Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19609 del 11/03/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 19609 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Comunale Tommaso, nato ad Orta di Atella il
12.4.1952;
avverso l’ordinanza emessa il 27 giugno 2013 dal tribunale del riesame di
Santa Maria Capua Vetere;
udita nella udienza in camera di consiglio dell’Il marzo 2014 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Gabriele Mazzotta, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore avv. Giuseppe Stellato;
Svolgimento de/processo
Con l’ordinanza in epigrafe il tribunale del riesame di Santa Maria Capua
Vetere confermò il decreto del Gip di Santa Maria Capua Vetere del 3.5.2013 di
sequestro preventivo di un immobile sito in Orta di Atella, ritenuto illegittimo
in quanto il permesso di costruire n. 56/06 sarebbe stato illegittimo, con la conseguenza che il complesso realizzato avrebbe dato luogo ad una lottizzazione
abusiva (art. 44, lett. c), d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380) e che sarebbe stata realizzata la fattispecie dell’abuso di ufficio (art. 323 cod. pen.).
Osservò, in sintesi, il tribunale del riesame: – che il fumus dei reati contestati emergeva dal provvedimento di annullamento in autotutela emesso dal
comune in data 4.12.09 (allegato all’informativa del 27.12.12), da cui risultavano numerosi profili di illegittimità del permesso di costruire n. 56/2006, delle
D.I.A. asseverate nell’anno 2008 e della variante al predetto permesso a costruire del 22.12.2011; – che la zona su cui insiste l’immobile è destinata da PRG ad
insediamenti produttivi di tipo commerciale, direzionale e servizi ed è interessata dal PIP, approvato dal CC il 4.2.2000, piano non operativo perché rimasto al-

Data Udienza: 11/03/2014

lo stato embrionale senza che alla sua approvazione abbia fatto seguito tutta
l’attività consequenziale; – che le successive delibere comunali, con le quali
l’ente ha, poi, provveduto alle modifiche delle norme tecniche di attuazione,
prevedendo espressamente interventi diretti, risultano anch’esse illegittime perché approvate senza l’iter procedurale per il loro perfezionamento; – che quindi
l’attività edificatoria posta in essere dai concessionari, così come autorizzata ed
assentita, è stata fin dall’inizio viziata di illegittimità perché, pur interessando
un’area di circa 2.364 mq sita in zona D3, rientrava in un P.I.P. approvato e rimasto sulla carta e non poteva essere realizzata con intervento diretto perché
fondata su delibere da considerarsi tamquam non essent; – che in ogni caso, anche prescindendo dalle predette delibere comunali, si è trattato di lottizzazione
di tipo materiale, ove si è agito sul territorio con un’attività finalizzata ed idonea
a snaturarne la destinazione programmata; – che i provvedimenti di cui si contesta la legittimità sono stati rilasciati per insediamenti apparentemente di tipo
produttivo, commerciale o turistico, per poi assumere nel corso del tempo, e
nell’ambito di un’attività di regolamentazione del territorio preordinata fin
dall’inizio a realizzare un diverso impianto urbanistico, una destinazione diversa; – che la variante al p.d.c. n. 56/2006 in data 22.12.2011 che aveva autorizzato il cambio di destinazione d’uso da uffici in locali residenziali per civili abitazioni, richiamava illegittimamente il disposto dell’art. 7 L.R. 19/2009, dal momento che il comma sei di detta disposizione ne esclude l’operatività nei Piani
di insediamenti produttivi e per edifici superiori ai 10.000 mc., come nel caso di
specie; – che non poteva ritenersi che i fatti oggetto della contestazione odierna
fossero già stati valutati nella vicenda giudiziaria invocata dalla difesa, atteso
che la stessa attiene a fatti diversi temporalmente e giuridicamente, perché concernente condotte realizzate fino al 2008 e limitate ad ipotesi di cui all’art. 44
lett. b) D.P.R. 380/01, da cui si discostano le odierne vicende che riguardano
l’aver realizzato una vera e propria lottizzazione materiale in assenza delle necessarie autorizzazioni; – che l’eccezione della difesa relativa alla effettiva volumetria realizzata non appariva adeguatamente documentata e, pertanto, andava vagliata nel prosieguo in sede di valutazione nel merito della questione. Il
tribunale del riesame ha infine ritenuto sussistente il periculum in mora.
