Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19623 del 13/02/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 19623 Anno 2014
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Salvatore Silvestro, quale difensore di
Smiroldo Giuseppe (n. il 28/01/1947), avverso la sentenza della Corte
d’appello di Messina, Sezione penale, in data 17/06/2013.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Fulvio Baldi,
che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

OSSERVA:

Data Udienza: 13/02/2014

Con sentenza del 22/09/2010, il Tribunale di Messina — Sezione
distaccata di Taormina – dichiarò Smiroldo Giuseppe responsabile dei reati di
truffa e falso in scrittura privata (entrambi i reati aggravati; imputato con
recidiva di cui all’art. 99, IV comma, c.p.) e lo condannò alla pena di anni 1 e
mesi 9 di reclusione ed € 600,00 di multa.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte
d’appello di Messina, con sentenza del 17/06/2013, confermò la decisione di

primo grado.
Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo: che la
condanna si fonda solo sulle dichiarazioni della P.O. la cui credibilità non è
stata sottoposta ad un attento vaglio; richiama in proposito l’appello ove
sarebbero state evidenziate contraddizioni nel narrato della P.O., non
valutate dal Giudice di merito. Contesta, inoltre, il ragionamento con i quali i
giudici di merito ritengono che sia stato l’imputato a falsificare le ricevute dei
bonifici. Infine, per quanto riguarda la truffa sottolinea che dalle sentenze dei
Giudici di merito emerge che le copie dei bonifici falsificati sarebbero stati
consegnati alle ditte truffate dopo il ricevimento della merce. In tal caso è
evidente che trattandosi di truffa contrattuale, perché tale reato sussista è
necessario che l’individuato artifizio di presentare false attestazioni di
pagamento avvenga prima del perfezionamento della volontà negoziale. Per
quanto riguarda il falso eccepisce che non si può ravvisare il falso in scrittura
privata di semplici copie di bonifici.
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606, comma 1, cod.
proc. pen., perché propone censure attinenti al merito della decisione
impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di
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apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass.
Sez. 4″ sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass.
Sez. 5″ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez.
2″ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 lettera
c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod. proc. pen., perché le doglianze (sono

contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni,
ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si
palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti la Corte di merito ha
— dopo un corretto richiamo per relationem alla sentenza di primo grado – con
esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le
ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente per il reato di cui
sopra (le dichiarazioni della P.O. e gli altri elementi probatori acquisiti che, tra
l’altro, supportano le dichiarazioni della stessa P.O.). La Corte di appello ha,
poi, ben motivato sulla credibilità della Persona Offesa, conducendo
un’attenta e accurata indagine sulla sua credibilità soggettiva ed oggettiva. Si
deve sottolineare che sul punto questa Suprema Corte ha più volte affermato
il principio — condiviso dal Collegio – secondo il quale la testimonianza della
persona offesa, ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisce una vera
e propria fonte di prova, purchè la relativa valutazione sia sorretta da
un’adeguata motivazione, che dia conto dei criteri adottati e dei risultati
acquisiti (Sez. 3, Sentenza n. 22848 del 27/03/2003 Ud. – dep. 23/05/2003 Rv. 225232; Sez. 6, Sentenza n. 27322 del 14/04/2008 Ud. – dep.
04/07/2008 – Rv. 240524). Persona offesa che è teste e non chiamante in
correità; pertanto non sono certo necessari, per le sue dichiarazioni, i
riscontri esterni — che comunque nel caso di specie ci sono e sono stati
correttamente evidenziati – richiesti dall’articolo 192, III comma, c.p.p.; quindi
è necessario solo accertare — come è avvenuto nell’impugnata sentenza – la
credibilità della persona offesa (si veda, fra le tante, Sez. 4, Sentenza n.
30422 del 21/06/2005 Ud. – dep. 10/08/2005 – Rv. 232018). Principio questo
confermato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte che hanno ribadito che
le regole dettate dall’art. 192 comma terzo cod. proc. pen. non si applicano
alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere

le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario

legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale
responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione,
della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo
racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso
rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi
testimone (in motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui

procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi; Sez. U,
Sentenza n. 41461 del 19/07/2012 Ud. – dep. 24/10/2012 – Rv. 253214).
Principi ai quali, come già rilevato, entrambi i Giudici di merito si sono
attenuti. Inoltre, si deve rilevare che in tema di prove, la valutazione della
credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto
che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal
giudice e che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il
giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (che, come detto, non si
riscontrano nel caso di specie; Sez. 3, Sentenza n. 8382 del 22/01/2008 Ud.
– dep. 25/02/2008 – Rv. 239342).
Infine, la Corte di appello alle pagine da 1 a 3 dell’impugnata sentenza
evidenzia che: 1) l’emissione da parte dell’imputato di due bonifici a favore
dei venditori di carne di Euro 17,89 (per un acquisto pari ad Euro 17.889,85)
e di Euro 4,14 (per un acquisto pari ad Euro 4.149,39) e la successiva
alterazione della copia dei predetti bonifici che trasformava l’effettivo bonifico
di Euro 17,89 in quello apparente di Euro 17.889,85 e l’effettivo bonifico di
Euro 4,14 in quello apparente di Euro 4.149,39 conferma la veridicità di
quanto sostenuto dalla P.O.; 2) è fantasiosa e priva di qualsiasi fondamento
probatorio la tesi che la stessa P.O. avrebbe potuto alterare le copie dei
bonifici — tra l’altro non se ne comprende neppure a quale fine e per quale
vantaggio – circostanza che sarebbe potuta essere smentita immediatamente
dall’imputato dimostrando di aver effettuato i pagamenti di cui sopra
integralmente (si veda pagina 2 dell’impugnata sentenza). A tale corretta
osservazione la difesa del ricorrente oppone, anche in sede di ricorso,
generiche rimostranze senza dimostrare l’effettivo pagamento della merce e
anzi contraddicendosi allorchè con l’appello ha ammesso che nel caso di
specie può ravvisarsi solo “un semplice inadempimento contrattuale”e quindi

la persona offesa si sia altresì costituita parte civile, può essere opportuno

che, come accertato dai Giudici di merito, lo Smiroldo ha effettuato bonifici
per cifre insignificanti ma facilmente alterabili per far apparire come pagate le
forniture della carne che in realtà non sono mai state pagate; 3) che gli artifizi
e raggiri sono consistiti prima nel pagare regolarmente due forniture per
acquisire la fiducia e poi nel far apparire tramite l’alterazione di cui sopra
come pagate le forniture oggetto della truffa. In proposito la Corte di appello
a pagina 2 dell’impugnata sentenza sottolinea quanto sopra, evidenziando il

rapporto di causa ed effetto tra l’espediente fraudolento utilizzato
dall’imputato e il consenso della P.O. viziato a causa dello stesso espediente
fraudolento. Nella sentenza non si legge affatto — come apoditticamente
sostenuto nel ricorso — che le copie dei bonifici alterati siano stati consegnati
successivamente alla consegna della carne; tra l’altro se così fosse avvenuto
non si comprende per quale motivo l’imputato avrebbe dovuto escogitare
l’espediente fraudolento di cui sopra e falsificare le copie dei bonifici; in ogni
caso è evidente che la truffa sussisterebbe egualmente perché le due ditte
hanno consegnato la merce perché rassicurate dai due regolari acquisti di
cui sopra. In proposito questa Suprema Corte ha affermato il principio —
pienamente condiviso dal Collegio — che il raggiro del reato di truffa, in caso
di compravendita di merci può essere integrato dalla preordinata messa in
opera del sistema degli acquisti successivi, dapprima per modesti importi
regolarmente onorati, in modo da ingenerare nel venditore l’erroneo
convincimento di trovarsi di fronte a un contraente solvibile e degno di
credito, e poi per importi maggiori che non vengono invece pagati, purché
l’inadempimento degli obblighi contrattuali sia l’effetto di un precostituito
proposito fraudolento – desumibile in base alle caratteristiche del fatto – come
ad esempio la notevole differenza di importo tra i crediti onorati e quelli
insoluti. Nè la mancanza di diligenza o di prudenza o l’inosservanza di norme
giuridiche da parte del truffato sono atte ad escludere la idoneità del mezzo,
in quanto molto spesso sono determinate dalla fiducia che ha saputo
determinare il truffatore (nella fattispecie il venditore era stato avvertito
dall’acquirente che l’assegno dato in pagamento non poteva essere
presentato subito in banca perché in quel momento non c’era sufficiente
provvista; Sez. 2, Sentenza n. 4275 del 25/03/1983 Ud. – dep. 07/05/1983 Rv. 158916; Sez. 2, Sentenza n. 15053 del 15/01/2014 Ud. – dep.

