Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 19489 del 07/02/2018


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 19489 Anno 2018
Presidente: ROTUNDO VINCENZO
Relatore: CALVANESE ERSILIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Dell’Avvocato Giovanni, nato a Grumo Appula il 20/02/1953

avverso la sentenza del 19/09/2016 della Corte di appello di Bari

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Alfredo Pompeo Viola, che ha concluso chiedendo l’annullamento con
rinvio in ordine alla riqualificazione giuridica del fatto e rigetto del ricorso nel
resto;
udito il difensore, avv. Salvatore Tartaro, che ha concluso riportandosi ai motivi
di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Giovanni Dell’Avvocato ricorre avverso la sentenza indicata in epigrafe,
con la quale, sull’appello del P.M. e dell’imputato, è stata riformata, quanto al
riconoscimento del reato nella forma consumata e conseguentemente alla
determinazione della pena, la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Bari che lo aveva dichiarato, all’esito di giudizio abbreviato,
responsabile del reato di tentata concussione.

Data Udienza: 07/02/2018

All’imputato era stato contestato il reato di cui agli artt. 81, 110, 56, 317 e
317 cod. pen., per aver, quale autore materiale, in concorso con Primo
Scapellato, abusando della qualità e dei poteri di quest’ultimo, nominato perito di
ufficio (e del quale Dell’Avvocato era ausiliario) in un giudizio penale al fine di
stabilire le modalità di un incidente stradale che aveva coinvolto Nicola De Bellis,
con la reiterata minaccia della predisposizione di una perizia sfavorevole tanto da
“fargli perdere tutto”, da un lato posto in essere atti idonei e diretti in modo non
equivoco a costringere il De Bellis a versare loro la somma indebita di 20.000
euro, non riuscendovi per fatti indipendenti alla loro volontà, e dall’altro costretto

febbraio 2013 al 18 marzo 2013).
Secondo il primo giudice, il fatto accertato nei termini descritti dall’accusa
doveva essere qualificato come un unico reato nella forma tentata, in quanto al
netto rifiuto della persona offesa di corrispondere la somma inizialmente
richiesta, non poteva ritenersi perfezionata alcuna promessa di versamento in
favore degli imputati, posto che la successiva condotta della persona offesa
(versamento dei 5.000 euro), che aveva portato all’arresto di Dell’Avvocato, era
stata orientata dall’intervento della polizia.
La Corte di appello riteneva invece che la promessa di corrispondere la
somma richiesta era stata accolta dalla persona offesa prima della presentazione
della denuncia alla Guardia di finanza nel corso di una conversazione telefonica,
nella quale era stato precisato che la somma di 5.000 euro, che avrebbe dovuto
corrispondere, quale anticipo della somma promessa, era stata già raccolta
grazie a risparmi della madre.
Dagli atti, secondo la Corte di appello, non risultava che l’imputato avesse
ridotto l’iniziale richiesta, rappresentando i 5.000 euro solo un anticipo da
versare al perito, nè che fosse stata instaurata una trattativa in ordine al
quantum della iniziale richiesta, posto che la persona offesa aveva accettato di
corrispondere la somma richiesta, promettendo di recuperarla in qualche modo.

2. Deduce il ricorrente i seguenti motivi di annullamento, di seguito
enunciati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.:
– violazione di legge in relazione all’art. 443 cod. proc. pen., in quanto la
sentenza di primo grado non era appellabile dal P.M., non avendo il primo
giudice modificato il titolo del reato (la forma continuata era già contestata
nell’imputazione), ma avendo semplicemente qualificato il reato come unico;
– violazione dell’art. 357 cod. pen. e vizio di motivazione, non potendo
essere attribuita all’imputato, che rivestiva il ruolo di “ausiliario” del perito, la
qualifica di pubblico ufficiale, risultando illogiche le motivazioni della sentenza sia