L’indagato, a mezzo dell’avv. Giuseppe Stellato, propone ricorso per cassazione deducendo:
1) Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 323
c.p., 44 lett. c) D.p.r. 380/01, nonché 321 c.p.p. e 649 c.p.p. — Improcedibilità
per precedente giudicato. Osserva che il tribunale rileva il fumus del reato da
una informativa del 27 dicembre 2012 e segnatamente da un provvedimento di
annullamento in autotutela del detto permesso di costruire che sarebbe stato
emesso dal comune di Orta di Atella in data 4/12/2009. Sennonché, la detta informativa del 27 dicembre 2012 che pur richiama un provvedimento di annullamento, fa riferimento al permesso di costruire n. 70 del 2011 riferito, però, ad
altro soggetto, mentre, come risulta da una allegata certificazione del comune,
in riferimento al permesso di costruire n. 56 del 25/05/06 ed alle successive varianti, non risulta ad oggi emesso nessun provvedimento di annullamento. Il tribunale del riesame, quindi, ha fondato il fumus del reato su un provvedimento

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di fatto inesistente.
Il tribunale afferma poi che l’illegittimità risiede nel fatto che l’intervento
edilizio relativo al complesso immobiliare di tipo commerciale, ricadendo in
zona D3 del vigente prg, doveva essere sottoposta a preventivo piano di insediamento produttivo, sulla scorta di quanto statuito con delibera di Consiglio
comunale del 4 febbraio del 2000: pertanto, atteso che il P.I.P. pur essendo stato
approvato, non era operativo, l’intervento edilizio non poteva essere materialmente realizzato. Sennonché, il P.I.P. approvato con delibera di Consiglio comunale del 4 febbraio del 2000 non interessa affatto la zona D3 in cui ricade il
lotto oggetto di intervento da parte del Comunale. Ciò era stato evidenziato nella consulenza di parte allegata in sede di riesame, dalla quale emerge in maniera
chiara che la zona P.I.P. è riferita alle zone Dl-D2 e non già al lotto di proprietà
comunale, ricadente in zona D3. La difesa aveva anche allegato certificazione
del comune. Ma su tale eccezione si registra una totale assenza di motivazione.
Il tribunale sostiene poi che anche il permesso di costruire per il cambio di
destinazione d’uso da uffici in locali residenziali, rilasciato ai sensi delle L. reg.
19/2009 e 1/2011, (“piano casa”), sarebbe illegittimo in quanto la cubatura realizzata sarebbe superiore a quella massima ammissibile di 10.000 mc: in sostanza, risultando la volumetria complessiva di 10.744 me, superiore, ai 10.000 mc,
la variante non poteva essere rilasciata. Sennonché, anche su tale aspetto, la relazione tecnica allegata in sede di riesame aveva evidenziato come la volumetria massima ammissibile dovesse essere valutata in relazione alla cubatura
utile e non già alla cubatura complessiva, comprendente, cioè anche i c.d. volumi tecnici. Anche su tale aspetto il tribunale ha omesso qualsiasi valutazione,
limitandosi ad affermare che tale aspetto sarebbe stato da valutare nella successiva fase processuale. Al contrario, il problema riguardava l’interpretazione delle norme regolanti la materia.
Ha poi aggiunto il tribunale che, in ogni caso, si verterebbe anche in tema
di lottizzazione abusiva: il che consentirebbe di superare pure qualsiasi doglianza in punto di giudicato, eccepito dalla difesa in relazione a precedente
sentenza che aveva prosciolto esso Comunale in relazione al medesimo permesso di costruire, atteso che la proiezione normativa del reato edilizio (oggetto di
decisione) avrebbe riguardato una ipotesi di art. 44 lett. b) (illegittimità del
permesso di costruire) e non già una ipotesi di lottizzazione abusiva.
