Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19537 del 10/02/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 19537 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
– ATTARDI GIOVANNI, n. 5/08/1940 a GELA

avverso la sentenza della Corte d’appello di CALTANISSETTA in data
18/03/2014;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. E. Selvaggi, che ha chiesto annullarsi senza rinvio l’impugnata
sentenza in ordine sia alla pena pecuniaria sia all’ordine di demolizione, e
rigettarsi il ricorso, nel resto;

Data Udienza: 10/02/2015

RITENUTO IN FATTO

ATTARDI GIOVANNI ha proposto appello avverso la sentenza della Corte
d’appello di CALTANISSETTA emessa in data 18/03/2014, depositata in data
2/04/2014, che, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale di GELA
in data 13/12/2011, rideterminava la pena irrogata al medesimo, ritenuti i fatti

reato sub e) della rubrica (violazione di sigilli), in anni 3 e mesi 6 di reclusione,
ed C 450,00 di multa, ordinando la demolizione del manufatto abusivo, previo
dissequestro nel medesimo, con conferma nel resto dell’appellata sentenza che
lo aveva ritenuto responsabile, oltre del reato di violazione di sigilli di cui al capo
e), anche del reato di costruzione edilizia abusiva (capo a), nonché dei reati in
materia di conglomerato cementizio armato (capi b e c) e antisismici (capo d),
contestati come commessi in data 26/01, 31/01 e 6/04/2009.

2. Con il ricorso, proposto dal difensore fiduciario cassazionista, vengono dedotti
quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la
motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui alle lett. b) e c) dell’art. 606
c.p.p., in particolare per violazione e/o falsa applicazione della legge processuale
penale (segnatamente degli artt. 546 e 547 c.p.p.) per omessa declaratoria della
nullità della sentenza di primo grado per contrasto tra dispositivo e parte motiva
della decisione di primo grado, e conseguente violazione della legge penale
sostanziale in ordine alla pena prevista per l’art. 349 cod. pen.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per non aver la Corte
territoriale dichiarato la nullità della sentenza di primo grado per contrasto tra la
parte dispositiva e la motivazione; in particolare, il primo giudice, sostiene il
ricorrente, aveva irrogato la sola pena detentiva prevista per l’art. 349 cod.
pen.; nella motivazione, depositata non contestualmente al dispositivo, il giudice
aveva invece determinato la pena pecuniaria, irrogandola nella misura di C
900,00, oltre alla sanzione amministrativa accessoria della demolizione,
qualificando l’omissione come frutto di errore materiale; la Corte d’appello
avrebbe confermato la legittimità dell’integrazione “postuma”, ritenendo che si
trattasse di errore materiale del dispositivo rispetto al quale ben poteva
prevalere la motivazione; diversamente, si tratterebbe di nullità non emendabile
con la procedura ex art. 130 c.p.p., donde la richiesta di annullamento
dell’impugnata sentenza.
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allo stesso contestati come avvinti dalla continuazione, e considerato più grave il

in particolare per violazione e/o falsa applicazione della legge penale sostanziale
(segnatamente degli artt. 44, 64, 65, 71 e 72, d.P.R. n. 380 del 2001) nonché
vizio di travisamento del fatto, stante che la Corte territoriale avrebbe ritenuto
che l’opera oggetto di contestazione dovesse qualificarsi come ampliamento di
fabbricato, quanto, in verità, si traduceva nella realizzazione di un’opera
pertinenziale.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per non aver la Corte
territoriale correttamente valutato gli elementi emersi in sede istruttoria; in
particolare, sostiene il ricorrente che un manufatto di mq. 9, quale quello
oggetto di realizzazione, non potrebbe considerarsi come avente una sua
autonomia funzionale/strutturale, e, dunque, assentibile; si sarebbe trattato,
dunque, di una pertinenza, donde la non configurabilità degli illeciti penali
contestati.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui alla lett. e) dell’art. 606 c.p.p., in
particolare per mancanza di motivazione in ordine alla riconducibilità dei fatti
concretamente contestati all’imputato alle fattispecie astratte oggetto di
contestazione.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per non aver la Corte
territoriale motivato in ordine alle censure difensive di cui all’atto di appello
(necessità del permesso di costruire; natura sismica dell’area; insussistenza
degli elementi oggettivi e soggettivi del reato di violazione di sigilli).

2.4. Con un ultimo motivo, infine, il ricorrente eccepisce l’intervenuto decorso
del termine di prescrizione per tutti i reati ascritti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è parzialmente fondato per quanto si dirà oltre.