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il medesimo a consegnare a titolo di acconto la somma di 5.000 euro (in Bari da

in ordine all’accordo sussistente tra il ricorrente e lo Scapellato, avendo il giudice
di merito fatto leva sulle dichiarazioni rese dal ricorrente in sede di incidente
probatorio (dalle quali non emergeva affatto tale accordo, trattandosi di iniziativa
personale assunta da quest’ultimo per intervenire ad ottenere una perizia
favorevole al De Bellis) sia in ordine allo svolgimento da parte del ricorrente di
pubbliche funzioni, avendo nella specie solo aiutato in attività di tipo materiale il
perito e non, come ritenuto in sentenza, sostituito quest’ultimo;
– violazione degli artt. 317 e 319-quater cod. pen., avendo la Corte di

prove, in ordine alla sussistenza sia dell’abuso (il ricorrente quando ebbe a
formulare la possibilità di influenzare il perito era un semplice privato) sia della
minaccia di un male ingiusto (trattandosi piuttosto di persuasione o suggestione
per tentare di convincere il De Bellis, consapevole della sua responsabilità
nell’aver causato il sinistro – come ebbe a dimostrare altra perizia e la dinamica
dell’incidente -, a corrispondergli la somma richiesta per un intervento

ad

adiuvandum, nella prospettiva quindi di ottenere la persona offesa un indebito
vantaggio).
– violazione di legge in ordine alla qualificazione giuridica del delitto nella
forma consumata, risultando contraddittoria la motivazione della sentenza
impugnata, dal raffronto delle due motivazioni delle sentenze di merito, in ordine
al momento in cui si sarebbe perfezionata la accettazione della promessa;
– violazione dell’art. 346-bis cod. pen. e vizio di motivazione sul punto, non
avendo la Corte di appello ravvisato il diverso reato previsto dalla citata norma,
con motivazione apparente e carente.
Il ricorrente ha allegato altresì la sentenza non impugnata dal P.M. e quindi
definitiva in ordine alla qualificazione del fatto, relativa alla condanna del
coimputato per il reato di cui all’art. 319-quater cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni di seguito illustrate.

2. Il primo motivo non ha fondamento.
Va valutato in primo luogo che la sentenza di primo grado era stata
appellata anche dall’imputato e che l’impugnazione del P.M. aveva ad oggetto la
diversa qualificazione giuridica del fatto, quindi un vizio ex art. 606 cod. proc.
pen.
Va rammentato il principio di diritto in tema di giudizio abbreviato, secondo
cui, quando l’imputato propone appello contro la sentenza di condanna,

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appello omesso di rispondere sulle censure di gravame e comunque travisato le

l’eventuale ricorso per cassazione del pubblico ministero si converte in appello
ma conserva la propria natura di impugnazione di legittimità: ne consegue che la
Corte di appello deve sindacarne l’ammissibilità secondo i parametri dell’art. 606
cod. proc. pen. ed i suoi poteri di cognizione sono limitati alle censure di
legittimità. Tuttavia, una volta che ritenga fondata una di dette censure, la Corte
riprende la propria funzione di giudice del merito e può adottare le statuizioni
conseguenti, senza necessariamente procedere in via formale all’annullamento
della pronuncia di primo grado (Sez. 6, n. 42694 del 23/10/2008, Raia, Rv.

6, n. 42810 del 25/09/2002, Ruberto, Rv. 223788).
Sotto altro verso, si deve rilevare che il giudice di primo grado ha
diversamente qualificato il fatto autonomamente contestato dal P.M. come
consumato (la concussione relativa ai 5.000 euro), non rilevando pertanto che
fosse stata contestata altra ipotesi di reato in forma tentata.