Osserva quindi il ricorrente, quanto al precedente giudicato, che la difesa
aveva sostenuto la improcedibilità della domanda giudiziale e della conseguente
contestazione dal momento che per gli stessi fatti era stata già esercitata l’azione
penale ed il relativo procedimento si era concluso con la sentenza n. 2523/10
Reg. sent. del Gip del Tribunale di S. Maria C.V. che aveva prosciolto, fra gli
altri, anche Comunale Tommaso, attuale ricorrente, per il delitto di abuso in atti
d’ufficio, perché il fatto non costituisce reato, e, per il reato di cui all’art. 44 lett.
b, perché il fatto non sussiste. Il tribunale ha erroneamente escluso
l’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., dal momento che la preclusione
processuale opera in relazione al fatto e non alla sua qualificazione giuridica.
Nella specie, invece, il giudicato viene escluso in quanto le condotte avrebbero
avuto, tra precedente procedimento ed attuale, una diversa qualificazione giuri-

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dica. In entrambi i procedimenti è stato ipotizzato un abuso in atti di ufficio (cui
accede il reato edilizio), proprio in relazione al permesso di costruire n. 56/06
che è lo stesso titolo edilizio posto a fondamento della contestazione attuale.
Almeno per il reato di abuso in atti d’ufficio vi è una preclusione processuale
tecnicamente non superabile. Ciò vale anche per il reato urbanistico, in quanto
entrambe le contestazioni individuano come oggetto della condotta la illegittima realizzazione del fabbricato perché frutto di un permesso di costruire illegittimo e dunque da considerarsi mai emesso. Anche la lottizzazione abusiva non è
presa in considerazione di per sé, ma è una proiezione ulteriore della mancanza
del permesso di costruire. Il fatto storico contestato è perciò sempre quello afferente alla illegittimità del titolo edilizio (permesso di costruire 56/06) già giudicata. E’ quindi evidente che i fatti cui all’attuale procedimento sono stati già
giudicati nel precedente definitosi con la sentenza di proscioglimento, peraltro,
ormai irrevocabile.
Per quanto concerne il fumus del reato, il ricorrente osserva che erroneamente il tribunale del riesame individua i limiti della sua verifica nella sussistenza nella mera parametrazione tra l’astratta configurabilità della fattispecie e
la generica verifica della prospettazione accusatoria. Invero, la verifica del fumus — pur non potendo raggiungere la consistenza della verifica della gravità
indiziaria — deve comunque parametrarsi ad un fatto la cui oggettiva sussistenza non può essere revocata in dubbio. Il tribunale non può limitarsi a verificare se il fatto prospettato sia configurabile come reato, ma deve procedere ad
una verifica concreta e sostanziale del fatto per poi parametrarlo alla fattispecie
astratta. Nella specie il tribunale del riesame ha omesso di valutare e di motivare in ordine alle questioni, specificamente prospettate dalla difesa, relative alla
ritenuta erronea esistenza di un provvedimento di annullamento in autotutela;
alla errata individuazione della zonizzazione in cui ricade il lotto di intervento;
alla conseguente errata valutazione sulla previa necessità di un P.I.P. per procedere all’intervento; alla mancata valutazione dei criteri tesi ad individuare la effettività della volumetria valutabile ai fini della applicazione della Leggi regionali n. 19/09 ed 1/11.
2) Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 44 lett.
c) c.p.p., nonché in relazione all’art. 323 c.p. Lamenta che il Gip e il tribunale
del riesame omettono qualsiasi concreta motivazione sulla concreta individuazione del reato di lottizzazione abusiva, recuperando la sussistenza della lottizzazione dalla inesistenza del titolo originario, ritenuto illegittimo e dunque inesistente. Il titolo edilizio in ipotesi sussistente è rappresentato dal permesso di
costruire originario n. 56/06 e dalla successiva autorizzazione in base alla normativa sul piano casa. Osserva, che la macroscopica illegittimità del permesso
n. 56/06 va esclusa in radice, essendo sufficiente richiamare la citata’ sentenza
assolutoria del Gip di S. Maria C.V. in data 11 novembre 2010, la quale esclude la macroscopicità o chiara evidenza di illegittimità. Ed allora, escluso il fumus del reato di cui all’art. 323 cod. pen., la valutazione di illegittimità doveva
essere superata proprio per la impossibilità di individuare anche lo schema astratto dell’illecito urbanistico-edilizio, in assenza di elementi su cui fondare
collusioni tra privato e p.a. Considerato poi che la stessa lottizzazione abusiva

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viene ritenuta anch’essa una conseguenza della illegittimità del precedente titolo
edilizio, una volta esclusa quest’ultima, non poteva configurarsi alcuna lottizzazione abusiva.