4. Ed invero, dev’essere ritenuto fondato il primo motivo di ricorso.
E’ pacifico infatti che il primo giudice, nel dispositivo della sentenza di condanna
per tutti i reati ascritti, ebbe ad irrogare la sola pena detentiva nella misura di
anni 4, mesi 6 di reclusione, determinando la pena base per il reato di violazione
di sigilli di cui al capo e) della rubrica, dopo aver applicato la continuazione
interna e unificato i reati contravvenzionali sotto il vincolo della continuazione;
accortosi dell’ “errore”, il tribunale, nel redigere la motivazione, ebbe ad
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2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui alla lett. b) dell’art. 606 c.p.p.,

integrare la pena, prevedendo anche quella pecuniaria, determinandola nella
misura finale di C 900,00 di multa, assumendo come pena base quella di C
600,00 di multa, aumentata nella predetta misura finale dopo aver applicato la
continuazione interna e unificato i reati contravvenzionali sotto il vincolo della
continuazione; nella motivazione, peraltro, il giudice di primo grado diede atto
che per “mero errore materiale” nel dispositivo della sentenza letta in udienza

accessoria della demolizione del manufatto in sequestro, previo dissequestro del
medesimo.
La Corte territoriale, a fronte dell’eccezione difensiva di nullità non potendo
qualificarsi detta omissione come emendabile con la procedura prevista dall’art.
130 cod. proc. pen., ebbe a respingerla ritenendo che la mancata indicazione in
dispositivo di talune statuizioni in ordine alla pena principale ed alla sanzione
accessoria non costituisca un’ipotesi di nullità della sentenza; a sostegno di tale
assunto, i giudici di appello richiamano una decisione di questa Corte (sentenza
n. 12920/2012, non massimata, né pertinente in relazione al principio di diritto
riportato nella motivazione), in realtà volendo sostenere — conformemente ad un
orientamento giurisprudenziale sostenuta da altre decisioni di questa Corte (V.,
tra le tante: Sez. 3, n. 19462 del 20/02/2013 – dep. 06/05/2013, Dong, Rv.
255478), che la regola generale secondo cui, in caso di difformità, il dispositivo
prevale sulla motivazione della sentenza incontra una deroga nel caso in cui
l’esame della motivazione stessa consenta di ricostruire chiaramente ed
inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice, sì da condurre alla
conclusione che la divergenza dipende da un errore materiale, obiettivamente
riconoscibile, contenuto nel dispositivo; in particolare, nel caso in esame, il
dispositivo conterrebbe un duplice errore materiale consistente nell’omessa
indicazione della pena pecuniaria (che avrebbe dovuto essere obbligatoriamente
calcolata ai fini della legalità della sanzione già fissata nei limiti edittali con pena
congiunta) nonché l’omessa indicazione dell’ordine di demolizione, sanzione
accessoria anch’essa obbligatoria. Poiché la motivazione della sentenza di primo
grado dava specifica contezza della decisione del giudice riguardo a tali pene, ciò
consentiva alla Corte territoriale di rettificare l’errore.

4.1. La soluzione giuridica dei giudici di appello non può essere condivisa.
Ed infatti, occorre anzitutto premettere che nell’economia della sentenza penale,
il dispositivo (elemento volitivo) è la parte che attua la volontà della legge del
caso concreto, mentre la motivazione (elemento logico) assume una funzione
meramente strumentale, correlata alla necessità di dare ragione dell’iter logico
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non era stata inserita la pena pecuniaria della multa nonché la sanzione

seguito dal giudice e serve soltanto alla interpretazione del dispositivo. Ne
consegue che il giudicato si forma limitatamente al dispositivo della sentenza
sicché ogni parte della motivazione, in qualunque affermazione si sostanzi, se
non trova la sua conclusione nel dispositivo, non è di per sé suscettibile di
conseguenze giuridiche (v., tra le tante: Sez. 6, n. 935 del 28/10/1988 – dep.
24/01/1989, Caprili, Rv. 180268). Logico corollario a tale principio, è che la