3. Anche il secondo motivo non ha pregio.
Appare dirimente osservare che l’azione tipica della concussione, fattispecie
appartenente alla categoria dei reati propri esclusivi o di mano propria del
pubblico agente, può essere posta in essere anche dal concorrente privo della
qualifica soggettiva, a condizione che costui, in accordo con il titolare della
posizione pubblica, tenga una condotta che contribuisca a creare nel soggetto
passivo quello stato di costrizione o di soggezione funzionale ad un atto di
disposizione patrimoniale, purché la vittima sia consapevole che l’utilità sia
richiesta e voluta dal pubblico ufficiale (tra le tante, Sez. 6, n. 21192 del
25/01/2013, Barla, Rv. 255365).
La questione del concorso risulta affrontata adeguatamente dalla sentenza
impugnata e il ricorrente propone solo una lettura alternativa delle prove, non
consentita in questa sede.
In particolare, la Corte di appello ha evidenziato le evidenze probatorie che
dimostravano plausibilmente che l’azione del ricorrente non era una iniziativa
autonoma fatta all’insaputa dello Scapellato, bensì che tra i due sussisteva un
preciso accordo per la realizzazione della condotta concussiva.
A tal fine, la Corte territoriale ha illustrato efficacemente la sequenza delle
conversazioni captate: ai contatti intrapresi dal ricorrente con il De Bellis, erano
seguite subito le informazioni riportate dal primo allo Scapellato ampiamente
indicative della raccolta del denaro che stava effettuando il De Bellis; altrettanto
significativa è la conversazione in cui il ricorrente si era dato appuntamento con
il De Bellis per il pomeriggio stesso, assicurando di aver parlato della “cosa” con
la persona, da identificarsi con lo Scapellato, seguita dopo pochi minuti da quella

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241872; Sez. 2, n. 4468 del 17/12/2008, dep. 2009, D’Avino, Rv. 243277; Sez.

intercorsa tra i due coimputati nella quale con linguaggio criptico ed allusivo
avevano fatto riferimento all’appuntamento fissato in giornata con “quell’amico”
per “quella cosa”.

4. Non possono trovare accoglimento neppure le critiche versate nel terzo
motivo.
In ordine alla rilevanza della qualificazione soggettiva del ricorrente, si è già
detto nel motivo che precede.
Quanto alla riconducibilità del fatto nell’ipotesi di cui all’art. 319-quater cod.

questione sollevata con il gravame.
Va rammentato che il delitto di concussione, di cui all’art. 317 cod. pen. nel
testo modificato dalla I. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista
oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante
violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva
una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza
alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un
danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si
distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319-quater cod. pen.
introdotto dalla medesima I. n. 190, la cui condotta si configura come
persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in
un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante
della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più
ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della
prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un
tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico
(Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera, Rv. 258470).
Le stesse Sezioni Unite ora richiamate hanno osservato che può accadere
che minaccia ed offerta si fondano in un’unica realtà inscindibile, che può essere
fonte di una qualche difficoltà ermeneutica. In questi casi ambigui, hanno
precisato che l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio
indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del
fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere
la vicenda concreta.
E’ necessario, in altre parole, accertare se il vantaggio indebito annunciato
abbia prevalso sull’aspetto intimidatorio, sino al punto da vanificarne l’efficacia, e
se il privato si sia perciò convinto di scendere a patti, pur di assicurarsi, quale
ragione principale e determinante della sua scelta, il lucroso contratto, lasciando
così convergere il suo interesse con quello del soggetto pubblico. Ovvero, se il

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pen., la sentenza impugnata ha adeguatamente e correttamente affrontato la

vantaggio indebito sia rimasto marginale rispetto al danno ingiusto minacciato,
così che quest’ultimo abbia finito per sovrastare il primo.
Orbene, efficacemente la Corte di appello ha messo in evidenza che al
momento della condotta realizzata dal ricorrente nessun elemento di conoscenza
poteva far ritenere che la persona offesa fosse al corrente dell’esito degli
accertamenti peritali, avendo dalla sua parte piuttosto una sentenza civile di
primo grado che gli dava ragione, e che il ricorrente aveva fatto intendere alla
persona offesa che l’alea (se vincere o perdere) dipendesse dalla perizia che gli

