Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19669 del 24/04/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19669 Anno 2014
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
su ricorso proposto da:
1.

ROMANO ANTONIO nato il 08/06/1972;

2.

ROMANO ADELE nata il 03/03/1974;

avverso il decreto del 30/09/2013 della Corte di Appello di Lecce;
Visti gli atti, il decreto ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
letta la requisitoria del Procuratore Generale in persona del dott.
Gioacchino Izzo che ha concluso per l’inammissibilità;
FATTO
1. Con decreto del 30/09/2013, la Corte di Appello di Lecce,
decidendo in sede di rinvio a seguito dell’annullamento pronunciato dalla
sesta sezione di questa Corte con sentenza n° 10153/2013 del decreto
9 novembre – 7 dicembre 2011 della Corte di Appello di Lecce,
confermava nuovamente il decreto con il quale, in data 24/09 05/10/2010, il Tribunale di Lecce aveva applicato la misura della
prevenzione patrimoniale della confisca sui beni pervenuti ai germani

Data Udienza: 24/04/2014

ROMANO Antonio e ROMANO Adele a seguito di atto di donazione del
08/10/2007 della propria madre Colì Giuseppa.

2. Avverso il suddetto decreto, ROMANO Antonio e ROMANO Adele,
a mezzo del comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione

2.1. VIOLAZIONE DELL’ART. 627 COD. PROC. PEN. per non avere la Corte
rispettato il dictum con il quale la Corte di Cassazione, nella sentenza di
annullamento, aveva rinviato per un nuovo giudizio in ordine alle ragioni
per le quali doveva ritenersi che i beni, oggetto della donazione,
continuassero ad essere nella materiale disponibilità di Romano Giorgio
e le ragioni per quali quell’atto fosse stato “sostanzialmente” guidato da
costui nell’intento di occultarne la reale titolarità. Secondo i ricorrenti,
infatti, la Corte non avrebbe fatto altro che motivare facendo leva sugli
stessi elementi indiziari che, però, erano stati ritenuti insufficienti dalla
Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento.
2.2. ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE degli artt. 10/1 lett c) n ° 2 e lett.
d) della legge 125/2008 e succ. mod. per violazione degli artt. 41-42 (in
relazione alla ingiustificata compressione del diritto di proprietà), 27/2
(in relazione al principio di colpevolezza), 3/1 (in relazione alla
ingiustificata uniformità di trattamento tra soggetti pericolosi
“qualificati” e soggetti pericolosi “comuni”), 24 e 111 (in relazione alla
compressione del diritto di difesa del successore a titolo universale o
particolare nei cui confronti può essere iniziato il procedimento), 117/1
(in relazione alla violazione, da parte della legge di riforma del
2008/2009, degli obblighi sanciti dall’art. 1 del primo protocollo
addizionale alla CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo,
nonché dell’art. 17 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo di
New York del 1948).
DIRITTO
1. VIOLAZIONE DELL’ART. 627 COD. PROC. PEN.: in punto di fatto, al fine
di focalizzare la problematica in esame, va precisato quanto segue.

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deducendo i seguenti motivi:

I ricorrenti sono figli di Colì Giuseppa e del defunto Romano
Giorgio Antonio soggetto nei cui confronti erano state avviate indagini
patrimoniali per l’applicazione di misure di prevenzioni personali e
patrimoniali e, successivamente, ucciso in un agguato.
Romano Giorgio Antonio aveva intestato fittiziamente dei beni alla

definitivo nei precedenti gradi di giudizio: cfr pag. 21 decreto
impugnato.
Colì Giuseppa, in data 08/10/2007, aveva, a sua volta, donato i
beni in questione, ai propri figli oggi ricorrenti.
La Corte territoriale, con il decreto 9 novembre – 7 dicembre 2011
aveva ritenuto che la donazione, in realtà, fosse stata “etero diretta” dal
Romano Giorgio il quale, quindi, era pur sempre rimasto il reale
proprietario dei beni in questione.
La Corte di Cassazione, ha annullato la suddetta decisione
adducendo la seguente motivazione: «l’art. 2-ter, come modificato dal
D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 10, comma 1, lett. d), n. 4, e
coordinato con la Legge di conversione del 24 luglio 2008, n. 125, ha la
funzione di regolamentare taluni aspetti particolari del procedimento di
prevenzione per le misure patrimoniali.
L’ultimo comma della norma in esame, in particolare, detta la
regola della presunzione iuris tantum di appartenenza (per effetto della
ritenuta fittizietà ex lege), alla persona sottoposta a misura di
prevenzione, dei beni trasferiti o intestati, anche a titolo oneroso, a
determinati soggetti, fra i quali devono annoverarsi, per quanto
specificamente interessa in questa Sede, i discendenti del Romano
Giorgio Antonio.
La su menzionata disposizione, inoltre, dispiega i suoi effetti sulla
ripartizione dell’onere della prova in materia di intestazioni e
trasferimenti (a qualsiasi titolo) di beni a prossimi congiunti, con
inversione, ex lege, dell’onere della prova circa una titolarità effettiva, e
non fittizia (in capo al prossimo congiunto del proposto), dei beni
assoggettati o assoggettabili alle misure di prevenzione.