inconciliabilità fra le considerazioni logico-giuridiche in ordine a uno stesso fatto,
ma anche quando vi sia contraddizione tra motivazione e dispositivo. In
particolare, la sentenza deve ritenersi nulla per contraddittorietà quando la
natura della pena irrogata (detentiva) sia diversa da quella che risulti in base alla
motivazione (la pena detentiva, in aggiunta alla pecuniaria).
Non può, infatti, a giudizio del Collegio, ritenersi suscettibile di correzione con la
procedura prevista dall’art. 130 cod. proc. pen., l’omessa statuizione in
dispositivo della pena pecuniaria (prevista ex lege), in quanto la qualificata
“correzione” operata dal giudice si risolve in una modifica essenziale del
dispositivo. Già le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, chiarirono
inequivocabilmente che in tema di correzione degli errori materiali deve ritenersi
esclusa l’applicabilità dell’art. 130 cod. proc. pen., quando la correzione si risolve
nella modifica essenziale o nella sostituzione di una decisione già assunta.
L’errore, quale che sia la causa che possa averlo determinato, una volta divenuto
partecipe del processo formativo della volontà del giudice, non può che
diffondere i suoi effetti sulla decisione: ma questa, nella sua organica unità e
nelle sue essenziali componenti non può subire interventi correttivi, per quanto
ampio significato si voglia dare alla nozione di “errore materiale” suscettibile di
correzione. Viceversa sono sempre ammissibili gli interventi correttivi imposti
soltanto dalla necessità di armonizzare l’estrinsecazione formale della decisione
con il suo reale intangibile contenuto, proprio perché intrinsecamente incapaci di
incidere sulla decisione già assunta (Sez. U, n. 8 del 18/05/1994 – dep.
29/09/1994, Armati, Rv. 198543).
La coerente applicazione di tale principio, dunque, se esclude la nullità della
sentenza per l’omessa statuizione dell’ordine di demolizione (omissione in effetti
emendabile, secondo la prevalente e più recente giurisprudenza di questa Corte,
attraverso il ricorso alla procedura ex art. 130 cod. proc. pen.: v., tra le tante,
Sez. 3, n. 40340 del 27/05/2014 – dep. 30/09/2014, Bognanni, Rv. 260421;
contra, però, un meno recente orientamento, di cui è espressione, da ultimo,
Sez. 3, n. 4751 del 13/12/2007 – dep. 30/01/2008, Gabrielli e altro, Rv.
239070), non altrettanto può affermarsi con riferimento all’omessa statuizione
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sentenza deve considerarsi nulla per contraddittorietà, non solo quando vi sia

nel dispositivo della sentenza della pena “legale”, vale a dire di una pena che
preveda solo parzialmente la corretta irrogazione della pena principale (nella
specie, la sola pena detentiva e non anche quella pecuniaria, congiuntamente
prevista dall’art. 349 cod. pen.), omissione che i giudici hanno ritenuto
emendabile con la procedura della correzione ex art. 130 cod. proc. pen., così
attribuendo prevalenza alla motivazione sul dispositivo.

materiale ma di un errore di diritto, per definizione non emendabile con la
procedura prevista dall’art. 130 cod. proc. pen., in quanto la “rettificazione” della
pena nei termini indicati integra in realtà la violazione dell’art. 546, comma
terzo, cod. proc. pen. che, nell’indicare i requisiti della sentenza, prevede
espressamente che “Oltre che nel caso previsto dall’articolo 125 comma 3, la
sentenza è nulla se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il
dispositivo ovvero se manca la sottoscrizione del giudice”. In forza degli artt. 547
e 546, terzo comma, cod. proc. pen. la mancanza o la incompletezza del
dispositivo non può, infatti, essere oggetto della procedura di correzione di cui
all’art. 130 cod. proc. pen.; il tutto anche alla stregua di quest’ultima
disposizione, secondo la quale può procedersi a rettifica solo quando l’errore non
determini la nullità dell’atto (v., in termini: Sez. 6, n. 2760 del 08/10/1993 dep. 20/01/1994, Negro, Rv. 197718; Sez. 2, n. 20958 del 15/05/2012 – dep.
31/05/2012, P.G. in proc. Musumeci, Rv. 252837).
Ne consegue, dunque, che all’omissione della statuizione “parziale” della pena
non può supplirsi con la motivazione della sentenza, la quale adempie una
finalità meramente strumentale ed è improduttiva di conseguenze giuridiche se
non trova la sua conclusione nel dispositivo: ne deriva l’impossibilità di fare
ricorso alla procedura di correzione di cui all’art. 130 cod. proc. pen., riservata
esclusivamente alle ipotesi nelle quali l’errore non determini la nullità dell’atto.
Non è, dunque, applicabile al caso in esame quella giurisprudenza, evocata nella
motivazione dell’impugnata sentenza, che consente la prevalenza della
motivazione sul dispositivo, atteso che la stessa presuppone pur sempre che di
un errore “materiale” si tratti e non di un errore di diritto, come nel caso in
esame, emendabile solo con l’esercizio del potere di impugnazione della
sentenza, nella specie non esercitato dal Procuratore della Repubblica presso il
tribunale di Gela né dal Procuratore Generale presso la Corte d’appello di
Caltanissetta.
A ciò, peraltro, va aggiunto che in tema di determinazione di pena, ove il giudice
abbia inflitto una pena in contrasto con la previsione di legge ma in senso
favorevole all’imputato (come nel caso di specie, avendo il primo giudice inflitto
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Ed invero, osserva il Collegio, nel caso in esame non si è in presenza di un errore