tutto” e non solo parte della somma (in secondo grado effettivamente ridotta a
50.000 euro).
Proprio questa prospettazione dimostrava che il privato era stato posto nella
condizione di dover sottostare alle richieste del ricorrente pur di conseguire i
risultati voluti, che, per quanto legittimi, altrimenti sarebbero rimasti
irraggiungibili, a fronte della minacciata arbitraria trattazione della perizia.
I denunciati “travisamenti della prova” in ordine ai termini della minaccia
prospettata dal ricorrente, lungi dal proporre il vizio di motivazione previsto
dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., lett. e) cod. proc. pen., finiscono
per delineare soltanto una diversa, quanto preclusa lettura delle evidenze
processuali (tra tante, Sez. 1, n. 47252 del 17/11/2011, Esposito, Rv. 251404).
La Corte di appello ha in ogni caso riportato in calce i passaggi salienti delle
captazioni dalle quali ha plausibilmente tratto gli elementi di convincimento.

5. Il quarto motivo, relativo alla qualificazione giuridica del delitto nella
forma consumata, si risolve nella sola comparazione tra la motivazione della
sentenza di primo grado e quella di appello sul punto, che ad avviso del
ricorrente avrebbe dato luogo al vizio di contraddittorietà della motivazione.
Va rammentato che tale vizio consiste nel concorso, dialetticamente irrisolto,
di proposizioni – testuali ovvero extra-testuali e contenute in atti del
procedimento specificamente indicati dal ricorrente – concernenti punti decisivi e
assolutamente inconciliabili tra loro, tali che l’affermazione dell’una implichi
necessariamente e univocamente la negazione dell’altra e viceversa (Sez. 1, n.
53600 del 24/11/2016, dep. 2017, Sanfilippo, Rv. 271635).
Quindi, come formulata dal ricorrente, la censura è generica e mal posta.

6. Il quinto motivo, concernente la diversa qualificazione del fatto nella
fattispecie delittuosa prevista dall’art. 346-bis cod. pen., non ha pregio, posto
che è evidente che l’analisi condotta dalla Corte territoriale portava ad escludere,
con effetto assorbente, le altre ipotesi delittuose prospettate dalla difesa.

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imputati dovevano redigere, con la possibilità per la persona offesa di “perdere

Invero, il delitto di traffico di influenze, di cui all’art. 346-bis cod. pen., si
caratterizza, dal punto di vista strutturale, per la connotazione causale del
prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione e non potendo,
quindi, neppure in parte, essere destinato all’agente pubblico (Sez. 6, n. 4113
del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269736).
Si è chiarito, infatti, che il reato di cui all’art. 346-bis cod. pen. punisce un
comportamento propedeutico alla commissione di un’eventuale corruzione e la
clausola di esclusione presuppone che, in concreto, non sia ravvisabile il delitto

di una relazione esistente con pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio,
fermo restando che il denaro o l’utilità patrimoniale devono essere rivolti a chi è
chiamato ad esercitare l’influenza e non al soggetto che esercita la pubblica
funzione (Sez. 6, n. 18999 del 02/02/2016, Polizzi, Rv. 267818).

7. Non appare rilevante infine che il coimputato Scapellato, giudicato
separatamente con rito ordinario, sia stato condannato per il reato di cui all’art.

319-quater cod. pen.
Il contrasto di giudicati rilevante ai fini della revocabilità di un
provvedimento definitivo non ricorre infatti nell’ipotesi in cui lo stesso veda sulla
valutazione giuridica attribuita agli stessi fatti dai due diversi giudici (tra le tante,
Sez. 6, n. 15796 del 03/04/2014, Strappa, Rv. 259804).
Inoltre, nulla esclude allo stato che in sede di appello il fatto sia
diversamente qualificato: non sussiste invero la violazione del divieto di
“reformatio in peius” qualora, ancorché sia proposta impugnazione da parte del
solo imputato, il giudice di appello, senza aggravare la pena inflitta, attribuisca al
fatto una diversa e più grave qualificazione giuridica (Sez. 2, n. 27460 del
13/06/2014, Manzo, Rv. 259567).

8. Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere quindi rigettato con
la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 0,7/02/2018.

di corruzione e neppure un’ipotesi di concorso, presupponendosi lo sfruttamento

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