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moglie Colì Giuseppa: tale fatto risulta essere stato accertato in modo

Essa, dunque, riflette la scelta di tipizzare alcuni negozi giuridici
che si ritengono, per esplicita volontà normativa, in base ad una
presunzione iuris tantum, fittizi sino a prova contraria, ove intercorrenti
tra il proposto e determinate categorie di soggetti (coniuge, conviventi
ed alcune categorie di parenti del medesimo proposto; qualsiasi altra

stabilendo un limite temporale di operatività della presunzione nei due
anni antecedenti la proposta della misura (in motivazione, v. Sez. 1, n.
39799 del 20/10/2010, dep. 11/11/2010, Rv. 248845).
Nel caso in esame occorre considerare, pertanto, la rilevanza del
doppio passaggio traslativo dei beni immobili oggetto del provvedimento
di confisca, in precedenza – e, almeno in un caso, in epoca assai
risalente – intestati alla moglie del soggetto “proponibile” e da costei,
successivamente, donati ai figli, in assenza di elementi dimostrativi
idonei a rivelare l’oggettiva incidenza di un diretto intervento del primo,
poi deceduto anteriormente alla formulazione della proposta e, dunque,
ancor prima che i beni colpiti dal provvedimento ablativo divenissero
oggetto di interesse nell’ambito del procedimento di prevenzione
patrimoniale. Ne discende l’inoperatività del meccanismo presuntivo
delineato nel comma 14 della disposizione di cui alla L. n. 575 del 1965,
art. 2- ter, il cui ambito di applicazione non può automaticamente
allargarsi fino a ricom prendere una sequela di atti traslativi la cui causa
illecita non emerga sicuramente da un intervento posto in essere,
nell’arco temporale ivi considerato, dal soggetto nei confronti del quale
la confisca potrebbe essere disposta in forza del comma 11 della stessa
disposizione normativa, se non al prezzo di una pericolosa attenuazione
del necessario elemento di collegamento del bene con l’accertamento di
pericolosità sociale del soggetto premorto. In relazione al punto or ora
evidenziato, tuttavia, il discorso giustificativo sviluppato dalla Corte di
merito si fonda su enunciati del tutto apodittici, sforniti di un supporto
motivazionale connotato dai necessari requisiti di congruità, coerenza e
completezza, al punto da risultare meramente apparente (Sez. Un. 28
maggio 2003, Pellegrino, Rv. 224611), prospettando, in assenza di
specifici e convergenti elementi dimostrativi, la preventiva definizione di

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categoria di soggetti, se si tratta di trasferimenti a titolo gratuito),

uno schema simulatorio attraverso il quale i figli avrebbero ricevuto dal
padre i beni poi confiscati, poiché egli, verosimilmente a seguito della
notizia delle indagini nei suoi confronti avviate, li avrebbe ad essi
trasferiti a mezzo di donazioni pro indiviso dalla moglie effettuate in loro
favore. A tale specifico riguardo, invero, per giustificare l’asserita