con il dispositivo la sola pena detentiva e non anche quella pecuniaria), si
realizza un errore al quale la Corte di cassazione, in difetto di specifico motivo di
gravame da parte del P.M., non può porre riparo nè con le formalità di cui agli
artt. 130 e 619 cod. proc. pen., perché si versa in ipotesi di errore di giudizio e
non di errore materiale del computo aritmetico della pena, nè in osservanza
all’art. 1 cod. pen. ed in forza del compito istituzionale proprio della Corte di

possibilità di correggere in sede di legittimità la illegalità della pena, nella specie
o nella quantità, è limitata all’ipotesi in cui l’errore sia avvenuto a danno e non in
vantaggio dell’imputato, essendo anche in detta sede – come già in quella
d’appello, essendosi in effetti concretizzata con il decisum dei giudici nisseni la
violazione dell’art. 547 cod. proc. pen. – non superabile il limite del divieto della
“reformatio in peius” (Sez. 6, n. 49858 del 20/11/2013 – dep. 11/12/2013, G.,
Rv. 257672).
Deve, conclusivamente, essere affermato il seguente principio di diritto:
«Integra un errore di diritto e non un errore materiale, per definizione non
emendabile con la procedura prevista dall’art. 130 cod. proc. pen. né essendo
possibile ritenere prevalente la motivazione sul dispositivo, l’omessa statuizione
nel dispositivo della sentenza di una pena legale, in quanto la “rettificazione”
della pena operata in motivazione determina la violazione dell’art. 546, Gomma
terzo, cod. proc. pen. essendo incompleto nei suoi elementi essenziali il
dispositivo (Fattispecie nella quale la Corte d’appello, ritenuta prevalente la
motivazione sul dispositivo, aveva ritenuto legittimo il ragionamento del primo
giudice, il quale aveva indicato nella motivazione della sentenza la pena
pecuniaria della multa, la cui statuizione era stata invece omessa nel dispositivo
della sentenza, contenente l’irrogazione della sola pena detentiva della
reclusione, a fronte del reato di cui all’art. 349 cod. pen. che prevede la pena
congiunta)».

5. Dev’essere, invece, ritenuto infondato il secondo motivo.
Ed infatti, non può convenirsi con il ricorrente nel senso che quanto realizzato
non dovesse qualificarsi come ampliamento del fabbricato, essendo corretta la
valutazione dei giudici di merito che non potesse trattarsi di una pertinenza.
Premessa, anzitutto, la non deducibilità davanti a questa Corte dell’evocato vizio
di travisamento del fatto (v., ex multis: Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006 – dep.
06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235656), deve peraltro
evidenziarsi che, sul punto, la Corte territoriale (e già il primo giudice, la cui
motivazione, trattandosi di doppia conforme, integra quella d’appello) fornisce
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cassazione di correggere le deviazioni da tale disposizione, ciò in quanto la

ampia e convincente motivazione, sottolineando trattarsi di ampliamento del
preesistente fabbricato, come reso del resto palese dalla stessa prosecuzione dei
lavori, evidenziandosi in sentenza che i sigilli vennero violati per ben tre volte a
distanza ravvicinata con l’ovvio obiettivo di completare i lavori abusivi, con
conseguente e corretta esclusione della natura pertinenziale dei lavori eseguiti.
Non va, infatti, dimenticato che il T.U.edilizia, che prescrive il rilascio del

