Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19624 del 13/02/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19624 Anno 2014
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Antonio Sortiero, quale difensore di De
Martino Rosaria (n. il 12/06/1969), avverso la sentenza della Corte d’appello
di Milano, Il Sezione penale, in data 20/02/2013.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano !esilio.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Fulvio Baldi,
che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

OSSERVA:

Data Udienza: 13/02/2014

Con sentenza del 02/05/2012, il Tribunale di Milano dichiarò De Martino
Rosaria responsabile dei reati di falsità materiale (capo 188), tentata truffa
(capo 189) e quattro episodi di ricettazione (capi 126, 130, 133 e 187) e —
concesse le attenuanti generiche – la condannò alla pena di anni 1 e mesi 9
di reclusione ed € 8.444,00 di multa.
Avverso tale pronunzia l’imputata propose gravame ma la Corte

primo grado.
Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputata deducendo il vizio di
motivazione (carenza, illogicità e contraddittorietà) perché si afferma: che
l’imputata è stata riconosciuta come la persona che esitava gli assegni di
illecita provenienza sotto falso nome ma non si indica chi l’abbia riconosciuta
e non si prende atto del riconoscimento incerto di cui a pag. 42
dell’impugnata sentenza; che tutte le firme di traenza “sono riconducibili alla
stessa persona”, ma non si indica in base a quale prova lo si deduca.

Eccepisce, inoltre, l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 159 c.p. in
relazione agli artt. 111 della Cost. e 6 CEDU in quanto per i rinvii dovuti
all’adesione all’astensione dalle udienze la Corte ha conteggiato ai fini della
prescrizione l’intero periodo di rinvio e non solo 60 giorni.
Il difensore della ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel
giudizio di legittimità.
In punto di diritto occorre rilevare che la sentenza di primo grado e
quella di appello, quando non vi è difformità sulle conclusioni raggiunte, si
integrano vicendevolmente, formando un tutt’uno organico ed inscindibile,
una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per
giudicare della congruità della motivazione. Pertanto, il giudice di appello, in
caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per
relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non
oggetto di specifiche censure (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4827 del 28/4/1994
– ud. 18/3/1994 – Rv. 198613; Sez. 6, Sentenza n. 11421 del 25/11/1995 – ud.

CZ

d’appello di Milano, con sentenza del 20/02/2013, confermò la decisione di

29/9/1995 – Rv. 203073). Inoltre, la giurisprudenza di questa Suprema Corte
ritiene che non possano giustificare l’annullamento minime incongruenze
argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione che, ad
avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa decisione,
sempreché tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile
carattere di decisività e non risultino, di per sè, obiettivamente e
intrinsecamente idonei a determinare una diversa decisione. In argomento, si

è spiegato che non costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione
concernente l’analisi di determinati elementi probatori, in quanto la rilevanza
dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui
essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso
probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione
di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza
decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica
dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso,
implicitamente confutati. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3751 del 23/3/2000 ud. 15/2/2000 – Rv. 215722; Sez. 5, Sentenza n. 3980 del 15/10/2003 – Ud.
23/9/2003) Rv.226230, Fabrizi; Sez. 5, Sentenza n. 7572 del 11/6/1999 (ud.
22/4/1999 – Rv. 213643). Le posizioni della giurisprudenza di legittimità
rivelano, dunque, che non è considerata automatica causa di annullamento
la motivazione incompleta nè quella implicita quando l’apparato logico
relativo agli elementi probatori ritenuti rilevanti costituisca diretta ed
inequivoca confutazione degli elementi non menzionati, a meno che questi
presentino determinante efficienza e concludenza probatoria, tanto da
giustificare, di per sè, una differente ricostruzione del fatto e da ribaltare gli
esiti della valutazione delle prove.
In applicazione di tali principi, può osservarsi che la sentenza di
secondo grado recepisce in modo critico e valutativo la sentenza di primo
grado, correttamente limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni
aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della
difesa, omettendo, in modo del tutto legittimo in applicazione dei principi
sopra enunciati, di esaminare quelle doglianze dell’atto di appello che
avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice.

3

Invero la Corte territoriale ha con esaustiva, logica e non contraddittoria
motivazione, evidenziato tutte le ragioni dalle quali desume la responsabilità
dell’imputata per i reati di cui sopra. In particolare per i capi 126, 130 e 133
evidenzia che la serialità degli assegni utilizzati tutti appartenenti al
medesimo libretto, l’identità del nome falso utilizzato (Ceccato Lorenza), la
riconducibilità della firma ad un’unica mano sono elementi che consentono di