apparentemente schermato dall’intervento del soggetto “donante”, non
può ritenersi in alcun modo sufficiente il riferimento al vincolo familiare,
pur stretto, che lega le persone coinvolte nella vicenda, imponendosi, di
contro, un accertamento rigoroso ed approfondito, le cui risultanze
consentano al giudice di spiegare le ragioni della ritenuta interposizione
fittizia sulla base non di sole circostanze sintomatiche di spessore
indiziario, ma di elementi fattuali connotati dai requisiti della gravità,
precisione e concordanza, e come tali idonei a dimostrare l’assunto
incentrato sul carattere puramente formale del trasferimento e,
corrispondentemente, sul permanere di una situazione sostanziale di
autonoma ed effettiva disponibilità dei beni in capo ad altra persona poi
deceduta (arg., in tal senso, ex Sez. 2, n. 6977 del 09/02/2011, dep.
23/02/2011, Rv. 249364; Sez. 2, n. 35628 del 23/06/2004, dep.
27/08/2004, Rv. 229726- Sez 1, n. 43046 del 15/10/2003, dep.
11/11/2003, Rv. 226610). Sulla base delle su esposte considerazioni,
conclusivamente, l’impugnato provvedimento deve essere annullato con
rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Lecce, la quale dovrà,
con riferimento alle posizioni di Romano Antonio e Romano Adele, porre
rimedio alle su rilevate carenze motivazionali, uniformandosi ai principii
di diritto in questa Sede stabiliti».
I ricorrenti, facendo leva sull’ultimo periodo della sentenza di
annullamento

(«per giustificare l’assenta esistenza di un rapporto

diretto tra il “proponibile” e i donatari, apparentemente schermato
dall’intervento del soggetto “donante”, non può ritenersi in alcun modo
sufficiente il riferimento al vincolo familiare, pur stretto, che lega le
persone coinvolte nella vicenda, imponendosi, di contro, un
accertamento rigoroso ed approfondito, le cui risultanze consentano al
giudice di spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia sulla

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esistenza di un rapporto diretto tra il “proponibile” e i donatari,

base non di sole circostanze sintomatiche di spessore indiziario, ma di
elementi fattuali connotati dai requisiti della gravità, precisione e
concordanza, e come tali idonei a dimostrare l’assunto incentrato sul
carattere puramente formale del trasferimento e, corrispondentemente,
sul permanere di una situazione sostanziale di autonoma ed effettiva

sostengono che la Corte avrebbe, ancora una volta, fatto ricorso a
semplici elementi indiziari senza individuare specifici «elementi fattuali
connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza» e facendo
ricorso a mere presunzioni prive, peraltro, di alcun concreto spessore
probatorio (pag. 13 ss del ricorso).
Ora, sul punto, al fine di sgombrare il campo da qualsiasi
equivoco, è opportuno fare le seguenti precisazioni.
Innanzitutto, per quanto detto, è pacifico che la Colì era
intestataria fittizia dei beni in questione che le erano pervenuti proprio
dal marito il quale, quindi, ne aveva mantenuto la disponibilità. Se ciò è
vero, ne consegue – proprio e solamente sotto un profilo di stretta
logica – che la Colì (a meno di non ritenere che agì contro la volontà del
marito: il che, però, non è stato neppure prospettato dai ricorrenti),
donò i beni ai figli perché così decise e dispose il vero titolare dei beni
ossia il Romano Giorgio Antonio.
Il secondo punto che occorre rilevare è che nei processi in cui un
terzo (nella specie, il Pubblico Ministero) tende a dimostrare la
simulazione degli atti ai quali è rimasto estraneo, l’unico modo che,
spesso, ha per assolvere l’onere probatorio che su di lui grava, non è
solo quello di avvalersi della prova testimoniale (art. 1417 c.c.) ma
anche delle presunzioni (arg. ex art. 2729/3 c.c.) che assurgono a prova
quando sono gravi, precise e concordanti ex art. 2729/1 c.c.: il che è
quanto ha statuito questa Corte nella sentenza di annullamento avendo
espressamente affermato, utilizzando la medesima terminologia di cui
all’art. 2729 c.c., che il giudizio doveva basarsi su

«elementi fattuali

connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza».

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disponibilità dei beni in capo ad altra persona poi deceduta»),

In altri termini, questa Corte ha ritenuto che il decreto della Corte
territoriale non avesse motivato (o lo avesse solo in modo apparente) in
ordine alla simulazione.
Il problema che, quindi, si pone nel presente giudizio è quello di
stabilire se la Corte, nel decreto nuovamente impugnato, abbia o no

