non solo
per aver inizialmente eseguito i lavori senza alcun titolo abilitativo, ma anche per
averli proseguiti, violando i sigilli, così denotando particolare proclività al delitto,
ciò che esclude una minima offensività del fatto; dall’altro, poi, va aggiunto che la
esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis
cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della
continuazione, e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il
reato continuato una ipotesi di “comportamento abituale”, ostativa al riconoscimento del beneficio (Fattispecie relativa a reiterate violazioni di sigilli commesse
per portare a compimento l’esecuzione di lavori edilizi abusivi su un immobile sottoposto a sequestro: Sez. 3, n. 29897 del 28/05/2015 – dep. 13/07/2015, Gau,
Rv. 264034).

13. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso dev’essere dichiarato
inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia
proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma
dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello

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supposti per ritenere di minima offensività la condotta in esame; trattasi di moti-

del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.

P.O.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento

ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 16 marzo 2018

delle spese processuali e della somma di C 2000,00 in favore della Cassa delle

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