In ogni caso, la condotta come ritenuta non integra il reato di cui all’art.
44, lett. c), d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380. Secondo il capo di imputazione ricorrerebbe la lettera c) del citato art. 44 perché l’immobile sarebbe stato costruito
senza preventiva lottizzazione e senza permesso di costruire. Sennonché l’intervento del Comunale è avvenuto in zona D3, nella quale era ed è possibile costruire anche senza un previo piano per gli insediamenti produttivi. Quand’anche si volesse ritenere il titolo edilizio affetto da illegittimità macroscopica tale
da poterne comportare la giuridica inesistenza, la condotta del Comunale sarebbe niente più e niente meno che la condotta di realizzazione di un immobile abusivo, in quanto tale ricadente nella previsione di cui all’art. 44 lett. b) D.p.r.
380/01 e mai in quella di cui alla lettera c) (ed in relazione alla quale vi e giudicato). In sostanza non risulta nemmeno astrattamente configurabile il reato di
lottizzazione abusiva in quanto per un verso l’immobile ricade in zona in cui è
consentito intervento diretto e, per l’altro, l’immobile realizzato non è stato oggetto di divisioni o alterazioni rispetto a quanto autorizzato ed in ogni caso
rappresenta un intervento edilizio unitario e non già una lottizzazione a fini edificatori. Manca, cioè, di quest’ultima l’elemento materiale, non avendo mai
l’intervento avuto ad oggetto frazionamenti o divisioni di una struttura unitaria
(e ciò sia dal punto di vista materiale che negoziale).
3) Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 321
c.p.p.. Mancanza di motivazione sul periculum in mora. Ricorda che il tribunale
del riesame ha ritenuto che la permanenza della struttura, in assenza di sequestro, avrebbe determinato un aggravamento delle conseguenze del reato, pure
essendo cessata la condotta criminosa; in particolare, l’uso ed il godimento del
bene rappresenterebbero prosecuzione del reato stesso. Osserva che nella specie
l’immobile è stato realizzato conformemente allo strumento urbanistico. Il bene
fu già oggetto di restituzione nel novembre del 2010 e non vi sono elementi su
cui fondare un ulteriore aggravamento delle conseguenze del reato. Anche il
mutamento di destinazione d’uso non incide sulla volumetria che è lo strumento
attraverso il quale viene parametrata l’incidenza del carico urbanistico.
Motivi della decisione
Il ricorso va accolto per le ragioni che seguono.
L’ordinanza impugnata si basa su una premessa erronea, ossia sull’assunto
che nel giudizio di riesame il controllo del giudice sarebbe limitato alla verifica
della astratta conformità del provvedimento alle norme che ne impongono o ne
consentono l’emissione e della ricorrenza delle esigenze preventive previste dalla legge, e non anche della fondatezza dell’imputazione, che è invece oggetto
del procedimento principale, salvo il caso della palese difformità tra fattispecie
reale e fattispecie legale. In altri termini, la verifica dell’antigiuridicità penale
del fatto andrebbe compiuta su un piano di astrattezza, nel senso che essa non
potrebbe investire la sussistenza in concreto dell’ipotesi criminosa, ma dovrebbe
essere limitata alla configurabilità del fatto come reato. La sussistenza del fumus quindi andrebbe accertata solo sotto il profilo della congruità degli elemen-

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ti rappresentati, che non potrebbero essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che andrebbero
valutati così come proposti dal pubblico ministero. Ora, questo principio, che
pure a volte in passato era stato affermato da una parte della giurisprudenza di
questa Corte (sulla base di una incompleta considerazione del reale contenuto
motivazionale della sentenza delle Sez. Un., 29.1.1997, n. 23) è ormai da tempo disatteso dalla giurisprudenza più recente, alla quale questo Collegio aderisce, secondo cui il tribunale del riesame, per espletare il ruolo di garanzia dei
diritti costituzionalmente tutelati che la legge gli demanda, non può avere riguardo solo alla astratta configurabilità del reato, ma deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e
quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche
le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza
sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato contestato (cfr., ex
plurimis, Sez. I, 9 dicembre 2003, n. 1885/04, Cantoni, m. 227498; Sez. IV,
29.1.2007, 10979, Veronese, m. 236193; Sez. V, 15.7.2008, n. 37695, Cecchi,
m. 241632; Sez. I, 11.5.2007, n. 21736, Citarella, m. 236474; Sez. IV,
21.5.2008, n. 23944, Di Fulvio, m. 240521; Sez. II, 2.10.2008, n. 2808/09, Bedino, m. 242650).