nella sentenza di annullamento, dovendosi, peraltro, tenere ben
presente che il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di
prevenzione, in coerenza con la natura e la funzione del relativo
procedimento, è limitato alla sola violazione di legge (L. n. 1423 del
1956, ex art. 4, comma 11) e non si estende al controllo dell’iter
giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante,
ipotesi in cui sussisterebbe comunque il vizio di violazione di legge (Sez.
6, n. 15107 del 17/12/2003, dep. 30/03/2004, Rv. 229305; Sez. 6, n.
35044 del 08/03/2007, dep. 18/09/2007, Rv. 237277; Sez. 5, n. 19598
del 08/04/2010, dep. 24/05/2010, Rv. 247514).
Ora, quanto al regime probatorio, il Legislatore, in un accorto
sistema di bilanciamento fra l’interesse pubblico alla confisca dei beni e
l’interesse del terzo a mantenerli, ha stabilito che la prova della
simulazione, che spetta sempre a chi agisce, ben può fondarsi su
presunzioni che possono essere le più svariate; a mò di esempio, senza
alcuna pretesa di esaustività, e facendo ricorso alla casistica
giurisprudenziale, si possono ricordare le seguenti presunzioni: a) la
parentela e la convivenza fra il dante causa e l’avente causa, nonché
rapporti di amicizia o di lavoro; b) la vicinanza temporale fra l’atto di
spoliazione e il momento in cui il dante causa ha avuto la cognizione
che, presto, i suoi beni sarebbero stati aggrediti; c) la mancanza di
disponibilità economica da parte dell’avente causa che giustifichi
l’acquisto a titolo oneroso; d) la circostanza che l’avente causa ha
continuato ad avere la disponibilità di fatto del bene trasferito a terzi; e)
la gratuità dell’atto ecc…
La Corte territoriale, ha evidenziato le seguenti presunzioni:
– «entrambi i germani risultano presenti in numerosi atti del
registro quali aventi causa in donazioni ed acquisti e danti causa

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colmato la lacuna motivazionale evidenziata dalla Corte di cassazione

in altrettante cessioni, Adele a partire dal 1993, Antonio a partire
dal 1991 […]»

il che faceva concludere

«per l’esistenza di

un’unica regia e un’unica gestione dei beni di cui Coli, Cataldo
[nd.r.: la convivente del Romano] e i germani Romano sono stati
solo fittizi intestatari»: pag. 25 decreto;

e non più convivente con lei» ha sempre continuato a comportasi
come dominus incontrastato dei beni pur intestati alla moglie
Coli;

la modalità con cui venne effettuata la donazione (pro indiviso)
rispondeva non all’esigenze dei donatari (costretti alla gestione
comune dei beni) ma a quella del donante (il padre Romano) «di
evitare la dispersione dei beni stessi»;

i tempi della donazione, avvenuta pochi mesi dopo che erano
stati

avviati

accertamenti

economico

patrimoniali

per

l’applicazione di misure di prevenzione.
Ritiene questa Corte di legittimità che il compendio probatorio
evidenziato dalla Corte territoriale sia costituito da una serie di
presunzioni gravi, precise e concordanti sulla base delle quali deve
ritenersi provato che: a) i ricorrenti, così come era adusi a fare fin dal
1991, anche per la donazione in questione, si prestarono a divenire
intestatari fittizi dei beni; b) i ricorrenti, in quanto figli della donante,
sapevano perfettamente della situazione famigliare e cioè che il proprio
padre gestiva

uti dominus

il patrimonio famigliare di cui era il

sostanziale proprietario; c) la donazione, fu effettuata nel tentativo di
allungare la catena degli aventi causa e, quindi, rendere più difficile
l’aggressione dei beni da parte della pubblica accusa che aveva iniziato
ad effettuare indagini sull’origine dell’accumulazione del patrimonio del
Romano: in tal senso vanno ritenuti indizi gravi, precisi e concordanti sia
il tempo in cui la donazione fu effettuata sia le modalità.
La suddetta motivazione, pertanto, non è affatto apparente sicchè
avverso di essa, non può ipotizzarsi alcuna violazione di legge.

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«Romano Giorgio Antonio, benché di fatto separato dalla moglie

2.

Quanto, infine, alle sollevate questioni di legittimità

costituzionale della normativa in esame, questa Corte non può che
rinviare proprio alla sentenza di annullamento pronunciata da questa
Corte la quale ai §§ 6-7 ha ritenuto manifestamente infondate tutte le
questioni di legittimità costituzionali sollevate dai ricorrenti ed ora

stessi termini.

3. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a
norma dell’art. 606/3 c.p.p, per manifesta infondatezza: alla relativa
declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna
dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché al
versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che,
ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina
equitativamente in C 1.000,00 ciascuno.
P.Q.M.
DICHIARA
Inammissibile il ricorso e
CONDANNA
i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma
di C 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Roma 24/04/2014

riproposte, seppure in modo più ampio ed articolato, in sostanza, negli

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