riconoscimento dell’imputata effettuato da Pagni Sergio per il fatto di cui al
capo n. 126, si aggiunge che la carta di identità utilizzata per il fatto di cui al
capo n. 130 è stata fotocopiata e sulla stessa vi è l’effige fotografica
dell’imputata. Quindi da quanto sopra premesso la Corte di appello ricava
correttamente la penale responsabilità della prevenuta per tutti e tre gli
episodi (si vedano le pagine da 42 a 45 dell’impugnata sentenza). Per quanto
riguarda i capi 187, 188 e 189 – contrariamente a quanto sostenuto nel
ricorso — la Corte di appello rileva che il riconoscimento dell’imputata era
stato effettuato dagli operanti ed era avvenuto grazie alla fotocopiatura del
documento di identità utilizzato dalla De Martino in tale occasione.
Fotocopiatura del documento che veniva confermata dal teste Rugolo e
confermata anche dalla fotocopia del documento che si trova allegato al
verbale di sommarie informazioni rilasciate dal predetto teste e acquisite agli
atti (si vedano le pagine 45 e 46 dell’impugnata sentenza).
Orbene a fronte di quanto sopra esposto, la difesa dell’imputata
contrappone, quindi, solo astratti principi generali e generiche contestazioni,
che non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello. In
particolare non evidenzia alcuna illogicità o contraddizione nella motivazione
della Corte territoriale allorchè conferma la decisione del Tribunale. In
proposito questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso
dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione
quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate
dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di
impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento
censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591,
comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità del ricorso (Si veda
fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv

ascrivere le condotte ad una sola persona. Orbene al probabile

230634). Infine, si deve osservare che l’illogicità della motivazione, come
vizio denunciabile, deve essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di
legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando
ininfluenti le minime incongruenze (che tra l’altro nel caso di specie non si
ravvisano).
Infine, per quanto riguarda le censure relative al non riconoscimento

l’art. 111 Cost. e 6 CEDU si deve rilevare che la Corte di appello ha ben
conteggiato la sospensione della prescrizione. Infatti questa Suprema Corte
ha più volte affermato il principio — condiviso dal Collegio – che la
sospensione del corso della prescrizione per l’adesione del difensore
all’astensione di categoria non è limitata alla sola durata dello “sciopero”, ma
si estende al tempo resosi necessario per gli adempimenti tecnici
imprescindibili al fine di garantire il recupero dell’ordinario svolgersi del
processo, ivi compresi i tempi derivanti dal così detto “carico di lavoro”, posto
che tutte le parti processuali condividono con il giudice che dispone il rinvio la
responsabilità dell’ordinato svolgimento del processo (Sez. 4, Sentenza n.
46359 del 24/10/2007 Ud. – dep. 13/12/2007 – Rv. 239020). Inoltre, il rinvio
dell’udienza dovuto all’adesione del difensore all’astensione collettiva dalle
udienze determina la sospensione del termine prescrizionale per tutto il
tempo necessario per gli adempimenti tecnici imprescindibili al fine di
garantire il recupero dell’ordinario svolgersi del processo (nella specie la
Corte ha ritenuto sospeso il termine di prescrizione fino alla data della
successiva udienza; Sez. 4, Sentenza n. 10621 del 29/01/2013 Ud. – dep.
07/03/2013 – Rv. 256067). Dunque il reato non era prescritto quando è stata
pronunziata la sentenza di secondo grado, data alla quale bisogna fare
riferimento dovendosi dichiarare l’inammissibilità del ricorso. Inammissibilità
che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e
preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non
punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. maturate, eventualmente,
successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (si veda fra le tante:
Sez. 4, Sentenza n. 18641 del 20/01/2004 Ud. – dep. 22/04/2004 – Rv.
228349). E’ appena il caso di precisare che quando si parla di sentenza di
condanna non si deve far riferimento al deposito della motivazione, bensì al

della prescrizione, premessa l’assoluta genericità dell’eccepito contrasto con

momento della pronuncia della sentenza di condanna, mediante lettura del
dispositivo. È infatti incontrovertibile, in generale, il principio di diritto che, al
fine di individuare il momento nel quale si produce l’interruzione della
prescrizione del reato, occorre avere riguardo a quello dell’emissione di uno
degli atti indicati nell’art. 160 c.p. (ex plurimis Sez., un. 16 marzo 1994, dep.
31 marzo 1994, dep. 3760, id. 28 ottobre 1998, dep. 18 dicembre 1998, n.

l’interruzione della prescrizione opera al momento della lettura del dispositivo
– anche quando non sia data contestuale lettura della motivazione – in quanto
tale è il momento in cui si accerta la responsabilità e si infligge la pena, e non
in quello successivo del deposito che serve, appunto, alla ulteriore
comunicazione delle ragioni di condanna, a fini processuali (Sez. 2, 20
ottobre 1980, dep. 3 dicembre 1980, n. 1283; Sez. 5, 4 novembre 2003, dep.
2 dicembre 2003, n. 46231; Sez. 6, Sentenza n. 31702 del 26/05/2008 Ud. dep. 29/07/2008 – Rv. 240607).
Uniformandosi a tali orientamenti, che il Collegio condivide, va
dichiarata inammissibile l’impugnazione.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 13/02/2014.

13390) e, con specifico riferimento, alla sentenza di condanna che

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