Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19548 del 09/01/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 19548 Anno 2015
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: MICCOLI GRAZIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MERODI NUNZIO N. IL 10/06/1958
avverso la sentenza n. 3057/2010 CORTE APPELLO di MILANO, del
09/10/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 09/01/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GRAZIA MICCOLI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 09/01/2015

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. Enrico DELEHAYE, ha concluso
chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano in data 9 ottobre 2013 ha
confermato la pronunzia di primo grado del Tribunale di Pavia con la quale Nunzio MERODI era
stato condannato per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, commesso in qualità di

2. Ha proposto ricorso l’imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, deducendo due
motivi.
2.1. Con il primo motivo è stato dedotto il vizio di motivazione in relazione alla
valutazione del nesso di causalità. La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che la
bancarotta è un reato di evento e che non v’è prova che i fatti di distrazione ascritti abbiano
causato lo stato di insolvenza da cui è conseguito lo stato di insolvenza.
2.2. Con il secondo motivo è stato dedotto il vizio di motivazione in relazione
all’elemento soggettivo del dolo.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, di conseguenza, non è meritevole di accoglimento.

1. Errata è la tesi sostenuta dal ricorrente con il primo motivo.
La giurisprudenza di questa Corte si è da tempo orientata nell’affermare che nel reato di
bancarotta fraudolenta «i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di
fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi
anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di
insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte
che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori:
per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta
dell’autore e il dissesto dell’impresa, sicché né la previsione dell’insolvenza come effetto
necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, né la percezione della sua preesistenza
nel momento del compimento dell’atto, possono essere condizioni essenziali ai fini
dell’antigiuridicità penale della condotta». Si è rilevato che «quando il legislatore ha
ritenuto necessaria l’esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell’ambito della
legge fallimentare, all’art. 223, distinguendo le condotte previste dall’art. 216 (legge fall., art.
223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società
(legge fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è
previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento» (Sez. 5, n. 39546 del
15/07/2008, Bonaldo).
Ancor più analiticamente, gli stessi principi risultano ribaditi quando si è rilevato che «il delitto
di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo, ed è pertanto irrilevante che al
momento della consumazione l’agente non avesse consapevolezza dello stato d’insolvenza
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legale rappresentante della MEPI s.r.I., dichiarata fallita in data 14 giugno 2006.

dell’impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato». Si è segnalato che «il reato di
bancarotta fraudolenta patrimoniale non richiede il dolo specifico, ma si perfeziona con il dolo
generico, ossia con la consapevolezza di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da
quella di garanzia delle obbligazioni contratte», precisandosi che non può intendersi rilevante
la circostanza che all’epoca della distrazione non si fosse ancora manifestato uno stato
d’insolvenza: «infatti, ad integrare il reato non è richiesta la conoscenza dello stato
d’insolvenza dell’impresa, in quanto ogni atto distrattivo viene ad assumere rilevanza ai sensi
della legge fall., art. 216, in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di