oltre che nuova costruzione od ampliamento di costruzione esistente,
modificazione della struttura di una costruzione preesistente, non distingue tra
opera esterna ed opera interna del fabbricato, tra lavoro di notevole entità e
lavoro di modeste dimensioni, giacchè qualunque modificazione dello stato di
fatto preesistente relativo ad opere edilizie già precedentemente realizzate è
subordinata alla valutazione del Sindaco ed al rilascio del relativo permesso di
costruire (nella specie la realizzazione dell’intervento edilizio – attuato mediante
pilastri in scatolare metallico, appoggiati al muro ovest di confine del lotto di
terreno con soprastante trave, anch’essa in scatolare metallico, su cui erano
state installate delle travi metalliche a doppia T che, sul lato est, erano inserite
nel muro perimetrale del primo piano già esistente, con completamento del
solaio di calpestio mediante mattoni laterizi-forati inseriti tra le predette travi -,
determinandone l’aggregazione ad un fabbricato preesistente, sì da costituire
ampliamento dello stesso, deve ritenersi modificativo della struttura del
fabbricato, soggetto a permesso di costruire).
Corretto, dunque, è il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte, operato dai
giudici di appello (Sez. 3, n. 20349 del 16/03/2010 – dep. 28/05/2010, Catania,
Rv. 247108), per escluderne la natura pertinenziale.
Il relativo motivo, dunque, dev’essere respinto.

6. Non miglior sorte merita, peraltro, il terzo motivo di ricorso.
Ed infatti, non è rilevabile l’omessa motivazione della Corte d’appello sulle
censure di cui all’atto di appello nei termini indicati; sulla deduzioni difensive,
infatti, v’è rigetto implicito da parte della Corte d’appello, atteso che dal
complesso della motivazione dell’impugnata sentenza (che, lo si ribadisce, va
integrata con quella di primo grado, attesa la natura di doppia conforme) si
evince che l’intervento edilizio, come eseguito, integrava compiutamente gli
estremi dei reati contravvenzionali e del delitto di violazione di sigilli. Le censure
sollevate nell’atto di appello, pertanto, apparivano all’evidenza inammissibili per
manifesta infondatezza.

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preventivo permesso di costruire per qualsiasi manufatto che possa costituire,

Ed è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di ricorso per
cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il
mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato (v.,
tra le tante: Sez. 4, n. 24973 del 17/04/2009 – dep. 16/06/2009, Ignone e altri,
Rv. 244227).

Rigettati quindi il secondo ed il terzo motivo, l’accoglimento parziale

dell’impugnazione, limitatamente al primo motivo, impone, tuttavia, a questa
Corte di rilevare l’intervenuto decorso del termine di prescrizione per tutti i reati
contravvenzionali (ma non per il reato di violazione di sigilli che si prescriverà
solo nel 2016), non essendo intervenute sospensioni rilevanti ex art. 159 cod.
pen. (nessuna sospensione è intervenuta in grado d’appello, essendosi definito il
processo nella sola udienza del 18/03/2014; analoga situazione è rilevabile nel
giudizio di primo grado, esauritosi in tre sole udienze — 17/03, 30/06 e
13/12/2011 — le prime due rinviate d’ufficio, non potendo dunque computarsi
agli effetti della sospensione il relativo decorso del tempo). Avuto riguardo al
termine quinquennale di prescrizione dei reati contravvenzionali, la prescrizione
è maturata interamente alla data del 6 aprile 2014, donde dev’essere
pronunciato l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza per essere tutti
i reati contravvenzionali estinti per prescrizione, comportando detta declaratoria
la revoca del disposto ordine di demolizione (Sez. 3, n. 8409 del 30/11/2006 dep. 28/02/2007, Muggianu, Rv. 235952).
L’accoglimento del primo motivo, nei termini suindicati, inoltre, consente a
questa Corte di pronunciare l’annullamento senza rinvio dell’impugnata
sentenza, anche con riferimento alla pena pecuniaria illegittimamente irrogata
per il delitto, che va conseguentemente elisa; in applicazione del disposto degli
artt. 620, lett. I) e 621 cod. proc. pen., questa Corte può peraltro procedere alla
rideterminazione della pena finale per il delitto, eliminando l’aumento disposto
dalla Corte territoriale per i reati contravvenzionali (pari a mesi 5 di reclusione),
così individuata la pena finale per il reato di violazione di sigilli, già considerato
l’aumento inflitto dalla Corte d’appello a titolo di continuazione interna, nella
misura finale di anni 3, mesi 1 di reclusione.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, quanto ai reati
contravvenzionali, perché estinti per prescrizione, nonché quanto alla pena
pecuniaria inflitta per il delitto, che elide.
9

7.

Determina la pena per il delitto in anni tre, mesi uno di reclusione.
Revoca l’ordine di demolizione.
Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 10 febbraio 2015

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