E difatti si è plurime volte affermato che: «Il sequestro preventivo può essere disposto in quanto sia ravvisabile l’esistenza di un reato: è dunque compito del giudice valutare, non solo l’astratta sussumibilità del fatto in una fattispecie penale, ma anche se sia ravvisabile il “fumus” del reato ipotizzato, tenendo conto sia degli elementi forniti dall’accusa che delle argomentazioni difensive. Ne consegue che la motivazione del provvedimento deve dar conto anche delle ragioni per le quali il fatto integra il reato contestato, posto che
quest’ultimo è antecedente logico e necessario del provvedimento cautelare»
(Sez. II, 23.3.2006, Cappello, m. 234197); «Nella verifica dei presupposti per
l’emanazione del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma primo, cod.
proc. pen., il giudice del riesame non può avere riguardo alla sola astratta
configurabilità del reato, ma, valutando il “fumus commissi delicti”, deve tenere conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e
dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, non occorrendo la sussistenza d’indizi di colpevolezza o la loro gravità, ma solo elementi
concreti conferenti nel senso della sussistenza del reato ipotizzato» (cfr. Sez. V,
15.7.2008, n. 37695, Cecchi Gori, m. 241632; Sez. IV, 29.1.2007, n. 10979,
Veronese, m. 236193; Sez. I, 19.12.2003, n. 1885, Cantoni, m. 227498; v. Corte
cost. ord. n. 153 del 2007).
Questo indirizzo viene ormai seguito dalla giurisprudenza assolutamente
prevalente, anche in materia edilizia e urbanistica, affermandosi che: «il tribunale del riesame, nel verificare i presupposti per l’adozione di una misura cautelare reale, non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma deve valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma
anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del “fumus” del reato contesta-

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to. (Nella specie, relativa ad esercizio di attività di cava in zona vincolata, il
tribunale si era limitato a prendere atto della mancanza di autorizzazione paesaggistica senza considerare se, nel caso di specie, la stessa, come sostenuto
dalla difesa, non fosse richiesta).» (Sez. III, 11.3.2010, n. 18532, D’Orazio, m.
247103); «Nella valutazione del “fumus commissi delicti” quale presupposto
del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma primo, cod. proc. pen., il
giudice del riesame non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità
del reato, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti
dalle parti, indicando, sia pure sommariamente, le ragioni che rendono allo
stato sostenibile l’impostazione accusatoria. (In applicazione di tale principio
la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza che, confermando il sequestro
preventivo di immobile per il reato di lottizzazione abusiva, aveva fatto generico richiamo alla consulenza tecnica del P.M e agli altri atti di polizia giudiziaria senza alcun riferimento ai contenuti e alle ragioni della loro prevalenza sui
rilievi di carattere difensivo). (Conf. Cass., sez. III, n. 26198 del 2010, non
massimata)» (Sez. III, 5.5.2010, n. 26197, Bressan, m. 247694); «Il tribunale
del riesame, nel verificare i presupposti per l’adozione di una misura cautelare
reale, non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma
deve valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e
quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche
le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza
sulla configurabilità e sulla sussistenza del “fumus” del reato contestato. (Nella
specie, relativa ad abuso edilizio, il Tribunale si era limitato ad affermare la
non manifesta totale infondatezza della interpretazione delle norme rilevanti
operata dal P.M)» (Sez. III, 20.5.2010, n. 27715, Barbano, m. 258134). In senso conforme: Sez. V, 26.1.2010, n. 18078, De Stefani, m. 247134; Sez. IV,
14.3.2012, n. 15448, Vecchione, m. 253508.