del dissesto all’epoca dei fatti, così implicitamente evocandosi la teoria cd. della “zona di
rischio penale” […], ugualmente deve essere disattesa in quanto, per la speciale
configurazione del precetto, la protezione penale degli interessi creditori è assicurata mediante
la sua connotazione di reato di pericolo. L’offesa penalmente rilevante è conseguente anche
all’esposizione dell’interesse protetto alla probabilità di lesione, onde la penale responsabilità
sussiste non soltanto in presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella situazione di
messa in pericolo dei loro interessi. Conseguentemente, il delitto di bancarotta non impone
contestualità tra l’azione antidoverosa ed il pregiudizio derivante dalla stessa, ma ammette
anche uno sfasamento temporale, se esso non elide il portato dannoso dell’azione: sicché la
tutela penale dispiega la sua efficacia retroattivamente, risalendo a ritroso, a far data dalla
dichiarazione di fallimento, ricapitolando ogni passaggio della gestione dell’impresa fallita nel
pregiudizio che viene accertato al momento della dichiarazione di insolvenza con la verifica
delle passività gravanti sulla stessa» (Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv 251214).
L’orientamento ora illustrato risulta contraddetto da altra pronuncia di questa stessa Sezione,
richiamata anche nel ricorso in esame, secondo cui «nel reato di bancarotta fraudolenta per
distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del
reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la
condotta dell’agente e deve essere, altresì, sorretto all’elemento soggettivo del dolo» (Sez.
5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv 253493).
L’impianto motivazionale di questa sentenza muove dal presupposto che «non può da un lato
ritenersi che qualsiasi atto distrattivo sia di per sé reato, dall’altro che la punibilità sia
condizionata ad un evento» (la dichiarazione di fallimento, di cui viene diffusamente discussa
la natura all’interno della struttura della fattispecie incriminatrice), «che può sfuggire
totalmente al controllo dell’agente, e dunque ritorcersi a suo danno senza una
compartecipazione di natura soggettiva e, ancor peggio, senza che sia necessaria una qualche
forma di collegamento eziologico tra la condotta e il verificarsi del dissesto»; l’analisi viene
peraltro parametrata sulle peculiarità del caso allora sub judice, dove – a differenza delle varie
fattispecie concrete di cui alla precedente giurisprudenza, nelle quali «si trattava di episodi
distrattivi compiuti nel periodo immediatamente antecedente alla dichiarazione di fallimento,
che avevano impoverito l’impresa al punto da provocarne od aggravarne in modo irreversibile
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quest’ultimo. Qualora, poi, la deduzione debba intendersi rapportata alla asserita insussistenza

la crisi» – a quegli imputati era riferibile una amministrazione «priva di contiguità con il
fallimento, essendo stata seguita da altre gestioni totalmente estranee», con tanto di
amministrazione giudiziale ex art. 2409 cod. civ. medio tempore conclusasi «senza alcun
rilievo dell’amministratore su eventuali situazioni di insolvenza ed addirittura con una vendita
della società a terzi dietro corrispettivo».
Nella sentenza si evidenzia quindi che se il fallimento è «il risultato di un’azione
dell’imprenditore, da cui la legge (o, meglio, la giurisprudenza conforme) fa dipendere
l’esistenza stessa del delitto», lo stesso fallimento, «o meglio il suo presupposto di fatto, cioè

eventuale. Il soggetto, cioè, deve prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà
verosimilmente al dissesto (il cui risvolto è la lesione del diritto di credito, che costituisce
l’interesse principale protetto dalla norma penale) ed accettare tale rischio. Ogni diversa
soluzione in punto dolo costituisce una violazione dei principi generali di cui agli artt. 42 e 43
cod. pen., che costituiscono l’ossatura della responsabilità penale personale del nostro
ordinamento».
Ne deriverebbe l’opzione interpretativa secondo cui la bancarotta è un reato di evento e tale
evento consiste nella insolvenza della società, che trova riconoscimento formale e
giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento. Questa è la unica ricostruzione
strutturale del reato coerente con le premesse; il fallimento è elemento costitutivo dell’illecito
in qualità di evento e si pone quale conseguenza (esclusiva o concorrente) della condotta
distrattiva dell’imprenditore.
Con la richiamata pronuncia si avverte peraltro che «la tesi “secca” della non necessarietà
del rapporto di causalità tra la condotta dell’imprenditore e il fallimento (che si accompagna
alla ritenuta non necessarietà del dolo a copertura dell’insolvenza), porterebbe a conseguenze
assurde; da un lato non sarebbe punibile l’imprenditore che drena risorse enormi da una
società dotata di un patrimonio attivo considerevole, tale da permetterle di sfuggire al
fallimento, dall’altra sarebbe invece punito con la pesante sanzione di cui alla legge fall., art.
216, un imprenditore o un amministratore della società che moltissimi anni prima del
fallimento abbia prelevato indebitamente una modestissima somma di denaro (anche se
l’impresa ha poi operato in attivo e pagato regolarmente i propri creditori e sia poi caduta in
dissesto esclusivamente per le condotte spoliative di successivi amministratori) […]. Sarebbe
esente da responsabilità quell’imprenditore che, pur avendo causato il dissesto della sua
impresa con gravi atti di spoliazione, riuscisse ad ottenere il consenso dei creditori ad una
procedura di soluzione negoziale della crisi (salvo il concordato, per l’imprenditore collettivo),
mentre sarebbe penalmente sanzionato l’imprenditore che compie un atto di distrazione di
modesta entità e molto risalente nel tempo, se non incontra il favore dei creditori. E ciò anche
se il dissesto dell’impresa dipende esclusivamente da fattori esterni alla sua condotta, e cioè,
per esempio, da una congiuntura economica negativa o da circostanze comunque imprevedibili
o ancor più da condotte successive di altre persone».
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lo stato di insolvenza, deve essere dall’agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo

La giurisprudenza di questa Sezione, successiva alla citata sentenza n. 47502 del 24/09/2012,
ha aderito all’orientamento precedente, ritenendo che <> (Sez. 5, n. 232 del
09/10/2012, Sistro).
Questo collegio ritiene di condividere e ribadire la consolidata e “tradizionale” giurisprudenza,
anche in ragione delle indicazioni delle Sezioni Unite di questa Corte che, nell’analisi del reato
di bancarotta, hanno avallato <> (Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy).
Uno degli elementi fondamentali, per orientare la decisione nel senso indicato, si rinviene in
effetti nelle già ricordate divergenze strutturali tra la fattispecie disegnata dall’art. 216, legge
fall., e quella risultante dalle varie ipotesi previste dal successivo art. 223, comma secondo:
solo in queste ultime, infatti, il legislatore ha inteso conferire immediato rilievo a condotte che
cagionino il fallimento, ovvero cagionino o concorrano a cagionare il dissesto della società. Non
sembra pertanto che i pur pregevoli sforzi argomentativi contenuti nella sentenza Corvetta
riescano a superare il dato letterale: laddove il legislatore ha inteso individuare la necessità di
un nesso causale, prima ancora di una riferibilità psicologica, fra il comportamento del
soggetto attivo del reato ed il successivo dissesto, od il fallimento che ne sia derivato, ciò è
espressamente prescritto. Né pare possibile interpretare l’art. 223, comma secondo, legge fall.,
come una sorta di norma di chiusura, con funzioni interpretative dell’intero sistema
sanzionatorio: da un lato, si tratta di una previsione recentemente modificata (nel 2002), e
se si fosse avvertita l’esigenza di uniformare le varie previsioni incriminatrici in tema di
bancarotta (volendo intendere, come si sostiene nella richiamata sentenza, che <>) il legislatore ben avrebbe potuto porre mano anche al
precedente art. 216; dall’altro, se è vero che la lettura delle plurime ipotesi di rilievo penale di
cui alla legge fallimentare rende palesi alcuni difetti di coordinamento, è ancor più evidente
che non vi sarebbe necessità di reprimere la condotta di chi abbia “cagionato con dolo il

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tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento […]. Al riguardo vale la pena di rimarcare che

fallimento della società” (art. 223, comma secondo, n. 2) se già il primo comma dell’art. 223
venisse a sanzionare per le società commerciali condotte di distrazione ex art. 216, di cui
possa affermarsi la rilevanza penale soltanto qualora siano fattore causale del fallimento
medesimo.
Deve perciò ritenersi che, tornando ad esaminare il precetto normativo, la condotta sanzionata
dall’art. 216 legge fall. – e, per le società, dall’art. 223, comma 1 – non sia quella di avere
cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensì – assai prima – quella
di depauperamento dell’impresa, consistente nell’averne destinato le risorse ad impieghi