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02/04/2014 — non massimata; si veda anche sulla fiducia: Sez. 2, Sentenza
n. 20966 del 15/05/2012 Ud. – dep. 31/05/2012 – Rv. 252838); 4) perché non
si riscontrano illogicità, inverosomiglianze e incongruenze nel racconto della
persona offesa.
Correttamente è stato ritenuto sussistente il reato di falso. Questa
Suprema Corte ha più volte affermato che la falsificazione della fotocopia di

manipolazione di un documento vero scannerizzato), integra il reato di falsità
materiale in scrittura privata perché, salvo che intervenga il disconoscimento,
la fotocopia di una scrittura privata ha la stessa efficacia probatoria
dell’originale (Sez. 2, Sentenza n. 36369 del 07/07/2011 Ud. – dep.
07/10/2011 – Rv. 251144). Inoltre, integra il reato di falsità in scrittura privata,
la condotta di colui che crei, in fotocopia, due false dichiarazioni di quietanza
con falsificazione della firma del defunto creditore; né, a tal fine, rileva il
tempestivo disconoscimento – in sede civile – delle predette scritture
effettuato dagli eredi, in quanto esse almeno nel lasso di tempo sino
all’eventuale disconoscimento hanno la stessa forza probante dell’originale,
capaci anche di sostenere una pronuncia giudiziaria favorevole ove, per
mera negligenza o disattenzione “ex adverso”, le stesse non siano
tempestivamente disconosciute o la controparte sia contumace, di guisa che
maturi il riconoscimento tacito di cui all’art. 215 cod. proc. civ. Ne deriva che
il disconoscimento è un “posterius” che non elide l’esistenza del reato – il
quale ha natura di reato di pericolo e si concretizza nella creazione di una
falsa fotocopia la cui validità è destinata a permanere in assenza di
tempestivo disconoscimento nell’universo giuridico con la stessa forza
probante di un originale – che si perfeziona con l’uso della fotocopia
avvenuto, nella specie, mediante la produzione in giudizio della stessa (Sez.
5, Sentenza n. 29026 del 30/04/2012 Ud. – dep. 18/07/2012 – Rv. 254610)
Appare quindi evidente che tutte le critiche del ricorrente finiscono per
porsi come valutazioni di merito e, come tali, non esaminabili in questa sede.
Questa Corte ha, infatti, più volte affermato, anche a Sezioni Unite, che
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un
orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla corte di
Cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a

una scrittura privata, mediante fotomontaggio (nella specie attraverso la

riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle
argomentazioni di cui il Giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo
convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula,
infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in
via esclusiva, riservata al Giudice di merito, senza che possa integrare il vizio

di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più
adeguata, valutazione delle risultanze processuali”. (Sez. U, Sentenza n.
2110 del 23/11/1995 Ud. – dep. 23/02/1996 – Rv. 203767; Sez. U, Sentenza
n. 16 del 19/06/1996 Cc. – dep. 22/10/1996 Rv. 205621; Sez. U, Sentenza n.
6402 del 30/04/1997 Ud. – dep. 02/07/1997 – Rv. 207945; Sez. 1, Sentenza
n. 2884 del 20/01/2000 Ud. – dep. 09/03/2000 – Rv. 215504; Sez. 1,
Sentenza n. 8738 del 23/01/2003 Ud. – dep. 21/02/2003 – Rv. 223572).
A ciò si aggiunga che l’imputato contrappone, come già rilevato, solo
generiche contestazioni in fatto, che non tengono conto delle argomentazioni
della Corte di appello. In particolare non evidenzia alcuna illogicità o
contraddizione nella motivazione della Corte territoriale allorchè conferma la
decisione del Tribunale. In proposito questa Corte Suprema ha più volte
affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di
ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che
conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità
del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 dep. 11.10.2004 – rv 230634). Infine, si deve osservare che l’illogicità della
motivazione, come vizio denunciabile, deve essere percepibile ictu oculi,
dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica
evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze (che tra l’altro nel caso
di specie non si ravvisano).
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in

Q

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favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle

ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 13/02/2014.

spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle

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