Nella specie, invece, il tribunale del riesame, fondandosi sull’erroneo presupposto, ha appunto omesso di considerare e valutare le tesi della difesa e la
documentazione prodotta a loro sostegno, con ciò eludendo il suo compito istituzionale di controllo «in concreto» del provvedimento impugnato. Ciò integra,
in sostanza, un rifiuto di provvedere, derivante da una erronea interpretazione
delle proprie funzioni, e comunque una violazione dell’obbligo di motivazione
(cfr. Sez. II, 22.5.1997, n. 3513, Acampora, m. 208078).
Nel caso in esame, la mancanza di motivazione della ordinanza impugnata
riguarda diverse circostanze e questioni prospettate dalla difesa.
Ti tribunale del riesame ha, in primo luogo, ricavato il fumus del reato da
una informativa del 27 dicembre 2012, che richiama un provvedimento di annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 56/2006, che sarebbe stato
emesso dal comune di Orta di Atella in data 4/12/2009. La difesa ha eccepito
che detta informativa richiama sì un provvedimento di annullamento, ma si riferisce al permesso di costruire n. 70/2011, riguardante altro soggetto e richiama
una certificazione del responsabile del Comune di Orta di Atella, che attesterebbe che in riferimento al permesso di costruire n. 56 del 25/05/06 ed alle successive varianti, non risulterebbe emesso da parte del comune nessun provve-

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dimento di annullamento. Il punto non è stato esaminato dalla ordinanza impugnata, la quale, quindi, se l’eccezione fosse esatta, avrebbe basato il fumus del
reato anche su un elemento inesistente.
L’ordinanza impugnata osserva anche che l’illegittimità del provvedimento deriva altresì dal fatto che si tratta di un intervento edilizio relativo ad un
complesso immobiliare di tipo commerciale, il quale, ricadendo in zona D3 del
vigente PRG, doveva essere sottoposto a preventivo piano di insediamento produttivo, sulla scorta di quanto statuito con delibera di Consiglio comunale del 4
febbraio del 2000. E poiché il P.I.P., pur essendo stato approvato, non era operativo, l’intervento edilizio non poteva essere materialmente realizzato. Ora la
difesa ricorda che in sede di riesame aveva depositato consulenza di parte da
cui invece emergerebbe che il P.I.P. approvato con delibera di Consiglio comunale del 4 febbraio del 2000 non riguarderebbe la zona D3 in cui ricade il lotto
oggetto dell’intervento in questione, bensì riguarderebbe le zone D 1 -D2. La difesa deduce che sul punto aveva allegato certificazione del comune di Orta di
Atella che attesterebbe che il provvedimento approvato con la delibera n. 3 del
4 febbraio 2000 riguardava le sole aree D1 e D2, per cui non si estendeva alle
aree classificate come D3. Anche questa eccezione non è stata presa in esame
dalla ordinanza impugnata, che non contiene alcuna motivazione sul punto.
Vi è sostanzialmente totale mancanza di motivazione anche su una questione decisiva sollevata dalla difesa. Secondo l’accusa anche il permesso di costruire per il cambio di destinazione d’uso da uffici in locali residenziali, rilasciato ai sensi delle L. reg. 19/2009 e 1/2011 (“piano casa”), sarebbe illegittimo
in quanto la cubatura realizzata sarebbe superiore a quella massima ammissibile
di 10.000 mc., come previsto dall’art. 7, comma 4, della citata 1. reg. 19/2009.
In sostanza, secondo la prospettazione accusatoria, poiché la volumetria complessiva era di 10.744 mc., quindi superiore ai 10.000 mc, la variante non poteva essere rilasciata.