debbono perciò inerire alla deminutio patrimonii (semmai, occorre la consapevolezza che
quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio
dell’attività imprenditoriale): tanto basta per giungere all’affermazione del rilievo penale della
condotta, per sanzionare la quale è sì necessario il successivo fallimento, ma non già che
questo sia oggetto di rappresentazione e volontà – sia pure in termini di semplice accettazione
del rischio di una sua verificazione – da parte dell’autore.
Come efficacemente segnalato in una sentenza di questa Corte, <>
(Corte Cost., sentenza n. 146 del 27/06/1982).
La bancarotta fraudolenta patrimoniale è dunque, più propriamente, reato di pericolo concreto,
dove la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva soltanto nel momento in
cui interviene la dichiarazione di fallimento, condizione peraltro neppure indispensabile per
l’esercizio dell’azione penale o per l’adozione di provvedimenti

de libertate, ai sensi del

combinato disposto degli artt. 7 e 238 legge fall. Ed è per questo che rimane esente da pena il
soggetto che impoverisca una società di risorse enormi, quando questa può comunque
continuare a disporne di ben più rilevanti, idonee a fornire garanzia per le possibili pretese
creditorie: perché in quel caso, a differenza dell’ipotesi

dell’imprenditore che si renda

responsabile di una distrazione modesta (ma a fronte di un patrimonio suscettibile di risentirne
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estranei all’attività dell’impresa medesima. La rappresentazione e la volontà dell’agente

significativamente), il pericolo di un pregiudizio per i creditori non avrà assunto la concretezza
richiesta dal dato normativo.
Anche le indicazioni della giurisprudenza di legittimità in tema di c.d. “bancarotta riparata”
avvalorano la conclusione appena illustrata; vero è che in quegli interventi si è ritenuto che
«non integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il finanziamento concesso al
socio e da questi restituito in epoca anteriore al fallimento, in quanto la distrazione costitutiva
del delitto di bancarotta si ha solo quando la diminuzione della consistenza patrimoniale
comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre concretamente in pericolo

che il momento cui fare riferimento per verificare la consumazione dell’offesa è pur sempre
«quello della dichiarazione giudiziale di fallimento e non già quello in cui sia stato commesso
l’atto, in ipotesi, antidoveroso>> (Sez. 5, n. 39043 del 21/09/2007, Spitoni, Rv 238212; si
veda anche Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011, Cannavale).
In sostanza, l’imprenditore deve considerarsi sempre tenuto ad evitare l’assunzione di condotte
tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere
da comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che
comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione
dell’impresa.
Può quindi conclusivamente affermarsi che il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione
non richiede, come sostenuto dal ricorrente in questa sede, l’esistenza di un nesso causale tra i
fatti di distrazione ed il dissesto dell’impresa, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione
di fallimento, detti fatti assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e,
quindi, anche quando l’impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza (ex multis e tra
le più recenti, Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683; Sez. 5, n. 27993 del 12
febbraio 2013, Di Grandi e altri, Rv. 255567).

2.

Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, con il quale è stato dedotto il vizio di

motivazione sull’elemento soggettivo.
Emerge dalla sentenza impugnata che il ricorrente aveva rappresentato genericamente
nell’atto di appello il “difetto di prova sull’elemento soggettivo del reato, che potrebbe al più
identificarsi nella colpa per aver lasciato incustoditi alcuni beni presso i cantieri e per non aver
annotato diligentemente nelle scritture contabili i crediti incassati”. Su tali specifici rilievi la
Corte territoriale ha motivato, escludendo la configurabilità della mera colpa in relazione alle
condotte distrattive ascritte.
Peraltro, nel ricorso in esame erroneamente si sostiene che in caso di bancarotta per
distrazione debba essere accertata “la consapevolezza, in capo all’imputato, dell’effetto del
depauperamento del patrimonio sociale a danno della compagine dei creditori”.
Come si è già detto nel paragrafo che precede, l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta
fraudolenta è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è affatto necessaria la
consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai
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l’interesse protetto e cioè le ragioni della massa dei creditori», ma si è al contempo precisato

creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una
destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (ex multis, Sez. 5, n.
52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261348; Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Bergamaschi, Rv.
260407).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2015

Il consigliere estensore

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