La difesa, dinanzi al tribunale del riesame, aveva eccepito l’erroneità di
questa conclusone evidenziando, anche sulla base della propria relazione tecnica, che la volumetria massima ammissibile avrebbe dovuto essere valutata in relazione alla cubatura utile e non già alla cubatura complessiva, comprendente
cioè anche i c.d. volumi tecnici. In particolare la difesa aveva, con ampia argomentazione, eccepito che la individuazione dei volumi complessivi dell’immobile oggetto del permesso di costruire n. 56/06 si ricavava dagli allegati progettuali, dai quali emergeva che il volume complessivo, compresi i volumi tecnici
(scale, pianerottoli, sottotetti , etc..) è di 10.744 mc, mentre i volumi direttamente destinati ad uso abitativo ammontano complessivamente a 9.870 mc. Secondo il ricorrente questa interpretazione, oltre che a corrispondere ai criteri
normalmente utilizzati in materia urbanistica – secondo cui si deve far riferimento ai volumi effettivi, con esclusione dei volumi c.d. tecnici — era anche
conforme agli specifici riferimenti normativi, in considerazione delle finalità
del contesto normativo noto come piano casa, finalizzato a rilanciare l’economia
nazionale attraverso il ricorso all’edilizia. Quindi, secondo la difesa, tenuto conto che la normativa consente la conversione di volumi utilizzabili, e tenuto
conto ancora che trattasi di normativa in deroga, si dovrebbe ritenere che il

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computo volumetrico abbia come parametro di riferimento quei volumi che,
nella loro concreta utilizzazione, verranno ad assumere la destinazione residenziale; con la conseguenza che nella specie non sarebbe ravvisabile alcuna violazione della normativa regionale.
Si tratta, come è evidente, di questione idonea ad avere rilievo decisivo ai
fini della sussistenza del fumus del reato ipotizzato. Del resto, la questione potrebbe essere rilevante anche al fine della valutazione della sussistenza o meno
del dolo, ai sensi dell’art. 47 cod. pen., qualora effettivamente vi fosse stata una
erronea interpretazione.
Anche questa eccezione non è stata esaminata dal tribunale del riesame —
neppure sotto il profilo della interpretazione del criterio normativo — il quale ha
omesso qualsiasi valutazione sul punto, limitandosi ad affermare che «tale aspetto non appare adeguatamente documentato e, pertanto, andrà vagliato nel
prosieguo in sede di valutazione nel merito della questione, valutazione, allo
stato, preclusa al giudizio di questo tribunale». Si tratta di motivazione meramente apparente e di stile, e comunque erronea perché il compito di garanzia
del tribunale del riesame era appunto quello di esaminare la specifica eccezione
della difesa anche sotto il profilo della adeguata documentazione
dell’eccezione, oltre che comunque quello di valutare la correttezza del criterio
di misurazione posto a base della prospettazione accusatoria.
La motivazione appare mancante e comunque erronea anche in ordine alla
eccezione di giudicato. La difesa aveva sostenuto la improcedibilità della contestazione dal momento che per gli stessi fatti era stata già esercitata l’azione penale ed il relativo procedimento si era concluso con la sentenza n. 2523/10 del
Gip del tribunale di S. Maria C.V. che aveva prosciolto, fra gli altri, anche Comunale Tommaso per il delitto di abuso in atti d’ufficio, perché il fatto non costituisce reato, e, per il reato di cui all’art. 44. lett. b), perché il fatto non sussiste. Il tribunale del riesame ha escluso l’applicazione dell’art. 649 cod. proc.
pen. per la ragione che «non può ritenersi che i fatti oggetto della contestazione
odierna siano già stati valutati nella vicenda giudiziaria invocata dalla difesa,
atteso che.., la stessa attiene a fatti diversi temporalmente e giuridicamente,
perché concernente condotte realizzate fino al 2008 e limitate ad ipotesi di cui
all’art. 44, lett. b) D.P.R. 380/01, da cui ben si discostano le odierne vicende che
riguardano l’aver realizzato una vera e propria lottizzazione materiale in assenza
delle necessarie autorizzazioni». Anche questa motivazione appare carente perché non consente di comprendere quale sia la differenza tra i fatti oggetto del
precedente giudizio e quello oggetto di questo giudizio, e comunque non risponde alle specifiche eccezioni della difesa che aveva sostenuto trattarsi invece degli stessi fatti.
Va invero ricordato che la preclusione processuale opera in relazione al
fatto e non alla sua qualificazione giuridica. Secondo la costante giurisprudenza «Ai fini della preclusione connessa al principio del “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo
e di persona» (Sez. IV, 6.12.2012, n. 4102 del 2013, Guastella, m. 255078; Sez.

,

- io V, 1.7.2010, n. 28548, Carbognani, m. 247895; Sez. II, 18.4.2008, n. 21035,
Agate, m. 240106; Sez. IV, 20.2.2006, n. 15578, Mele, m. 233959; nonché Sez.
Un., 28.6.2005, n. 34655, Donati, m. 231799, la quale ha ritenuto sussistente la
preclusione considerando che nella specie «la sfasatura delle imputazioni dipendesse da una differente qualificazione giuridica del titolo di imputazione
della responsabilità, e non dall’individuazione di fattispecie ontologicamente
autonome per una diversità delle rispettive componenti strutturali»).
Il ricorrente lamenta ora che l’ordinanza impugnata ha invece escluso la
preclusione soltanto per la diversa qualificazione giuridica dei fatti, che invece
sarebbero i medesimi per come risulta dalle contestazioni dei due diversi procedimenti.
Osserva che, infatti, in entrambi i procedimenti si ipotizza un abuso in atti
di ufficio (cui accede il reato edilizio), proprio in relazione al permesso di costruire n. 56/06 che è lo stesso titolo edilizio posto a fondamento della contestazione attuale. Vi sarebbe quindi una evidente preclusione processuale, sicuramente per il reato di abuso in atti d’ufficio, che in entrambe le procedure riguarderebbe violazioni normative che avrebbero avuto incidenza sul permesso di
costruire n. 56/06. Sostiene poi che la preclusione sussiste anche per la contestazione del reato edilizio-urbanistico, in quanto entrambe le contestazioni individuano come oggetto della condotta la illegittima realizzazione del fabbricato
perché frutto di un permesso di costruire illegittimo, e dunque «da considerarsi
mai emesso». La lottizzazione abusiva, quindi, è presa in considerazione come
una conseguenza della inesistenza, conseguente alla illegittimità, del permesso
di costruire originario.
Ora, effettivamente, data la già rilevata carenza di motivazione sul punto,
non è chiaro quale sia lo spazio autonomo della lottizzazione abusiva rispetto
alla illegittimità del titolo, sicché non è chiaro perché il fatto storico, oggetto di
contestazione e che regge l’ipotesi del reato urbanistico, sarebbe differente da
quello — già giudicato — afferente alla illegittimità del permesso di costruire n.
56/2006.
Inoltre, giustamente il ricorrente lamenta che, anche ai fini del fumus del
reato di cui all’art. 323 cod. pen., manca la motivazione sulle ragioni per le quali l’illegittimità del permesso di costruire n. 56/2006 dovrebbe considerarsi macroscopica, dopo essere stata invece esclusa dalla sentenza assolutoria del Gip
di Santa Maria Capua Vetere dell’11.11.2010; il che comunque potrebbe rilevare qualora fosse fondata l’eccezione che nella zona D3 era possibile l’intervento
diretto anche senza un previo piano per gli insediamenti produttivi.
Infine, va rilevata la carenza di motivazione anche in relazione al periculum in mora. L’ordinanza impugnata dà atto che la condotta criminosa è ormai
cessata e che il contestato reato di lottizzazione abusiva è consumato. Sostiene
però che il sequestro preventivo sarebbe giustificato anche dalla necessità di
impedire ulteriori condotte lottizzatorie sul piano negoziale, senza però specificate se vi siano appartamenti rimasti ancora invenduti o se tutti gli immobili
siano stati già venduti, nel qual caso non si comprende come ulteriori cessioni
possano configurare ulteriori condotte lottizzatorie rispetto ad un reato consumato (cfr. Sez. III, 29.9.2009, n. 42178, Spini, m. 245171).

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In conclusione, l’ordinanza impugnata deve essere annullata per carenza di
motivazione con rinvio al tribunale di Santa Maria Capua Vetere per nuovo esame.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, 1’11
marzo 2014.

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